mercoledì 28 ottobre 2020

Nel dì dei morti

 

                                                                  Il morire è nulla: è il non vivere

                                                                                      che riesce orribile.

                                                                                      V. HUGO

 

 

I

Suonano a festa: olezzan di viole

Le morte zolle e si rallegra la terra;

Cantano gli augelli, sfogliansi le aiuole...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

Inverno riede; Autunno, come suole,

L’ultime gemme dei fiori disserra,

Ronzano insetti e volteggiano al sole...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

Dormono stesi, immobili, stecchiti

Nell’umido, che stilla entro la fossa,

Col lenzuol roso e co’ stinchi imbianchiti.

 

O padre mio, una voce mi dice

E mi suona nell’anima commossa

Che tu sei morto e non fosti felice!

 

 

II

Che felice non fosti! È questo ingrato

Rimembrar che la mia vita addolora,

È il rimembrar che de’ tuoi cari il fato

Non allietò la tua fredda dimora;

 

Ma dimmi, per le lacrime, che dato

Mi fia versar su la tua fossa ancora,

D’un’altra vita, in forme altri rinato,

Vedesti o vedi una più lieta aurora?

 

Dimmi: pel duolo ond’è l’anima oppressa

Per il negro avvenir, che m’impaura,

È una mercede alla virtú concessa?

 

Ma tutto è muto! - Il sol dall’alto sferra

Gli ultimi raggi, e sorride natura...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

 

I due sonetti che compaiono in questo post e che portano il titolo Nel dì dei morti, sono di Iginio Ugo Tarchetti (pseudonimo di Igino Pietro Teodoro Tarchetti, San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969) e furono pubblicati all'interno della raccolta postuma Disjecta. Versi (Zanichelli, Bologna 1879); dalla pagina 5 e 6 di detto volume li ho trascritti. In seguito, questi versi comparvero in diverse antologie della poesia italiana più o meno importanti, ed ora è possibile leggerli, insieme a tutti i versi dello scrittore piemontese, in Disjecta. Frammenti lirici, a cura di Roberto Mosena, Carabba, Lanciano 2017. Grazie a quest'ultimo volume, sono venuto a sapere che i due sonetti fecero la loro prima comparsa nel novembre del 1867, sulla rivista L'Illustrazione universale. Poi, comparvero di nuovo nella strenna Il Presagio (Bontà e Co., Milano 1868); qui, tra l'altro, vengono inseriti un luogo e una data di composizione: Milano, 1 novembre 1867, che meglio spiegano la frase del primo verso ("Suonano a festa"), ovvero il fatto che i sonetti furono scritti nel giorno di Ognissanti, che precede quello della commemorazione dei defunti. Per quel che riguarda il contenuto dei due sonetti, iniziando dal primo si può dire che le due quartine si limitano a descrivere l'ambiente e il paesaggio in cui il poeta si trova: il camposanto dove è situata la tomba del genitore, in una giornata mite d'autunno; sembrerebbe quasi l'inizio di un idillio, se non ci fosse quell'inquietante verso che chiude entrambe le quartine, a sottolineare il silenzio dei morti, e il conseguente malessere che si insinua nel poeta. La prima terzina del primo sonetto mostra la tendenza - comune in quasi tutti gli scapigliati - al gusto del macabro, insistendo troppo su particolari riguardanti il cadavere e le cose che lo circondano, sinceramente superflui. La seconda terzina aumenta ancor di più la drammaticità del contesto, a causa di quella voce interiore percepita dal poeta, che sottolinea l'infelicità cronica del padre del poeta, durata praticamente per tutta la sua vita. Il secondo sonetto, se possibile, rincara ancor di più la dose di drammaticità e di disperazione, con affermazioni relative alla sorte dei familiari (cari) più intimi, sia di Tarchetti che del padre, evidentemente poco fortunata. Quindi, nella seconda quartina e nella prima terzina, il poeta inizia una sorta di dialogo col genitore, quasi convinto che il povero defunto possa in qualche modo rispondergli; in particolare gli chiede se, dopo la morte, abbia avuto la possibilità di rinascere di nuovo, magari in altra forma vivente e con una nuova possibilità di trovare quella felicità mai assaporata nella prima vita; poi gli chiede ancora, se per tutto l'immenso dolore provato dall'anima e per il fortissimo timore dell'incerto futuro (sentimenti provati sia dal padre che dal poeta stesso) ci sia, dopo la morte, finalmente un riscatto. Si arriva infine all'ultima terzina, che rimarca il silenzio assoluto dei morti, impossibilitati a rispondere sia a questa che a qualunque altra domanda esistenziale; la poesia trova il suo epilogo nello stesso modo in cui aveva trovato il suo prologo: con la contraddittoria serenità che si respira in quel luogo destinato alle persone scomparse; la natura ancora offre, sebbene l'autunno sia già iniziato da un pezzo, giornate soleggiate e tiepide, mentre i morti, sotto terra, non possono né parlare e né guardare quel paesaggio così incantevole e rassicurante.


Iginio Ugo Tarchetti


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