lunedì 12 maggio 2014

La Madonna nella poesia italiana decadente, simbolista e crepuscolare

Molto presente nelle poesie italiane, la Vergine Maria rappresenta per antonomasia la maternità ed è anche la figura femminile più rilevante della religione cristiana. I poeti decadenti e simbolisti la ritraggono in più di una maniera: bellissima, dallo sguardo incantatore, capace di creare un'atmosfera magica, che essa sia raffigurata in sculture o in pitture, è simbolo del divino e dell'amore universale. Ma nelle poesie dei crepuscolari ecco che le immagini della Madonna divengono meno sfolgoranti e assumono caratteristiche che fanno pensare alla povertà e alla sconfitta: essa si presenta in forme misere nei piccoli tabernacoli che spesso si trovano in luoghi poco frequentati e, addirittura, a volte non sono altro che delle rovine in cui rimane solo una scritta ad indicare la remota presenza di una immagine della Madonna.



AVE
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Piccola pettinatrice ebrea,
mi è dolce pettinarti così.
Venne l'angelo,
poi nacque Gesù.
Ma sei la donna di Maggio:
tra le rose di tutto il mondo
nessuna è più fresca di te.
Poiché
i tuoi occhi sono eterni,
i tuoi capelli sono sottili
carezzati dalle mani
di Gesù.
Poiché
nessuno ti può chiedere grazia
senza che Tu lo ascolti.
Il tuo Cuore è lo specchio
dove ciascuno si può specchiare
che abbia sete d'amare.
Sei bella
più del Tuo mite nome, Maria,
sei grave
più della musica dell'organo
che fa piangere.

Piccola Pettinatrice, Ave!

(Da "Senzanome", Mondadori, Milano-Roma 1924)





VALLE D'ADORNO
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Nell’alta ombra il tuo volto
Vergine contemplai;
In una pia, raccolto,
Estasi, ti adorai.

Ricontemplarti ancora
Volli, e l’alpe varcai;
Il mio lutto in quell’ora
Santa, dimenticai.

L’Arte non ha ideali
Fulgenti al par di te;
Fra tutti i floreali
Fiore più bel non v’è.

Sembra esultar la zolla
Sotto il divin tuo piè;
Ti saluta la folla
Come al passar del re.

Così superbamente
Nel nimbo mattinal,
Stupenda adolescente,
Tu porti il sideral

Tuo nome di Regina;
Gagliardo e trionfal
Così sulla marina
Trascorre il maestral.

Vidi, e quella memoria
Serbo, reliquia, in cor,
Fra i monti, nella gloria
D’un crepuscolo d’or,

Staccarsi in ombra queta
Lo spagnuolo pallor
Della tua faccia lieta;
Caldo lunare albor.

Fumavano dai boschi
Le case, un grigio vel
Correa pascoli e foschi
Balzi, era d’ambra il ciel;

Salìan, tremante incenso,
A te il fumo ed il vel,
Era il braciere immenso
La valle tua fedel.

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)





L'IMMAGINE
di Giuseppe Casalinuovo (1885-1942)

Sbiadita, informe, chiusa in una griglia,
una madonna guarda senza posa,
per la viuzza piccola ed ascosa,
aspra di selci e molle di fanghiglia.

C'è da tanti anni, e il tempo l'ha corrosa,
e ogni anno più scolora e s'assottiglia,
e sotto l'arco grande delle ciglia
si fa sempre più triste e più pensosa.

Il volgo passa e ciancia, indifferente
a quella vecchia immagine sbiadita
che tanto un dì sorrise alla sua gente.

Solo una vecchia pallida e smarrita,
che all'ave torna a lei devotamente,
pensa che piange sulla nostra vita.

(Da "La lampada del poeta", Zanichelli, Bologna 1929)





LA MADONNA E IL SUO LAMPIONCELLO
di Sergio Corazzini (1886-1907)


I

Umilmente la Vergine pregava,
e ne la voce avea tanto dolore,
e il suo cuore, trafitto, sanguinava:

«O lampioncello, fallo per mi’ amore,
tu se’ il compagno mio, tu sei la stella
che mi dà pace con il pio chiarore;

tu sei fratello, io sono tua sorella,
senti: ho paura di stare all’oscuro,
senza il raggietto de la tua fiammella!

Ardi, ed il cuor dolente rassicuro,
ardi, ti prego, lampioncello rosso,
come il cuor di Gesù, tremante e puro...»

Ma il lampioncello sospirò: «Non posso».


II

E Maria seguitò umilemente:
«Perché non puoi? Se tu sarai buono,
come una stella ti faccio splendente

e il tuo disobbedire ti perdono.
O lampioncello, o lampioncello mio,
mi sembra di sentir, lontano, il tuono!

Qui sono sola ed assai lunge è Dio!
Qui sono sola, assai lunge è il mortale;
sono fatta d’oblio, d’oblio d’oblio...

Non un passero batte la su’ ale
contro il mio volto, o lampioncello rosso,
ardi! Ho tanto timor del temporale...»

Ma il lampioncello spasimò: «Non posso».


III

La sera dopo, era una sera mite,
piena di trilli, piena di fiammelle,
di voci mai prima d’allora udite,

umilmente, una mano, una di quelle
mani che sanno spesso l’altra mano,
una mano tranquilla che il ribelle

gesto non seppe mai, piano piano,
il solitario lampioncello accese:
s’udì una prece, dolce, un passo umano

lontanare, laggiù, verso il paese
che dormiva da tempo, ne la sera.
Invano, invano il lampioncello prese

fuoco: Maria suavissima non c’era...


IV

Umilmente chiamò, umilmente
attese. Pensò perché mai Maria
fosse fuggita senza dirgli niente,

la sua dolce compagna, la sua pia
sorella! Aveva dunque una sì folle
paura de la solitaria via?

E il lampioncello, disperato, volle
giungere al cielo con la sua fiammella...
Ah, se fosse mai nato su quel colle!

