Le poesie qui presenti hanno, come argomento principe, la mamma, e, cronologicamente parlando, appartengono tutte ai primi anni del XX secolo. Al di là del valore di ognuna, ciò che le accomuna è la presenza di una palpabile malinconia, peculiarità fondamentale di quella scuola poetica che fu definita crepuscolare. In verità dei quattro, l'unico vero poeta crepuscolare è Marino Moretti; è pur vero che gli altri quattro, in modi diversi, sfiorarono il crepuscolarismo. Giuseppe Caruso, per cominciare, fu amico di Sergio Corazzini e, nelle poche poesie che scrisse, ne sentì l'influenza. Non fa eccezione A mia madre, seppur uscita nel 1902, quando Corazzini ancora doveva pubblicare i suoi primi versi. Umberto Saba fu in un certo modo crepuscolare soprattutto nella primissima fase della sua carriera poetica, quando molto spesso nei suoi versi si registravano temi e pensieri molto simili a quelli presenti nelle poesie di Marino Moretti (al quale alcuni critici lo paragonarono). Diego Valeri può invece essere definito un epigono o, ancora meglio, un seguace della poesia crepuscolare, specialmente nelle sue prime opere in versi e più di tutte in Umana (dove si trova la poesia Io non ho fiori...). Giuseppe Zucca, infine, durante il breve periodo in cui scrisse dei versi, mostrò una evidente propensione all'intimismo.
Malinconia, tristezza, a volte disperazione emergono da questi versi che a me paiono molto belli e vogliono rappresentare in modo onesto e intenso quei sentimenti basilari che molti figli provano nei confronti della madre.
A MIA MADRE
di Giuseppe Caruso
Ero solo e piangevo...
Il sordo rumore del treno
rompeva il silenzio dei campi
all'ora mattutina.
E passavan veloci,
nell'ombra ancora indistinte,
le verdi campagne
dinnanzi ai miei occhi: e piangevo...
Non so: nella mente confusa
nel cor, pieno d'affetti,
sentivo un affetto a me nuovo,
a me stesso incompreso.
Era l'ultimo addio delle cose?
Era il pianto di mia madre,
che ancor mi bagnava le gote?
Non so: sulle fresche verzure
cantava il colono; per le tacite vie silenti
movevano i carrettieri:
e pensavo mia madre e piangevo...
Vedi, le dicea, sognando,
è l'alba: e ci sembra sì triste,
perché l'anima piange.
Poi quando saremo lontani
vedremo i tramonti dorati,
e piangeremo insieme...
Correva veloce il vapore;
fuggivano i monti ed i piani,
ed io solo piangevo...
(Da «Ateneo Letterario Artistico», aprile 1902)
NELLA CLINICA DEL PROF. MAZZONI
(CORSO D'ITALIA, 33)
di Marino Moretti (1885-1979)
Mamma, preghiamo insieme.
Il cuore è un po' malato, e ride e geme.
Sporgiti dal marmoreo davanzale,
e guarda il sole del Corso d'Italia
ch'è sì dolce su gli alberi potati.
Mamma, guardiamo insieme
queste Sorelle care al Papa morto,
che han la Madonna nell'orto
e il Crocifisso sul petto,
un Crocifisso benedetto.
Mamma, piangiamo insieme
d'essere soli a Roma
col pensier della casa e del paese,
di ciò che fummo e di ciò che saremo
qui soli, a Roma.
O mamma quasi risanata (quasi),
preghiamo insieme
perché Dio veda l'angoscia che preme
sul cuore di tuo figlio.
Mamma, preghiamo insieme
la Madonna del Buon Consiglio.
Roma, 12 aprile 1916.
(Da «La Diana», aprile 1916)
A MAMMA
di Umberto Saba (1883-1957)
Mamma, c'è un tedio oggi, una non dolce
malinconia, che in ogni
vita à una preda, e fa umili i sogni
de l'uomo che àil suo mondo à nel suo cuore.
Mamma, ritornerà oggi a l'amore
tuo, chi a l'amore più non si rivolge?
