mercoledì 28 ottobre 2020

Nel dì dei morti

 

                                                                  Il morire è nulla: è il non vivere

                                                                                      che riesce orribile.

                                                                                      V. HUGO

 

 

I

Suonano a festa: olezzan di viole

Le morte zolle e si rallegra la terra;

Cantano gli augelli, sfogliansi le aiuole...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

Inverno riede; Autunno, come suole,

L’ultime gemme dei fiori disserra,

Ronzano insetti e volteggiano al sole...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

Dormono stesi, immobili, stecchiti

Nell’umido, che stilla entro la fossa,

Col lenzuol roso e co’ stinchi imbianchiti.

 

O padre mio, una voce mi dice

E mi suona nell’anima commossa

Che tu sei morto e non fosti felice!

 

 

II

Che felice non fosti! È questo ingrato

Rimembrar che la mia vita addolora,

È il rimembrar che de’ tuoi cari il fato

Non allietò la tua fredda dimora;

 

Ma dimmi, per le lacrime, che dato

Mi fia versar su la tua fossa ancora,

D’un’altra vita, in forme altri rinato,

Vedesti o vedi una più lieta aurora?

 

Dimmi: pel duolo ond’è l’anima oppressa

Per il negro avvenir, che m’impaura,

È una mercede alla virtú concessa?

 

Ma tutto è muto! - Il sol dall’alto sferra

Gli ultimi raggi, e sorride natura...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

 

I due sonetti che compaiono in questo post e che portano il titolo Nel dì dei morti, sono di Iginio Ugo Tarchetti (pseudonimo di Igino Pietro Teodoro Tarchetti, San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969) e furono pubblicati all'interno della raccolta postuma Disjecta. Versi (Zanichelli, Bologna 1879); dalla pagina 5 e 6 di detto volume li ho trascritti. In seguito, questi versi comparvero in diverse antologie della poesia italiana più o meno importanti, ed ora è possibile leggerli, insieme a tutti i versi dello scrittore piemontese, in Disjecta. Frammenti lirici, a cura di Roberto Mosena, Carabba, Lanciano 2017. Grazie a quest'ultimo volume, sono venuto a sapere che i due sonetti fecero la loro prima comparsa nel novembre del 1867, sulla rivista L'Illustrazione universale. Poi, comparvero di nuovo nella strenna Il Presagio (Bontà e Co., Milano 1868); qui, tra l'altro, vengono inseriti un luogo e una data di composizione: Milano, 1 novembre 1867, che meglio spiegano la frase del primo verso ("Suonano a festa"), ovvero il fatto che i sonetti furono scritti nel giorno di Ognissanti, che precede quello della commemorazione dei defunti. Per quel che riguarda il contenuto dei due sonetti, iniziando dal primo si può dire che le due quartine si limitano a descrivere l'ambiente e il paesaggio in cui il poeta si trova: il camposanto dove è situata la tomba del genitore, in una giornata mite d'autunno; sembrerebbe quasi l'inizio di un idillio, se non ci fosse quell'inquietante verso che chiude entrambe le quartine, a sottolineare il silenzio dei morti, e il conseguente malessere che si insinua nel poeta. La prima terzina del primo sonetto mostra la tendenza - comune in quasi tutti gli scapigliati - al gusto del macabro, insistendo troppo su particolari riguardanti il cadavere e le cose che lo circondano, sinceramente superflui. La seconda terzina aumenta ancor di più la drammaticità del contesto, a causa di quella voce interiore percepita dal poeta, che sottolinea l'infelicità cronica del padre del poeta, durata praticamente per tutta la sua vita. Il secondo sonetto, se possibile, rincara ancor di più la dose di drammaticità e di disperazione, con affermazioni relative alla sorte dei familiari (cari) più intimi, sia di Tarchetti che del padre, evidentemente poco fortunata. Quindi, nella seconda quartina e nella prima terzina, il poeta inizia una sorta di dialogo col genitore, quasi convinto che il povero defunto possa in qualche modo rispondergli; in particolare gli chiede se, dopo la morte, abbia avuto la possibilità di rinascere di nuovo, magari in altra forma vivente e con una nuova possibilità di trovare quella felicità mai assaporata nella prima vita; poi gli chiede ancora, se per tutto l'immenso dolore provato dall'anima e per il fortissimo timore dell'incerto futuro (sentimenti provati sia dal padre che dal poeta stesso) ci sia, dopo la morte, finalmente un riscatto. Si arriva infine all'ultima terzina, che rimarca il silenzio assoluto dei morti, impossibilitati a rispondere sia a questa che a qualunque altra domanda esistenziale; la poesia trova il suo epilogo nello stesso modo in cui aveva trovato il suo prologo: con la contraddittoria serenità che si respira in quel luogo destinato alle persone scomparse; la natura ancora offre, sebbene l'autunno sia già iniziato da un pezzo, giornate soleggiate e tiepide, mentre i morti, sotto terra, non possono né parlare e né guardare quel paesaggio così incantevole e rassicurante.