Pregò ancora: «Maria, buona sorella,
ti farà luce il lampioncello rosso,
oh vieni, vieni, la serata è bella!»...

Ma la Madonna singhiozzò: «Non posso».

(Da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)





TABERNACOLO
di Corrado Govoni (1884-1965)

Io visito sovente nel mattino
o pure nel crepuscolo rosato
un religioso tabernacolino
nel canto d'un chiassuolo desertato.

Ed al chiuso cancello intrecciato
sempre vi trovo qualche gelsomino,
o un fresco bucaneve immacolato
che vi dispone un gracile bambino.

Su l'altare di legno scolorito,
una Madonna in tunica di raso
piange soletta con rassegnazione,

e un bronzeo lucernino arrugginito,
tra le rose di carta dentro un vaso,
spande la sua rossa orazione.

(Da "Le fiale", Lumachi, Firenze 1903)





LA MADONNINA DEL DIRUPO
di Agostino Mersi (1882-1943)

Oilà più di cento primavere vide
fiorir la madonnina umile e sola,
che là dal ciglio de l'alpestre gola
ai casolari e ai pascoli sorride!

Mite ella accheta il turbine che stride
e curvando le selve ampie trasvola,
veglia le sorti de le audaci guide,
ode le preci di lor famigliola.

Serti nivali e diademi rossi
d'accese aurore a lei donano i monti,
e le schiudono a' piè le alpestri rose.

E quando, dal morente sol percossi,
splendon come are i vertici, le fonti
sussurran lievi avemarie pensose.

(Da "Canti solitari", Unione Biellese, Biella 1914)






LA MADONNA DEL SASSOFERRATO
di Marino Moretti (1885-1979)

In mezzo a vecchie carte un bel «santino»
oggi ritrovo: il volto addolorato
d'una madonna del Sassoferrato
tutta chiusa nel suo manto turchino.

Dietro il foglietto che à un odor di cera
si legge: "Per ricordo di Vincenza
e di Ginevra Piattoli. Indulgenza
di 100 giorni". E il titolo: PREGHIERA...

O Vincenza, o Ginevra, o mie padrone
di casa (finalmente vi ritrovo
nella memoria!), fate ch'io di nuovo
sia da voi, nel vostro eremo, a pensione.

Fate ch'io viva nella stanza in cui
mi facean compagnia tanti ritratti
e ch'io carezzi il pelo ai vostri gatti
e ch'io ritorni un po' quello ch'io fui!

Dal giorno che mi deste per saluto
questa Madonna del Sassoferrato
oh se sapeste come son mutato,
oh se sapeste come son perduto!

Dal giorno triste della mia partenza,
dal giorno in cui piangendo vi lasciai
io non volli, io non seppi acquistar mai
un giorno, un solo giorno d'indulgenza!

Dolce la stanza mia quando era invasa
dalle prime ombre, e a me lenta venia
il metro della vostra salmodia
da un'altra stanza buia della casa.

Dolce era aprire un vostro libriccino
in un momento di tristezza ignota,
a questa e a quella pagina remota
chiedendo un po' di pace e di latino!

O Suor Vincenza, io vi rivedo china
al domestico altare in miniatura,
e per pregar la bocca à una più dura
piega sul vostro volto di beghina!

O Suor Ginevra, attenta alla domanda
del pensionante io vi rivedo ancora
mentre passa un pensiero che vi accora
sul vostro volto di vecchia educanda!

Nulla mutaron nella vostra vita
gli anni che passan facili nell'ombra
quando una teda basta alla penombra
e la discesa è quasi una salita;

ma quegli che ama solo il suo passato
vi pensa e piange con dolente metro,
e legge... legge il vostro nome dietro
alla Madonna del Sassoferrato...

(Da "Poesie scritte col lapis", Ricciardi, Napoli 1910)





GUARDIE DI NOTTE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

All'angolo della via,
come due enormi carabinieri,
fanno la guardia
due cipressi neri.
E alle lor rigide gambe,
l'ultimo avanzo s'affida,
d'un vecchio tabernacolo rotto,
si legge ancora sotto:
Salutate Maria.

(Da "Poemi", Cesar Blanc, Firenze 1909)





CEPPO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

È mezzanotte. Nevica. Alla pieve
suonano a doppio; suonano l'entrata.
Va la Madonna bianca tra la neve:
spinge una porta; l'apre: era accostata.
Entra nella capanna: la cucina
e piena d'un sentor di medicina.
Un bricco al fuoco s'ode borbottare:
piccolo il ceppo brucia al focolare.

Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.
Gesu trema; Maria si accosta al fuoco.
Ma ecco un suono, un rantolo che viene
di su, sempre più fievole e più roco.
Il bricco versa e sfrigge: la campana,
col vento, or s'avvicina, or s'allontana.
La Madonna, con una mano al cuore,
geme: Una mamma, figlio mio, che muore!

E piano piano, col suo bimbo fiso
nel ceppo, torna all'uscio, apre, s'avvia.
Il ceppo sbracia e crepita improvviso,
il bricco versa e sfrigola via via:
quel rantolo... è finito. O Maria stanca!
bianca tu passi tra la neve bianca.
Suona d'intorno il doppio dell'entrata:
voce velata, malata, sognata.

(Da "Myricae", Giusti, Firenze 1903)





AVE MARIA
di Enrico Pea (1881-1958)

Passeggero che passi per la via,
non ti scordar di salutar Maria.
Ti porterò le primizie di maggio,
e niuno potrà esserne geloso.
Nemmeno l'altra che ha denti di neve
e marita le burle alle passioni.
Chi è geloso di Maria Regina
non sa che il fuoco brucia e l'acqua bagna.