Solo, e fuor de l'umano
gregge, questo tuo sempre più lontano
figlio, ti ritornerà?
Ed è un giorno di festa, oggi. La via
nera è tutta di gente, ben che il cielo
sia velato, ed un vento aspro a lo stelo
tolga il giovane fiore, e in onde gonfi
la gialla acqua del fiume.
Passeggiano i borghesi lungo il fiume
torbido, con violacee ombre di ponti.
Sta la neve sui monti
ceruli ancora; e la malinconia
viene in me da l'aspetto de la via,
triste senza l'usato
suono d'opere, o d'una nostalgia
insanabile è il tuo figlio malato?
E tu pur, mamma, la domenicale
passeggiata riguardi, da l'aperta
finestra, ne la tua casa deserta
di me, deserta de l'unico bene.
Guardi le donne, i marinai; né scordi,
mamma, quel bene; non i tuoi timori
scordi, se gli ebbri o i lavoratori
guardi, che i rudi e lordi
panni, per me superbamente belli,
oggi a gara lasciati ànno per quelli
de la festa, dai gran colori falsi.
Ma tu, mamma, non sai che sono falsi.
Tu non vedi la luce che io vedo.
Altra fede ti regge, che non credo
più, che sì cara nella puerizia,
m'era, quando il tuo Dio
vagheggiando, supino a mezzo il prato:
pensando ch'egli mi ti aveva dato,
mi salivano lacrime agli occhi.
Or, se i fanciulli a crocchi
vedi la libertà de la festiva
sera splendere in giochi,
ricordi come spesso io da quei giochi
rifuggivo lontano:
e non a la tua mano?
Ché dei tuoi crucci, dei tuoi molti guai
questa è la fonte, che in quei favolosi
tempi turbava i tuoi scarsi riposi,
come oggi il mio sdegno:
tese l'animo mio sempre ad un segno,
cui non tesero i miei compagni mai.
Tu di questo non sai
vivere lieta, tu che piangi, piangi
sempre, ne la tua casa deserta.
Là ti rivedo; e da non più aperta
finestra, con l'incerta
sera, de le campane entra un profondo
suono, il preludio de la dolce notte,
de l'insonne per te, gelida notte.
Ad ogni tocco, più verso la notte
è roteato il mondo.
Mamma, un tempo ci fu che udendo un suono
di campane, mirando quella sola
nube, che il vespro tinge di viola,
non so quale tristezza il cor più buono
mi faceva, più incline al tuo d'allora.
I miei pensieri ancora
vanno a quel tempo, benché grande e varia
sia la mia vita, con la solitaria
forza, onde godo di che ogni altro trema;
e quanto al volgo appar pena suprema,
d'estasi il cor mi riempie.
Non vidi i passi tuoi farsi più stanchi,
o dolce madre, e i tuoi capelli bianchi
su le povere tempie.
Ed un tempo ci fu, anche, che in ogni
cosa la più sapiente eri tenuta
da me, da me che la tua bocca muta
feci poi, con l'altezza dei miei sogni.
Tu pel fanciullo eri l'infallibile;
eri colei che non conosce errore:
L'umile tua parola nel suo cuore
scolpivasi così, ch'ebbe indicibile
angoscia, quando per la prima volta,
e come ogni altra, la tua mente folta
d'errori discoverse.
Mamma, il tempo fu quello che d'avverse
forze piena sentii l'umana vita;
sì che indugio a la mia casa il ritorno.
Ben mi apparvero eterne
verità, ma infinita
n'è l'amarezza, e in odio ebbi la vecchia
casa, il terrazzo ove leggevo Verne,
pallido d'ansia, ne le rosse sere.
Poi, nel sonno, sognavo l'Oriente
barbaro, e quanta gente
non vinceva la mia piccola mano!
Era incerto fra il riso e il pianto il ciglio
tuo su quel sonno: ora lontano è il figlio
unico, e il tempo fugge.