Iginio Ugo Tarchetti


sabato 24 ottobre 2020

La nebbia nella poesia italiana decadente e simbolista

 La nebbia, come è facile immaginare, simboleggia assai frequentemente uno stato di incertezza e di indeterminatezza che può anche trasformarsi in confusione totale; esprime, soprattutto pensando ad alcuni poeti crepuscolari, una realtà per nulla chiara né rassicurante, bensì grigia, al limite della tetraggine. Ma la nebbia può avere anche altri significati; per esempio, in una delle poesie più note di Giovanni Pascoli, la vita appare come una valle sommersa da una nebbia fitta, che impedisce di vedere in modo nitido qualunque cosa circostante, e quindi permette soltanto d'intuire o d'interpretare soggettivamente ciò che è lì intorno; insomma, l'esistenza equivale a questo paesaggio indefinito e misterioso, di cui si sa poco o nulla e di cui poco o nulla possiamo dire.

 


 

Poesie sull'argomento

 

Sandro Baganzani: "Nella nebbia" in "Senzanome" (1924).

Pompeo Bettini: "Nel vel di una nebbia che bagna" in "Versi e acquerelli" (1887).

Francesco Cazzamini Mussi: "Nebbie" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).

Ida Finzi: "A Miramar d'ottobre" in "Poesia", agosto 1908.

Diego Garoglio: "Nebbia d'autunno" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Ugo Ghiron: "Nella bruma" in "Poesie (1908-1930)" (1932).

Giulio Gianelli: "Nebbia" in «Gazzetta del Popolo della Domenica», agosto 1900.

Marino Marin: "Quando a l'alito fosco..." in "Sonetti secolari" (1896).

Pietro Mastri: "Effetti di nebbia" in "La Meridiana" (1920).

Nino Oxilia: "La nebbia fascia la città..." in "Canti brevi" (1909).

Aldo Palazzeschi: "Diaframma di evanescenze" in "I cavalli bianchi" (1905).

Aldo Palazzeschi: "Festa grigia" in "Lanterna" (1907).

Giovanni Pascoli: "Nebbia" in "Canti di Castelvecchio" (1903).

Giovanni Pascoli: "Nella nebbia" in "Poemetti" (1900).

Giacinto Ricci Signorini: "A grandi ondate i venti furiosi" in "Poesie e prose" (1903).

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Motivo grigio" in «Svegliarino», agosto 1897.

Agostino John Sinadinò: "Succube, dal volto delle acque..." in "La Festa" (1900).

 

 

 

Testi

 

NEL VEL DI UNA NEBBIA CHE BAGNA

di Pompeo Bettini

 

    Nel vel di una nebbia che bagna

vedemmo morir la campagna

    divisa in rettangoli a prati

da file di salci spogliati.

    Le foglie cadute dai rami

gremivan di mesti ricami

    la terra, e marcivano in pace;

o volte in un giallo vivace

    pezzavano gli alberi in guazzo

e avevano il rider d'un pazzo.

    Al fischio di sciocco tranello

volava a riprese un uccello.

    Pioveva col crescer del giorno

e noi volgevamo al ritorno,

    bagnata di nebbia la fronte,

guardando l'angusto orizzonte,

    la sola unità di misura

d'un piano di morta natura.

 

(da "Versi e acquerelli")

 

 

 

 

NELLA NEBBIA

di Giovanni Pascoli

 

E guardai nella valle: era sparito

tutto! sommerso! Era un gran mare piano,

grigio, senz'onde, senza lidi, unito.