L'erba ti porterò che sempre odora,
erba Santamaria, foglie e coltello,
e le viole che crescono in silenzio
tra i colaticci di tre metri d'orto:
un mazzolino con le foglie in tondo
legato stretto con lo stame rosso,
come fanno di maggio per la dama
quelli del mio paese a cor beato.
L'offerta è poveretta a una Regina,
alla Regina di tutto il Creato.

E' come se portassi un'oncia d'oro
al tesoro del gran re Salomone;
è come un chicco di grano al granaio
di Faraone, un trifoglio in un prato.
E' come se volessi col mio fiato
alimentare una bufera immane
o portare all'oceano un contributo
con il pianto dei miei occhi mortali.

Hai per diadema le stelle del Cielo,
Madre, e ti offro un mazzetto di fiori
con queste poche sillabe d'amore
nella speranza di tornarti in core.

Mi faccio bimbo e ti chiamo Maria
e mi risponderai come rispondi
ai piccolini cui inanelli il capo.
Rimandami il tuo Angelo custode:
il poeta è creatura che si turba,
ché ha paura a rimanere solo.

(Dalla rivista: «Italiano», aprile 1928)





DOLCE SIGNORA
di Giulio Salvadori (1862-1928)

Dolce Signora,
quanta tristezza,
quante miserie,
quanto dolore
  Quaggiù! né un'ora
senza amarezza
passa, né gioia
senza terrore.

Solo il tuo sguardo
tanto soave
rinfranca l'anima
impaurita.
  Il foco ond'ardo
posa; men grave
è ogni martirio;
torna la vita.

La tua dolcezza
chi può pensare?
come, a comprenderla,
misero io sono!
  Il cuor si spezza;
lacrime amare
piange, né credere
vuole al perdono
  talora: e intanto,
dolcissim'onda,
come in un arido
fiore rugiada,

  la tua lo pènetra
pietà profonda,
ed all'altissima
pietà fa strada.

(Da "Liriche", Vita e Pensiero, Milano 1933)





FLORA MIRABILIS
di Emanuele Sella (1879-1946)

O dolcissimo angelico linguaggio,
parola ardente che alle stelle arrechi
il dolce invito della fioritura,
sboccia alla tua carezza il fior dell'ètere
e si compie il prodigio ed una flora
incandescente popola l'azzurro!

Meteore satelliti pianeti
e stelle fisse un bel desìo travolge
d'esser giacinti e fiordalisi d'oro.

Le Pleiadi diffondono nel cosmo
l'iride infranta dell'opale lattea
d'un niveo giglio ed Orione assume
l'eleganza d'un mistico asfodelo.

Ma tu, fra i fiori della luce, esulti
circonfusa d'angeliche fragranze
e di zodiacali edere cinta,
unica stella, stella delle stelle,
Alta Madonna, simbolo di Dio
nell'algoritmo dell'eternità.

(Da "Il giardino delle stelle", Zanichelli, Bologna 1907)





CANZONE ALLA VERGINE
di Federigo Tozzi (1883-1920)

Parevami toccar quasi le cime
delle guglie d'enormi cattedrali,
quand'io vedea formate le mie rime
ventando un poco una dolcezza d'ali.

E, dopo una Madonna di Neroccio
mi sorrideva che mi convertissi;
e come l'acqua appena giunta al doccio
così pareva a me ch'io l'obbedissi.

E feci bene. Ma non vidi subito
come accolto sarei nell'infinito:
e pure di salire più non dubito
or che mi sento come preferito.

Preferito da te, dolce Madonna,
da te, che non disdegni quel che dico;
e se talvolta l'anima si assonna
tu la ridesti col tuo volto amico.

E m'inviti a venir su le ginocchia,
perché tu sai che sei la Madre eterna,
la Madre bella che non ha sirocchia,
la più benigna ed ultima lucerna.

Oh, quando tu mi prendi sopra i polsi,
e mi porti fin quasi alla tua bocca!
Oh, come di dolcezza mi trabocca
l'anima che per il tuo amore sciolsi!

Oh, come tutto è gaudio che sorride
in ogni parte! E come tu rispondi
da dove prima l'anima ti vide
leggiadra de' misteri tuoi profondi!

È il tuo grembo che ride ed ha splendore
di stelle innumerabili rinate
nel cielo pieno, tutte dal tuo amore
e dalla bontà tua costì chiamate.

Della natura se' la veste eterna
che d'anime si adorna come gigli
e l'unico suggello hai ne' tuoi cigli
di tutto 'l tempo ch'entro lor s'interna.

E la canzone mia così venuta
fino a pregarti dove l'odi meglio,
ora dinanzi al tuo cospetto ammuta
come l'anima fosse innanzi a speglio.

O paradiso dove il gaudio è come
la materia che foggia la sua incude!
O paradiso dolce di tue chiome
ché te, Madonna, per sua gloria chiude!

Certo, il tuo ventre fa sognare ancora
la sua grande dolcezza e la salute
che per il mondo tuo traesti fuora
a ripigliare le anime cadute.

Ventre misterioso, dove a noi
rinnovellasti la terrena origine,
viene da dentro te la scaturigine
che mi disseta co' piaceri tuoi!

E l'anima mia sento divenuta
come la veste che t'avvolge tutta.
Ella t'ama da quando t'ha veduta,
e nel tuo caldo le sue gemme butta.

Ricordo quando l'angelo a te venne
da una purezza simile alla luce;
come la primavera i fiori adduce
così l'anima a te l'eterne penne.

E sì come la luce un corpo tocca,
l'angelo fermo, al sole simigliante,
venne a toccare alquanto la tua bocca
portandoti le sue parole sante.

Ave, Maria, ti disse. E ti sembrava
che l'anima gravata di un suo giglio
sognasse troppo. E l'angelo indugiava
soave ad annunciarti il Grande Figlio.

Par che tu sappia qualche cosa, ed io 
non possa mai saperlo; benché trovi
che tutto quel che dici è del tuo Dio,
i cui misteri sono sempre novi.

