mercoledì 14 ottobre 2020

Quanta vita

 «Quanta vita» si leva una voce alta di bambino

dove uccelli e uccelli strappati al pigolio di ramo in ramo

filano tra la perdita di foglie del bosco nel freddo controluce

e tracciano una scia di piume e strida, lasciano quelle rotte frasi

d'un discorso arrivato al dunque, festa

e fuga, mentre uomini appostati

ne preparano lo sterminio; «quanta

vita» ripetono quegli ultimi più luminosi sbattimenti d’ali

per tutta la boscaglia tra mare ed acquitrinio.

 

E qui, in luoghi ben lontani, ma in un tempo

che come quello non perdona, mentre

incrocio per questa via di banche

senza un cenno d’intesa

compagni d’altri tempi

trascinati da un vento oscuro tra le porte vigilate

e li vedo ansiosi, simili ad uccelli ritardatari, vinti

e arsi dentro da un fuoco indefinibile,

consunto, non ancora spento, presunzione

di forza dove non è forza, orgoglio

d’una fede che non è fede, «quanta

vita» ripete quella voce di nove anni

alla coscienza troppo adulta, troppo

chiara, di nuovo «quanta vita»

che non si percepisce mai la vita

così forte come nella sua perdita.

 



 

Questa poesia è di Mario Luzi (Castello 1914 - Firenze 2005), e fa parte della raccolta Dal fondo delle campagne, pubblicata dall'editore Einaudi di Torino nel 1965; più esattamente la si trova a pagina 57, e proprio da lì l'ho trascritta. Ritengo questi versi del poeta fiorentino, tra i migliori della poesia italiana del Novecento e non solo. Il titolo, che apparentemente sembrerebbe descrivere una esplosione di vitalità, rappresenta soltanto un'astrazione, ovvero un pensiero che appartiene ad animali e ad esseri umani che appaiono nei versi sopra riportati. L'espressione "Quanta vita", che apre la poesia, è una frase pronunciata da un bambino di nove anni che, meravigliato, osserva un nutrito stormo d'uccelli mentre fuggono dai rami degli alberi di un bosco dove si erano appollaiati, e, inconsapevoli si dirigono in direzione dei cacciatori appostati con i loro fucili e pronti a sterminarli; mentre le foglie degli alberi, ormai secche, cadono giù, e mentre gli uccelli si avvicinano alla loro fine, misteriosamente si sente ripetere quell'espressione iniziale, fortemente contraddittoria in quanto si prefigurano soltanto eventi che indicano la fine della vita (sia delle foglie che dei volatili); e tale espressione sembra provenire dal rumore che fanno le ali degli uccelli in fuga, quasi fossero gli animali stessi a pronunciarla, nel momento in cui stanno per morire.

La seconda parte della poesia si riferisce ad un'altra ambientazione, lontana dalla precedente, ma altrettanto crudele; il poeta sta camminando per le strade di una città (probabilmente la sua), che però ritrova cambiata, per la presenza di diverse banche che prima non esistevano; e passando incrocia vecchi amici che riconosce, ma la sua speranza di ricevere un saluto o per lo meno un cenno di riconoscimento da loro, risulta vana: essi,  trascinati da un vento oscuro tra le porte vigilate delle banche, sembrano più che mai ostili e forse preoccupati, ansiosi. Ma qual è il motivo della loro ansia? probabilmente il fatto di possedere, proprio all'interno di quelle banche, una cospicua quantità di ricchezze; queste ricchezze possedute fanno sì che salga la loro presunzione di forza; e la loro fede per il "dio denaro" sale allo stesso modo, facendoli sentire quasi onnipotenti; ma allo stesso tempo sale dentro di essi anche la paura di perdere tutto ciò che hanno accumulato, e che, per loro, rappresenta la sola forza di cui sono in possesso. Ma ecco che ricompare la voce del bambino che ripete di nuovo l'espressione iniziale, ponendo in risalto la forza della vita, e nello stesso tempo la sua labilità. È proprio quando la vita viene meno che ci si accorge di quanto sia importante, e davanti alla sua dolorosa scomparsa comprendiamo finalmente che è l'unica cosa che possediamo, e che siamo costretti, alla fine, a perderla, insieme a tutti i beni materiali che avevamo accumulato negli anni.

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