 

E c'era appena, qua e là, lo strano

vocio di gridi piccoli e selvaggi:

uccelli spersi per quel mondo vano.

 

E alto, in cielo, scheletri di faggi,

come sospesi, e sogni di rovine

e di silenziosi eremitaggi.

 

Ed un cane uggiolava senza fine,

né seppi donde, forse a certe péste

che sentii né lontane né vicine:

 

eco di péste ne tarde né preste,

alterne, eterne. Ed io laggiù guardai:

nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.

 

Chiesero i sogni di rovine: Mai

non giungerà? Gli scheletri di piante

chiesero: E tu chi sei, che sempre vai?

 

Io, forse, un'ombra vidi, un'ombra errante

con sopra il capo un largo fascio. Vidi,

e più non vidi, nello stesso istante.

 

Sentii soltanto gl'inquieti gridi

d'uccelli spersi, l'uggiolar del cane,

e, per il mar senz'onde e senza lidi,

 

le péste né vicine né lontane.

 

(da "Poemetti")

 

 

Claude Monet, "Houses of Parliament in the Fog"
(da questa pagina web)


mercoledì 21 ottobre 2020

Giorno d'autunno

 Signore: è tempo. Grande era l'arsura.

Deponi l'ombra sulle meridiane,

libera il vento sopra la pianura.

 

Fa' che sia colmo ancora il frutto estremo;

concedi ancora un giorno di tepore,

che il frutto giunga a maturare, e spremi

nel grave vino l'ultimo sapore.

 

Chi non ha casa adesso, non l'avrà.

Chi è solo, a lungo solo dovrà stare,

leggere nelle veglie, e lunghi fogli

scrivere, e incerto sulle vie tornare

dove nell'aria fluttuano le foglie.

 




Questi versi sono del poeta Rainer Maria Rilke (Praga 1875 - Les Planches 1926), e li ho trascritti dall' antologia Poeti del Novecento italiani e stranieri, curata da Elena Croce e pubblicata a Torino dall'editore Einaudi nel 1960. Più precisamente la poesia si trova alla pagina 474 nella versione in lingua tedesca (vedi la foto in alto) e alla pagina seguente nella traduzione in italiano di Giaime Pintor (Roma 1919 - Castelnuovo al Volturno 1943). L'argomento, come si capisce facilmente, è l'autunno; nella prima parte il poeta compone una sorta di preghiera in versi, implorandolo il Signore a far sì che la nuova stagione sia clemente e conceda agli uomini la possibilità di ottenere i massimi risultati dalle attività agricole connesse con il periodo autunnale: maturazione e raccolta dei frutti, vendemmia e semina. Quindi il poeta si lascia andare a meditazioni che mostrano un pessimismo senza scampo. Gli ultimi tre versi, che potrebbero essere collegati al precedente, in cui si evidenzia uno stato di solitudine permanente e forzata, sembrano descrivere le attività giornaliere del poeta stesso, compresa quell'incertezza del vivere accentuata da un senso profondo di caducità, simboleggiato dalle foglie fluttuanti lungo le vie: tipicità di paesaggi che è facilissimo osservare nella stagione autunnale, sia in città che in campagna.

domenica 18 ottobre 2020

"Cuor mio" di Aldo Palazzeschi

 Cuor mio è il titolo di un volume poetico scritto da Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, Firenze 1885 - Roma 1974), pubblicato dalla Mondadori nel 1968, che ha segnato il ritorno alla poesia dello scrittore fiorentino dopo un lunghissimo periodo di pausa - circa cinquant'anni - in cui Palazzeschi si dedicò completamente alla prosa con ottimi risultati. Sorprendente fu per i lettori giovani e non solo, la scoperta di un talento poetico rimasto intatto, migliorato anzi dalla saggezza dello scrittore che si cimenta, cosa esclusivamente presente in quest'opera, anche con la poesia in lingua francese, dimostrando ancora una volta la sua indiscussa bravura. Palazzeschi pubblicò il suo primo libro di versi a soli vent'anni, continuò poi a scrivere poesie attraversando tutte le correnti più significative del primissimo Novecento e divenendo in breve assai famoso negli ambienti letterari più autorevoli. Dopo L'incendiario, la cui seconda edizione, accresciuta di nuove poesie, uscì nel 1913, Palazzeschi smise di pubblicare volumi di versi e intensificò la sua produzione di romanzi, alcuni dei quali, di ottima fattura, lo resero celebre (basti citare Le sorelle Materassi). Cuor mio contiene in tutto 54 poesie, di cui le prime 38 sono in lingua italiana, le rimanenti, raccolte nella sezione Quadretti parigini, sono in lingua francese. Concludo riportando alcuni estratti dalla seconda edizione di Cuor mio, il cui piatto esteriore è riportato nella foto che segue questo mio breve saggio: inizialmente compaiono dei frammenti relativi alla prefazione del poeta al suo libro, in cui lo scrittore chiarisce sia come cominciò a scrivere dei versi, sia come ritornò, dopo un lungo periodo, a riscriverli; segue la trascrizione di alcuni versi tratti dalla poesia Il grillo del Ponte Vecchio.