Ed incontrarti prima che la via
divenga troppo lunga! Il tuo sorriso
par che rifletta a me l'anima mia
per l'amore che senti, com'io avviso.

Or da per tutto il manto vedo scorrere
il tempo come un fiume senza foce;
io lo vedo rossigno d'una croce,
e tutto il mondo all'ombra sua soccorrere.

O mia canzone simile a una spada
confitta in una pietra (e vibri ancora
del colpo che t'aprì la dura strada)
nessuno di costì ti tragga fuora.

(Da "Le poesie", Vallecchi, Firenze 1981) 

domenica 11 maggio 2014

La mamma in cinque poesie di cinque poeti italiani del XX secolo

Le poesie qui presenti hanno, come argomento principe, la mamma, e, cronologicamente parlando, appartengono tutte ai primi anni del XX secolo. Al di là del valore di ognuna, ciò che le accomuna è la presenza di una palpabile malinconia, peculiarità fondamentale di quella scuola poetica che fu definita crepuscolare. In verità dei quattro, l'unico vero poeta crepuscolare è Marino Moretti; è pur vero che gli altri quattro, in modi diversi, sfiorarono il crepuscolarismo. Giuseppe Caruso, per cominciare, fu amico di Sergio Corazzini e, nelle poche poesie che scrisse, ne sentì l'influenza. Non fa eccezione A mia madre, seppur uscita nel 1902, quando Corazzini ancora doveva pubblicare i suoi primi versi. Umberto Saba fu in un certo modo crepuscolare soprattutto nella primissima fase della sua carriera poetica, quando molto spesso nei suoi versi si registravano temi e pensieri molto simili a quelli presenti nelle poesie di Marino Moretti (al quale alcuni critici lo paragonarono). Diego Valeri può invece essere definito un epigono o, ancora meglio, un seguace della poesia crepuscolare, specialmente nelle sue prime opere in versi e più di tutte in Umana (dove si trova la poesia Io non ho fiori...). Giuseppe Zucca, infine, durante il breve periodo in cui scrisse dei versi, mostrò una evidente propensione all'intimismo.
Malinconia, tristezza, a volte disperazione emergono da questi versi che a me paiono molto belli e vogliono rappresentare in modo onesto e intenso quei sentimenti basilari che molti figli provano nei confronti della madre.



A MIA MADRE
di Giuseppe Caruso

Ero solo e piangevo...
Il sordo rumore del treno
rompeva il silenzio dei campi
all'ora mattutina.
E passavan veloci,
nell'ombra ancora indistinte,
le verdi campagne
dinnanzi ai miei occhi: e piangevo...
Non so: nella mente confusa
nel cor, pieno d'affetti,
sentivo un affetto a me nuovo,
a me stesso incompreso.
Era l'ultimo addio delle cose?
Era il pianto di mia madre,
che ancor mi bagnava le gote?
Non so: sulle fresche verzure
cantava il colono; per le tacite vie silenti
movevano i carrettieri:
e pensavo mia madre e piangevo...
Vedi, le dicea, sognando,
è l'alba: e ci sembra sì triste,
perché l'anima piange.
Poi quando saremo lontani
vedremo i tramonti dorati,
e piangeremo insieme...
Correva veloce il vapore;
fuggivano i monti ed i piani,
ed io solo piangevo...

(Da «Ateneo Letterario Artistico», aprile 1902)





NELLA CLINICA DEL PROF. MAZZONI 
(CORSO D'ITALIA, 33)
di Marino Moretti (1885-1979)

Mamma, preghiamo insieme.

Il cuore è un po' malato, e ride e geme.
Sporgiti dal marmoreo davanzale,
e guarda il sole del Corso d'Italia
ch'è sì dolce su gli alberi potati.

Mamma, guardiamo insieme
queste Sorelle care al Papa morto,
che han la Madonna nell'orto
e il Crocifisso sul petto,
un Crocifisso benedetto.

Mamma, piangiamo insieme
d'essere soli a Roma
col pensier della casa e del paese,
di ciò che fummo e di ciò che saremo
qui soli, a Roma.

O mamma quasi risanata (quasi),
preghiamo insieme
perché Dio veda l'angoscia che preme
sul cuore di tuo figlio.

Mamma, preghiamo insieme
la Madonna del Buon Consiglio.

Roma, 12 aprile 1916.

(Da «La Diana», aprile 1916)





A MAMMA
di Umberto Saba (1883-1957)

Mamma, c'è un tedio oggi, una non dolce
malinconia, che in ogni
vita à una preda, e fa umili i sogni
de l'uomo che àil suo mondo à nel suo cuore.
Mamma, ritornerà oggi a l'amore
tuo, chi a l'amore più non si rivolge?
Solo, e fuor de l'umano
gregge, questo tuo sempre più lontano
figlio, ti ritornerà?

Ed è un giorno di festa, oggi. La via
nera è tutta di gente, ben che il cielo
sia velato, ed un vento aspro a lo stelo
tolga il giovane fiore, e in onde gonfi
la gialla acqua del fiume.
Passeggiano i borghesi lungo il fiume
torbido, con violacee ombre di ponti.
Sta la neve sui monti
ceruli ancora; e la malinconia
viene in me da l'aspetto de la via,
triste senza l'usato
suono d'opere, o d'una nostalgia
insanabile è il tuo figlio malato? 

E tu pur, mamma, la domenicale
passeggiata riguardi, da l'aperta
finestra, ne la tua casa deserta
di me, deserta de l'unico bene.
Guardi le donne, i marinai; né scordi,
mamma, quel bene; non i tuoi timori
scordi, se gli ebbri o i lavoratori
guardi, che i rudi e lordi
panni, per me superbamente belli, 
oggi a gara lasciati ànno per quelli
de la festa, dai gran colori falsi.
Ma tu, mamma, non sai che sono falsi.
Tu non vedi la luce che io vedo.
Altra fede ti regge, che non credo
più, che sì cara nella puerizia,
m'era, quando il tuo Dio
vagheggiando, supino a mezzo il prato:
pensando ch'egli mi ti aveva dato,
mi salivano lacrime agli occhi.
Or, se i fanciulli a crocchi
vedi la libertà de la festiva
sera splendere in giochi,
ricordi come spesso io da quei giochi
rifuggivo lontano:
e non a la tua mano?