"CUOR MIO" DI ALDO PALAZZESCHI

 





«Scrissi delle poesie fra il 1904 e il 1914 e aggiungerò, per essere preciso, come la maggior parte di esse furono scritte fra il 1904 e il 1909. Ne avevo scritte anche prima ma quelle non contano, non essendo pervenute alla pubblicazione erano destinate al Limbo come coloro che non ricevettero il battesimo [...].

Ma tornando alle poesie ricordo a tale proposito di averne scritta una direttamente col sangue: sì, servendomi di un temperino per aprire una boccettina d'inchiostro, a quel tempo i tappi erano di sughero, mi ferii una mano e tuffando la penna nella piccola ferita scrissi una poesia di otto versi [...].

Ma ecco che quasi dopo trent'anni mi venne fatto, e potrei dire senza accorgermene, senza volerlo in modo assoluto, di scrivere una poesia, chi sa perché? Potrei direttamente aggiungere che la poesia si scrisse da sola. risorgeva nel mio animo un ricordo nostalgico della gioventù all'avvicinarsi della vecchiaia? Perché avevo scritto delle poesie prima? Perché durante trent'anni non ne avevo scritte più?. E perché dopo tanto tempo con la medesima spontaneità di allora ripresi a scriverne qualcuna quasiché invece di trent'anni fosse passato solo qualche giorno? Come nascono tacciono e rifioriscono consuetudini di questo tipo? Non sapendolo, lo domando a voi, che per poco ne sappiate ne sapete più di me certo».

 (da "Cuor mio", Mondadori, Milano 1975, pp. 14-16)

 

 

 

 

Da "IL GRILLO DEL PONTE VECCHIO"

 

Quando abitavo alla Costa San Giorgio

e ad ora tarda

risalivo ogni notte al mio aereo domicilio

per il riposo notturno

prima d'incominciare l'irto percorso

che mi portava a quello

dovevo attraversare il Ponte Vecchio deserto.

E mi accorsi

in una notte di Maggio

come la solennità di tanto vuoto

giunta a una levità

che mi faceva rattenere il respiro

e galleggiante

nel monotono e sommesso

mormorare dell'Arno

nel suo corso

fosse popolata

dal canto di un grillo:

cri... cri... cri... cri...Pareva in quel silenzio

che a così esile voce

 venissero lasciate

in ogni dimensione

le vie dello spazio.

E siccome da un tal fatto

la mia attenzione

venne colpita la notte dopo

da quella notte

il mio passaggio sul Ponte Vecchio

si associò a quel canto

e non udendolo

talvolta

 

Copertina anteriore di "Cuor mio"

immaginando una tregua

del lirico travaglio

attesi un poco

attesi incerto...

cri... cri... cri... cri...

appena udito

procedetti contento.

...

 (da "Cuor mio", Mondadori, Milano 1975, pp. 88-89)

mercoledì 14 ottobre 2020

Quanta vita

 «Quanta vita» si leva una voce alta di bambino

dove uccelli e uccelli strappati al pigolio di ramo in ramo

filano tra la perdita di foglie del bosco nel freddo controluce

e tracciano una scia di piume e strida, lasciano quelle rotte frasi

d'un discorso arrivato al dunque, festa

e fuga, mentre uomini appostati

ne preparano lo sterminio; «quanta

vita» ripetono quegli ultimi più luminosi sbattimenti d’ali

per tutta la boscaglia tra mare ed acquitrinio.

 

E qui, in luoghi ben lontani, ma in un tempo

che come quello non perdona, mentre

incrocio per questa via di banche

senza un cenno d’intesa

compagni d’altri tempi

trascinati da un vento oscuro tra le porte vigilate

e li vedo ansiosi, simili ad uccelli ritardatari, vinti

e arsi dentro da un fuoco indefinibile,

consunto, non ancora spento, presunzione

di forza dove non è forza, orgoglio

d’una fede che non è fede, «quanta

vita» ripete quella voce di nove anni

alla coscienza troppo adulta, troppo

chiara, di nuovo «quanta vita»

che non si percepisce mai la vita

così forte come nella sua perdita.

 



 

Questa poesia è di Mario Luzi (Castello 1914 - Firenze 2005), e fa parte della raccolta Dal fondo delle campagne, pubblicata dall'editore Einaudi di Torino nel 1965; più esattamente la si trova a pagina 57, e proprio da lì l'ho trascritta. Ritengo questi versi del poeta fiorentino, tra i migliori della poesia italiana del Novecento e non solo. Il titolo, che apparentemente sembrerebbe descrivere una esplosione di vitalità, rappresenta soltanto un'astrazione, ovvero un pensiero che appartiene ad animali e ad esseri umani che appaiono nei versi sopra riportati. L'espressione "Quanta vita", che apre la poesia, è una frase pronunciata da un bambino di nove anni che, meravigliato, osserva un nutrito stormo d'uccelli mentre fuggono dai rami degli alberi di un bosco dove si erano appollaiati, e, inconsapevoli si dirigono in direzione dei cacciatori appostati con i loro fucili e pronti a sterminarli; mentre le foglie degli alberi, ormai secche, cadono giù, e mentre gli uccelli si avvicinano alla loro fine, misteriosamente si sente ripetere quell'espressione iniziale, fortemente contraddittoria in quanto si prefigurano soltanto eventi che indicano la fine della vita (sia delle foglie che dei volatili); e tale espressione sembra provenire dal rumore che fanno le ali degli uccelli in fuga, quasi fossero gli animali stessi a pronunciarla, nel momento in cui stanno per morire.

La seconda parte della poesia si riferisce ad un'altra ambientazione, lontana dalla precedente, ma altrettanto crudele; il poeta sta camminando per le strade di una città (probabilmente la sua), che però ritrova cambiata, per la presenza di diverse banche che prima non esistevano; e passando incrocia vecchi amici che riconosce, ma la sua speranza di ricevere un saluto o per lo meno un cenno di riconoscimento da loro, risulta vana: essi,  trascinati da un vento oscuro tra le porte vigilate delle banche, sembrano più che mai ostili e forse preoccupati, ansiosi. Ma qual è il motivo della loro ansia? probabilmente il fatto di possedere, proprio all'interno di quelle banche, una cospicua quantità di ricchezze; queste ricchezze possedute fanno sì che salga la loro presunzione di forza; e la loro fede per il "dio denaro" sale allo stesso modo, facendoli sentire quasi onnipotenti; ma allo stesso tempo sale dentro di essi anche la paura di perdere tutto ciò che hanno accumulato, e che, per loro, rappresenta la sola forza di cui sono in possesso. Ma ecco che ricompare la voce del bambino che ripete di nuovo l'espressione iniziale, ponendo in risalto la forza della vita, e nello stesso tempo la sua labilità. È proprio quando la vita viene meno che ci si accorge di quanto sia importante, e davanti alla sua dolorosa scomparsa comprendiamo finalmente che è l'unica cosa che possediamo, e che siamo costretti, alla fine, a perderla, insieme a tutti i beni materiali che avevamo accumulato negli anni.