Ché dei tuoi crucci, dei tuoi molti guai
questa è la fonte, che in quei favolosi
tempi turbava i tuoi scarsi riposi,
come oggi il mio sdegno:
tese l'animo mio sempre ad un segno,
cui non tesero i miei compagni mai.
Tu di questo non sai
vivere lieta, tu che piangi, piangi
sempre, ne la tua casa deserta.
Là ti rivedo; e da non più aperta
finestra, con l'incerta
sera, de le campane entra un profondo
suono, il preludio de la dolce notte,
de l'insonne per te, gelida notte.
Ad ogni tocco, più verso la notte
è roteato il mondo.

Mamma, un tempo ci fu che udendo un suono
di campane, mirando quella sola
nube, che il vespro tinge di viola,
non so quale tristezza il cor più buono
mi faceva, più incline al tuo d'allora.
I miei pensieri ancora
vanno a quel tempo, benché grande e varia
sia la mia vita, con la solitaria
forza, onde godo di che ogni altro trema;
e quanto al volgo appar pena suprema,
d'estasi il cor mi riempie.
Non vidi i passi tuoi farsi più stanchi,
o dolce madre, e i tuoi capelli bianchi
su le povere tempie.

Ed un tempo ci fu, anche, che in ogni
cosa la più sapiente eri tenuta
da me, da me che la tua bocca muta
feci poi, con l'altezza dei miei sogni.
Tu pel fanciullo eri l'infallibile;
eri colei che non conosce errore:
L'umile tua parola nel suo cuore
scolpivasi così, ch'ebbe indicibile
angoscia, quando per la prima volta,
e come ogni altra, la tua mente folta
d'errori discoverse.

Mamma, il tempo fu quello che d'avverse
forze piena sentii l'umana vita;
sì che indugio a la mia casa il ritorno.
Ben mi apparvero eterne
verità, ma infinita
n'è l'amarezza, e in odio ebbi la vecchia
casa, il terrazzo ove leggevo Verne,
pallido d'ansia, ne le rosse sere.
Poi, nel sonno, sognavo l'Oriente
barbaro, e quanta gente
non vinceva la mia piccola mano!
Era incerto fra il riso e il pianto il ciglio
tuo su quel sonno: ora lontano è il figlio
unico, e il tempo fugge.

Mamma, il tempo che fugge
t'ansia, e l'ansia che impera
nel tuo cuore, c'è forse anche nel mio;
c'è, pur latente, il male che ti strugge;
sonvi le cure e le domenicali
malinconie.
Lentamente, ora sfollano le vie
ne la sera di festa, e verdi e rossi
accendono fanali le osterie
di campagna. La chiara
voce si effonde de la ritirata,
di canzoni l'enorme camerata
s'empie, turpi e gioconde. - E' l'ora, mamma,
l'ora che cresce affanno
ai cuori come il tuo, soli ed amanti,
di su gli ultimi mari ai naviganti,
dentro l'orride celle ai prigionieri.
Canterellando scendono i sentieri
del borgo i cittadini.
Torna dolce a ciascuno la sua casa.
Ed il mistero ond'è la vita invasa,
tu con preghiere esprimi. -

Mamma, il tempo che fugge
porta il rimpianto di quello che fu.
La vita intanto il nostro sangue sugge,
non so se dolorosa o bella più. -

(Da "Poesie", Casa Editrice Italiana, Firenze 1911)





IO NON HO FIORI...
di Diego Valeri (1887-1976)

Io non ho fiori da versar sul folto
tappeto di trifoglio e di gramigna
che veste la tua fossa; io non ho quasi
neppur lacrime più da lacrimare
sul tuo povero cuore seppellito
qui, sotto questa terra. Solamente,
io mi guardo, io mi cerco in fondo all'anima,
per veder te, per ritrovare il tuo
viso sfiorito di malata, e il riso
pallido de' tuoi dolci occhi di pianto,
e i tuoi capelli bianchi ancora sparsi
di qualche ciocca bionda, e le tue mani,
le tue ruvide mani ossute e gonfie
di vene azzurre, le tue sante mani
di mamma bruciacchiate al focolare...
E ti chiamo, ti chiamo con la voce
del desiderio mio che non ha pace
e confine non ha, né sa che sia
morte... - Ma in vano. In van mi scruto. In vano
t'invoco. Dentro l'anima mia cupa
che mi fa tanto male... O mamma mia,
tu non odi il mio grido! Ed io son solo,
solo qui presso a te, con te, nel calmo
cimitero, tra i marmi ed i rosai;
solo nella dolcezza stupefatta
di questo pomeriggio azzurro e bianco;
solo nel gran silenzio, in cui non odo
che un fruscìo di lucertola tra l'erba

e il soffio d'una rosa che si sfa.

(Da "Umana", Taddei, Ferrara 1916)





MAMMETTA
di Giuseppe Zucca (1887-1959)

Mammetta, tu che ti ricordi
tutto di me, le parole
piccole e quelle più grandi,
i sonni, i giochi, i pianti,
e solo hai dimenticato
le rispostacce cattive
che il mio rimorso non scorda;

mammetta, tu che mi dici
sempre che ancora mi vorresti
piccino per tenermiti ancora
sulle tue stanche ginocchia,
come quando a notte tarda
s' aspettava papà che tornasse
- papà che ora non torna più ! — ;

mamma mia, tu che ti fai
sempre più piccina, mentr'io
sono di tanto ingrandito
che appena giungi a baciarmi
qui sul petto, qui dove batte,
e io devo un po' chinarmi
per baciarti te sulla fronte

(fronte attenta e animosa,
così scarna qui sulle tempie,
con queste due ferme rughe
tagliate fra ciglio e ciglio
e, in mezzo, una macchiolina
rosea, una voglia di fragola
che intenerisce a primavera);

mammetta, tu che mi guardi
vivere, tu certo te le ricordi
queste cose tanto lontane
che la mia nostalgia rievoca
con un sorriso non so
se amaro o se dolce e un singhiozzo
qui in gola, ma più nel cuore.