domenica 11 ottobre 2020

Antologie: I Poeti Italiani del Secolo XIX

 Questo volume, che fu pubblicato dalla Treves di Milano nel 1913, a mio avviso rappresenta una delle migliori opere antologiche dedicate alla poesia italiana dell'Ottocento, ed è anche una delle prime e delle più esaurienti mai pubblicate nel XX secolo. Il curatore è Raffaello Barbiera (Venezia 1851 - Milano 1934), poeta egli stesso, che aveva già curato e pubblicato altre antologie interessanti diversi anni prima di questa, che è certamente la più completa. Nelle 1346 pagine che la compongono, vi sono rappresentati egregiamente ben 160 poeti. Dopo il proemio (scritto dal curatore) e l'indice, con il ritratto di Vincenzo Monti inizia la lunga sfilata di poeti che si conclude con Gabriele D'Annunzio. Per ognuno di essi è presente una biografia più o meno lunga, delle note riguardanti le poesie trascritte e, soltanto per i più insigni, dei ritratti. Gli esclusi, che poi non sono così tanti, vengono comunque citati e brevemente descritti all'interno delle presentazioni dei poeti presenti. Nel complesso la reputo un'ottima antologia, sia perché tende alla massima inclusione possibile, sia perché sceglie testi significativi e di valore. Chiudo, come sempre, riportando l'elenco dei poeti presenti nell'antologia di cui ho appena parlato.

 

I POETI ITALIANI DEL SECOLO XIX 




Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, Ippolito Pindemonte, Giovanni Torti, Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet, Gabriele Rossetti, Giambattista Niccolini, Silvio Pellico, Giunio Bazzoni, Giovita Scalvini, Pietro Giannone, Jacopo Sanvitale, Francesco Benedetti, Dionigi Strocchi, Paolo Costa, Francesco Cassi, Cesare Arici, Giuseppe Niccolini, Lorenzo Costa, Giacomo Leopardi, Giovanni Marchetti, Lavinio De' Medici Spada, Eduardo Fabbri, Diodata Saluzzo-Roero, Caterina Bon-Brenzoni, Caterina Franceschi-Ferrucci, Giuseppina Turrisi-Colonna, Rosina Salvo-Muzio, Giuseppe Borghi, Lionardo Vigo, Giuseppe Pozzone, Samuele Biava, Filippo Pananti, Antonio Guadagnoli, Tommaso Gargallo, Felice Romani, Terenzio Mamiani, Felice Bellotti, Bartolommeo Sestini, Carlo Marenco, Pasquale Besenghi degli Ughi, Alessandro Poerio, Luigi Carrèr, Giuseppe Giusti, Niccolò Tommasèo, Giuseppe Barbieri, Giuseppe Capparozzo, Cesare Cantù, Andrea Maffei, Francesco Dall'Ongaro, Antonio Somma, Antonio Gazzoletti, Jacopo Cabianca, Cesare Betteloni, Giovanni Prati, Giuseppe Regaldi, Giulio Uberti, Carlo Bini, Giuseppe Montanelli, Giuseppe Arcangeli, Emilio Frullani, Luigi Goracci, Antonio Peretti, Agostino Cagnoli, Luigi Sani, Domenico Carbone, Giuseppe Bertoldi, Costantino Nigra, Cesare Correnti, Goffredo Mameli, Giuseppe Ricciardi, Paolo Emilio Imbriani, Domenico Mauro, Arnaldo Fusinato, Erminia Fuà-Fusinato, Teobaldo Ciconi, Salvatore Viale, Giuseppe Multedo, Aleardo Aleardi, Luigi Mercantini, Giulio Carcano, Ippolito Nievo, Giuseppe Revere, Tullio Massarani, Carlo Tenca, Alessandro Arnaboldi, Carlo Baravalle, Saverio Baldacchini, Pietro Paolo Parzanese, Nicola Sole, Vincenzo Padùla, Felice Bisazza, Emanuele Giaracà, Michele Bertolami, Vincenzo Errante, Giuseppe De Spuches, Vincenzo Amore, Concetta Ramondetta-Fileti, Giannina Milli, Maria Giuseppa Guacci-Nobile, Laura Beatrice Mancini-Oliva, Grazia Pierantoni-Mancini, Luisa Grace-Bartolini, Francesca Lutti, Pietro Giuria, Anselmo Guerrieri-Gonzaga, Vincenzo Riccardi di Lantosca, Antonio Baratta, Francesco Proto di Maddaloni, David Levi, Vincenzo Baffi, Paolo emilio Castagnola, Giambattista Maccari, Giuseppe Maccari, Luigi Bonazzi, Paolo Giacometti, Paolo Ferrari, Leopoldo Marenco, Pietro Cossa, Giuseppe Giacosa, Felice Cavallotti, Achille Torelli, Antonio Ghislanzoni, Giacomo Marchini, Amilcare Finali, Gaspare Finali, Anton Giulio Barrili, Giuseppe Cesare Abba, Luigi Morandi, Bernardino Zendrini, Emilio Praga, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Vittorio Betteloni, Gaetano Lionello Patuzzi, Iginio Ugo Tarchetti, Giulio Pinchetti, Giosuè Carducci, Enrico Nencioni, Giovanni Raffaelli, Giacomo Zanella, Giuseppe Manni, Domenico Gnoli, Mario Rapisardi, Tommaso Cannizzaro, Enrico Panzacchi, Lorenzo Stecchetti, Neri Tanfucio, Ferdinando Martini, Giovanni Rizzi, Fausto Bonò, Leonardo Perosa, Luigi Pinelli, Carlo Facciòli, Ferdinando Galanti, Antonio Fogazzaro, Angelo De Gubernatis, Arturo Graf, Edmondo De Amicis, Vittorio Imbriani, Domenico Milelli, Alberto Ròndani, Giuseppe Aurelio Costanzo, Giovanni Marradi, Guido Mazzoni, Remigio Zena, Ferdinando Fontana, Emilio De Marchi, Corrado Corradino, Luigi Grilli, Severino Ferrari, Arturo Colautti, Giuseppe Picciòla, Cesare Rossi, Riccardo Pittèri, Giovanni Alfredo Cesareo, Angiolo Orvieto, Luigi Conforti, Alfredo Baccelli, Giovanni Cena, Giovanni Bertacchi, Francesco Pastonchi, Diego Garoglio, Guglielmo Felice Damiani, Luigi Orsini, Maria Alinda Brunamonti-Bonacci, Maria Ricci-Paternò-Castello, Contessa Lara, Ada Negri, Vittoria Aganoor, Annie Vivanti, Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio.

mercoledì 7 ottobre 2020

Deserta sera di pioggia

 Deserta sera di pioggia

va battendo alla finestra

e il lume lento della strada:

dispersi gli ultimi canti

il prato e il cuore

rimangono a bagnarsi...

Atti da raccogliere

al termine d'un giorno!

Umida sola sera,

ora dolorosa.

 


 


Questi dieci versi senza titolo sono di Leo Paolazzi e fanno parte di un'esigua raccolta intitolata Calendario che fu pubblicata dall'editore Schwarz di Milano nel 1956. Per chi non lo sapesse già, l'autore, che all'uscita del suo libro d'esordio usava ancora il suo nome originale, altri non è che Antonio Porta (Vicenza 1935 - Roma 1989), ovvero uno dei più celebri rappresentanti di quel gruppo di poeti che furono definiti Novissimi (tra gli altri c'erano Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani e Nanni Balestini) e che contribuirono non poco al rinnovamento del linguaggio poetico, rivoluzionandolo completamente e, come avvenne nel caso dei futuristi, lasciando spesso sconcertato il pubblico della poesia, per via di arditezze e sperimentazioni inimmaginabili. Come si potrà notare da questi pochi versi, il debutto letterario di Porta non fu affatto caratterizzato da tentativi o da esperimenti poetici atti a stravolgere la base del fare poetico tradizionale; i suoi punti di riferimento iniziali furono scrittori come Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni e Sandro Penna, ovvero poeti che prediligevano la semplicità e che spesso adottavano, quali componimenti poetici preferiti di gran lunga agli altri, l'epigramma e il madrigale per esprimere i loro sentimenti, le loro sensazioni o , più semplicemente, i loro pensieri. Deserta sera di pioggia ne è un esempio, visto che il poeta qui ci parla di un momento della giornata alquanto malinconico: una desolata sera di pioggia osservata dai vetri di una finestra, e il conseguente stato d'animo colmo di tristezza, di chi si sente il cuore "fradicio", come lo è il prato situato all'esterno dell'abitazione, che fatica ad assorbire tutta l'acqua che è caduta. I due versi finali, bellissimi, esprimono ancor più chiaramente i sentimenti del poeta di fronte a quel paesaggio e a quel momento preciso della giornata: una sensazione di umidità che tende a far rabbrividire; il freddo che viene ancor più avvertito a causa della solitudine, divenendo così vero e proprio dolore fisico e mentale, mentre il tempo sembra essersi fermato a quell'ora così straziante.