E tu cercale, quelle memorie,
qui: son dette «lontananze».
Ciascuna è un bacio di me
fanciullo, a te e a papà:
papà
che dorme là dietro la pietra
dove io scrissi il nostro dolore;

e quelle due rondini di bronzo
si baciano e gli dicono: — Sai?
ti pensano sempre, ti pensano. —

(Da "Io", Formiggini, Roma 1919)

martedì 29 aprile 2014

Le bare nella poesia italiana decadente e simbolista

Le bare sono descritte spesso in movimento verso l'ultima fatale destinazione: il cimitero. Sono l'estrema dimora del corpo esanime e più che mai rappresentano la morte in modo sconvolgente. I poeti mostrano tutta la traumaticità dell'evento mortuario, e sono colpiti soprattutto dalle piccole bare, che naturalmente contengono i corpi dei bambini, ovvero esseri umani scomparsi troppo presto, i quali più di tutti stanno a significare l'assurdità della vita. La morte come unico fatto importante dell'esistenza è simboleggiato proprio da "bare su bare, bare dietro bare" che, una dopo l'altra, si avviano verso Toblack, la città dei morti definita da Corazzini: "ara meravigliosa del mistero", sempre in ansiosa attesa di nuovi arrivi.



LA STRADA DELLE BARE
di Mario Adobati (1889-1919)

Bare su bare, bare dietro bare
nella via polverata. Sempre nere
bare velate nei tramonti. Chiare
vesti i mandorli lasciano cadere.

Cavalli neri e bardature bianche.
Cavalli bianchi e bardature nere.
Nelle stagioni vanno a torme stanche,
pesantemente, senza sonagliere.

Rosse bare d'eroi, bare di bimbi
serene come volti di vegliardi.
Bacche scarlatte incendiano a corimbi
le siepi sopra il tremolio dei cardi.

Aquile rotano nel cielo greve
di nuvole. Le strida dei rapaci
svariano. Cade qualche piuma lieve.
L'orizzonte è in un cerchio di fornaci.

Anemoni in cui bevono gli uccelli
notturni strane gocciole di piogge
lontane tremano. Come gli avelli
scoperchiati respirano le logge.

Un colore funereo rapprende
i luoghi come i volti dei malati
senza speranza. Un lume a tratti splende
per gli sterpeti folli e desolati.

Che cerca quel viandante? Bare dietro
bare, bare su bare, Péste sorde
di cavalli sbandati. Un cupo metro
di canti. Un'eco sempre più discorde.

Gracidano le rane e fanno cori
striduli tra ogni zampa ed ogni ruota.
Gli zoccoli calpestano sonori
e le serpi rimovono la mota.

Eternamente, come per condanna
si seguono i convogli senza fine.
I pastori con zufoli di canna
a sette fóri sono alle colline.

Una piana lor nenia pastorale
fanno. A prodigio lasciano ogni velo
tutte le bare e come in ampie scale
di cenere dirompono pel cielo.

I cavalli s'accosciano. Le bare
sono lungi. La notte oi suoi vessilli
dispiega con un nero fluttuare.
Gli usignoli gareggiano coi grilli.

Tutto affonda. Il mistero della notte
ha il suo segreto. Pallidi, seduti
su le prode, gli amanti ignari frotte
d'uccelli seguono con gli occhi muti.

Il vento irrompe e tosto nubi vanno
sparse, striscianti. I giovani e le belle
alzano i volti. Gioie più non sanno.
Tra nube e nube contano le stelle.

(Da "I cipressi e le sorgenti",  Tip. C. Conti & C., Bergamo 1919)





ORE TRISTI 
di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Sotto la pioggia, incontro al vento, passa 
una bara; la portano 
in fretta al camposanto, 
e la buffa ogni tanto 
il nero drappo irreverente squassa 
con derisorio sibilo. 
Ritti sul fango nero 
lungo le vie fuggenti 
croci i fanali sembrano, 
le case monumenti 
d'un lungo cimitero. 

Chi si ricorda più l'aprile, i prati 
verdi, e l'azzurro, e i mandorli 
rosei per la campagna? 
giù la pioggia si lagna, 
in alto è un mar di nuvoli serrati 
e qui dentro una lugubre 
calma, e qui tutto tace 
come in vòta dimora; 
non risa, o canto, o fremito 
di scossa onda sonora; 
è dei chiostri la pace. 

Pace d'anime stanche e di languenti 
fibre, domate al fervido 
martellar dell'affanno, 
che più lottar non sanno 
ma sdegnano i lamenti; 
pace d'antico tumulo 
abbandonato e infranto 
su cui l'ortica crebbe; 
desolato silenzio 
cui men triste sarebbe 
uno scoppio di pianto.

(Da "Leggenda eterna", Treves, Milano 1900)





PICCOLA BARA
di Francesco Cazzamini Mussi (1888-1954)

Stamani ella è morta.
Alla porta
guardavano i bimbi, stupiti...
La morte ?
Com'era, dov'era la morte?
Posava la piccola morta
esangue, stecchita, di cera...
Al vento di marzo esitavano
i peschi fioriti,
e alcuni, tra essi, i più arditi,
toccavano il davanzale,
per salutarti
e per farti,
o bimba, il guanciale.

O bimba, che almeno tu possa,
tranquilla, dormire, la testa
sui fiori che odorano freschi,
sul cuore
l'immenso dolore
di mamma, che almeno tu possa,
vestita del dì della festa,
sognare che questa
che lasci, la vita,
è come una favola bella,
veduta attraverso l'amore,
così, di sfuggita...

Tu pura ritorni
di dove venisti: dal nulla
nel nulla.
Un fiore s'aperse, si chiuse.
La mamma, sola, s'illuse,
cantando, alla culla.
E tu come un sogno passavi.
Non anni, i tuoi, ma dei giorni
soavi.

I ceri t'han messo vicino,
piangendo t'hanno vestita,
per farti men triste il cammino
che lascia la vita...

Ma dove la morte? Chi dice
morire?
Tu dormi, tranquilla.

Da presso ti veglia e scintilla
la luce dei ceri.
Domani più freddi, più neri
ti veglieranno i cipressi.
Ma dolce, sott'essi, —
o tu felice! —
dormire.

Ma quelli che lasci, ma quella
che piange, ed a stento sostiene
il volto tra l'aride mani?
E tu, sorridile, bella.
E dille: non siamo lontani,
se nel ricordo è il tuo bene...

Sfiorasti la vita, sfiorasti
gli inutili odi e gli amori
che durano un dì.

O piccola bara
che salpi tra i fiori,
non forse la vita è più cara
così?

(Da "Le allee solitarie", Ricciardi, Napoli 1920)





PICCOLA BARA
di Giovanni Cena (1870-1917)

In riva al mare opaco io vedo andare 
un marinaro con un passo stanco: 
porta una bara sotto il braccio manco 
come una culla e con lui piange il mare. 

Segue una donna pallida che pare 
una morente e tre bambini a fianco: 
guardano il cielo in oriente bianco 
ed hanno risi le pupille ignare. 

Lungo la diga dove il mar si frange, 
dove si frange il mare opaco e nero 
la triste comitiva si dilunga. 

Oh quant'è quella strada eguale e lunga! 
Dov'è, dov'è l'antico cimitero? 
Là giù, tranquillo in riva al mar che piange. 

(Da "In umbra", Streglio, Torino 1899)





TOBLACK
di Sergio Corazzini (1886-1907)

... E bare e bare senza tregua; aperti
sono sempre i cancelli, o cimitero
ara meravigliosa del mistero,
sacrificante ai cieli alti e deserti!

E bare bare senza tregua; esperti
sono i tetri cancelli nel pensiero
della morte, e ben sanno che del Vero
sono i custodi più sicuri e certi.

Cimitero che attendi e che disperi
nell'attesa, abbi pace, accoglierai
tutti, col tempo, e forse non avrai

terra a bastanza, e non daran le buone
primavere bastevoli corone,
cimitero che attendi e che disperi.

(Da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)





«NOVIZIA DEL NULLA»
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Oh malinconia!
Novizia del nulla
vestita di bianco
la portano via.

Oh malinconia!
Con ritmo di culla
monotono e stanco
la bara s'avvia.

(Veicolo strano
la bara va piano
perché il suo cammino
è un altro destino
più triste e più vano.)

Ma giunta al confine  la bara s'arresta
la piccola morta  solleva la testa
si trova risorta  per sempre di là

C'è un mare infinito  color della sera
La cassa diventa  una barca veliera
che scivola in mare  che rapida va

portata lontano  da un vento che piange
soffiando nel nulla,  da un'onda che frange

(Da "Tutte le poesie" di Giulio Gianelli, IPL, Milano 1973)





LA VIA DELLA CERTOSA
di Corrado Govoni (1884-1965)

Strada disabitata, in mezzo a gli orti
pieni di fiori e di malinconia,
strada che mena al soggiorno dei morti
che frequenta la mia nostalgia:

strada silenziosa, dove l'erba
prospera come in vecchio monastero,
solitaria straducola, che serba
come un sentor di ceri e di mistero.

Quante bare passarono, per questa
via da cui non si ritorna mai!
quante bare emigrarono a la mesta
devozione dei funebri rosai!

Talune erano simili ad altari
di festa (oh come bianche le corone!);
ed eran altre simili a calvari
di lutto, e senza alcuna orazione:

strette casse di gracili fanciulli
morti tra i fiori, morti d'etisia,
corpicciuoli ravvolti in fini tulli
di amare lacrime e di liturgia;

lunghe casse di poveri mendichi
la cui vita fu un'agonia lenta:
vecchi senza famiglia, mendichi
di cui nessuno piange e si rammenta.

O tristezza d'andare al camposanto
senza la compagnia di qualche fiore,
tristezza de la bara senza pianto
che procede per l'ultime dimore!

La stradicciuola è stretta in mezzo a gli orti
pieni di rose e di malinconia...
Oh pensate, pensate a tutti i morti
che passarono lungo questa via!

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", Lumachi, Firenze 1903)





LE BARE
di Enzo Marcellusi (1886-1962)

Mi piacevano in lei il rigido e molle
andamento di vergine e quella chiarezza
degli occhi, che dà allo sguardo un'indefinita larghezza.
Quando pregava, la sua pietà mi rendeva folle.

Quante stagioni dai nostri capi innocenti
vedemmo fuggire? La primavera, che illude
ahi me! come la giovinezza, le piegò sulle braccia nude
i suoi liquidi cieli, sospirando fiumi e venti

entro i larghissimi pesanti roseti
dei capelli, come
nell'AUREA CATENA di Dante Gabriele Rossetti (ohi! nome
d'arcangelo fra due nomi di poeti).

...Dopo tanti anni d'amore, la catena s'infranse.
La vita mostruosa ghermì nei freddi artigli
colei che m'amava e che amavo. Ma non le videro tra i cigli
la lagrima nera, quando sulla nuziale corona ella pianse?

Lontana, - il fantasma d'una felicità improbabile
divenne il signor trismegista del mio castello: e, alla fresca
aura d'aprile, i gufi cantavano la ballata grottesca
e piagnucolosa; molto amara e, anche, un po' adorabile.

Poi, nell'inverno, le sale della mia reggia
furono aperte a donne lussuriose, dipinte, discinte,
e tutte io nelle sconvolte alcove ho vinte,
per uccidere un ricordo di purezza.

Trista e triste la mia dotta, la mia strana, la mia torbida vita!
E vana!... Se levo gli occhi dalla tortura insidiosa
delle pagine, - sopravi la fronte posa,
ansante amazzone tramortita -,

io vedo una processione di bare.
Dinnanzi crucifera va una bara più nera!
E rivedo la mia stanza di bambino, severa,
a settentrione, con due finestre verso il mare.

Dalla strada giunge un cupo ritmo di martello:
- tra le flaccide fibre dell'abete i chiodi
scivolano, stridendo ai rossi nodi
del legno. - Notte. La cassa non ha, ancora, il suo coperchio-suggello.

Come allora, cantando, l'oscuro operaio
adempie la tragica bisogna. Come allora,
mi levo sulla coltre, che odora
di bontà materna, e ne fo saio

al mio corpo tremante, e corro ad affacciarmi per meglio
vedere, per udire più dappresso
il lugubre rombo, confuso nel battito stesso
del cuore fattosi adulto, umiliato, perplesso.
E paurosamente veglio.

(Da "Intensità Encausti", Arti grafiche, Chieti 1920)





LE BARE
di Tito Marrone (1882-1967)

Perché chiudere la porta
dietro la bara che se ne va?
Forse così nessuna cosa morta
dentro la casa, dopo, resterà?

Ah, quando co' suoi fiori,
co' suoi ceri,
con le preci pe' i defunti,
co' visi smunti e con le vesti nere
degli accompagnatori,
per sempre il povero
morto se ne va;
quando il piccolo feretro,
l'umile compagnia
hanno voltato di là dall'ultima
casa della via,
non chiudete la porta!
Se quello che vi lascia
tornasse indietro,
invisibile, per rivedervi un momento...
che sgomento
trovar la porta chiusa,
la sua porta chiusa;
e non poterla aprire,
e doversene andare!

Non temete la bara
che non rientra
- ed è una sola! -
voi che ne avete tante
vicine, occulte e non se ne dipartono!
Amen, per quelle che partono;
amen, per quelle che restano
sempre e dovunque,
nel piacere nel dolore,
presso il nostro desco,
sotto il nostro letto,
o già seppellite nel cuore!

Non temete le bare
che non tornano indietro,
efimeri viventi della terra!
Tregua alla vostra guerra
breve: aspettate in pace.

Dolce, una notte
di maggio, navigare l'infinito,
fraternamente
giacendo nella stessa
bara, la madre Terra,
compagni forse d'altri morti ignoti
composti in altre
bare sorelle,
verso un cimitero fiorito
di stelle di stelle di stelle.

(Dalla rivista «Riviera ligure», novembre 1905)





FUNERALE
di Edoardo Mottini (1884-1935)

Il nero forno sforna un biscotto,
un biscotto dorato, con la croce;
ma l'odore non è di pasta fina,
è un odore di cera e di cantina.
E il dolce è secco, rotola sui rulli
con un rimbombo sordo. Sei garzoni
l'hanno afferrato per le sei maniglie,
lo imbucano nel gurge della chiesa
ove il gran pasticcere lo conforta
col cognac extra dell'asperges teso.

Presto, presto, che il dolce non infrolli!
Cantando l'inno, al lume di candele,
lo si deponga sul desco fiorito
del vermineo convito!

(Da "Rose nel pruneto", Taddei, Ferrara 1921) 





IL GAIO EBANISTA
di Térésah (1877-1964)

Son belle le tue bare: hai gusto ed arte
per adornarci la dimora: trista
non vuolsi compagnia, quando si parte!

Son belle, chiare, tappezzate in vista
del lungo sonno con pesanti rasi,
i fregi ne scolpì buon ebanista.

Forse tu, quello? Oh narrami i tuoi casi.
Eri tu che cantare udii stamane,
sì che stupita io non credetti quasi?

Niuno canta pel suo duro pane
in questa casa: il vecchierel non canta
mentre mischiando va le pozzolane;

lo spaccapietre tra la selce infranta
tace, che troppo il suo martel l'assorda;
tace nel vico la campana santa.

Tu cantavi, stamane! Eri una corda
stridula di chitarra indemoniata,
una cicala che nel sol si scorda.

Cantavi lieto della tua giornata
che non fé grave, del tuo bel lavoro;
cantavi... Ma non hai l'innamorata?

Le facevi, coi morti, il vezzo d'oro.

(Da "Il cuore e il destino", Carabba, Lanciano 1911)

venerdì 25 aprile 2014

Da "Uomini e no" di Elio Vittorini

Questo forse era il punto. Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere. Sempre che uomini potessero perdersi, e sempre vederne perdersi, sempre non poter salvare, non potere aiutare, non potere che lottare o volersi perdere. E perché lottare? Per resistere. Come se mai la perdizione ch’era sugli uomini potesse finire, e mai potesse venire una liberazione. Allora resistere poteva esser semplice. Resistere? Era per resistere. Era molto semplice.

(Da "Uomini e no" di Elio Vittorini, Mondadori, Milano 2003, p. 190)






Uomini e no di Elio Vittorini (Siracusa 1908 – Milano 1966), può essere definito, cronologicamente parlando, il primo romanzo italiano che si occupi della Resistenza. Fu pubblicato per la prima volta nel giugno del 1945 dall’editore Bompiani di Milano. Nella città meneghina è ambientata la vicenda, che parla delle imprese dei partigiani durante l’inverno del 1944. Le parti prettamente narrative, si alternano ad altre in cui lo scrittore siciliano commenta i fatti narrati; da una di queste parti, è tratto il frammento che ho qui sopra riportato.