Mamma, il tempo che fugge
t'ansia, e l'ansia che impera
nel tuo cuore, c'è forse anche nel mio;
c'è, pur latente, il male che ti strugge;
sonvi le cure e le domenicali
malinconie.
Lentamente, ora sfollano le vie
ne la sera di festa, e verdi e rossi
accendono fanali le osterie
di campagna. La chiara
voce si effonde de la ritirata,
di canzoni l'enorme camerata
s'empie, turpi e gioconde. - E' l'ora, mamma,
l'ora che cresce affanno
ai cuori come il tuo, soli ed amanti,
di su gli ultimi mari ai naviganti,
dentro l'orride celle ai prigionieri.
Canterellando scendono i sentieri
del borgo i cittadini.
Torna dolce a ciascuno la sua casa.
Ed il mistero ond'è la vita invasa,
tu con preghiere esprimi. -
Mamma, il tempo che fugge
porta il rimpianto di quello che fu.
La vita intanto il nostro sangue sugge,
non so se dolorosa o bella più. -
(Da "Poesie", Casa Editrice Italiana, Firenze 1911)
IO NON HO FIORI...
di Diego Valeri (1887-1976)
Io non ho fiori da versar sul folto
tappeto di trifoglio e di gramigna
che veste la tua fossa; io non ho quasi
neppur lacrime più da lacrimare
sul tuo povero cuore seppellito
qui, sotto questa terra. Solamente,
io mi guardo, io mi cerco in fondo all'anima,
per veder te, per ritrovare il tuo
viso sfiorito di malata, e il riso
pallido de' tuoi dolci occhi di pianto,
e i tuoi capelli bianchi ancora sparsi
di qualche ciocca bionda, e le tue mani,
le tue ruvide mani ossute e gonfie
di vene azzurre, le tue sante mani
di mamma bruciacchiate al focolare...
E ti chiamo, ti chiamo con la voce
del desiderio mio che non ha pace
e confine non ha, né sa che sia
morte... - Ma in vano. In van mi scruto. In vano
t'invoco. Dentro l'anima mia cupa
che mi fa tanto male... O mamma mia,
tu non odi il mio grido! Ed io son solo,
solo qui presso a te, con te, nel calmo
cimitero, tra i marmi ed i rosai;
solo nella dolcezza stupefatta
di questo pomeriggio azzurro e bianco;
solo nel gran silenzio, in cui non odo
che un fruscìo di lucertola tra l'erba
e il soffio d'una rosa che si sfa.
(Da "Umana", Taddei, Ferrara 1916)
MAMMETTA
di Giuseppe Zucca (1887-1959)
Mammetta, tu che ti ricordi
tutto di me, le parole
piccole e quelle più grandi,
i sonni, i giochi, i pianti,
e solo hai dimenticato
le rispostacce cattive
che il mio rimorso non scorda;
mammetta, tu che mi dici
sempre che ancora mi vorresti
piccino per tenermiti ancora
sulle tue stanche ginocchia,
come quando a notte tarda
s' aspettava papà che tornasse
- papà che ora non torna più ! — ;
mamma mia, tu che ti fai
sempre più piccina, mentr'io
sono di tanto ingrandito
che appena giungi a baciarmi
qui sul petto, qui dove batte,
e io devo un po' chinarmi
per baciarti te sulla fronte
(fronte attenta e animosa,
così scarna qui sulle tempie,
con queste due ferme rughe
tagliate fra ciglio e ciglio
e, in mezzo, una macchiolina
rosea, una voglia di fragola
che intenerisce a primavera);
mammetta, tu che mi guardi
vivere, tu certo te le ricordi
queste cose tanto lontane
che la mia nostalgia rievoca
con un sorriso non so
se amaro o se dolce e un singhiozzo
qui in gola, ma più nel cuore.
E tu cercale, quelle memorie,
qui: son dette «lontananze».
Ciascuna è un bacio di me
fanciullo, a te e a papà:
papà
che dorme là dietro la pietra
dove io scrissi il nostro dolore;
e quelle due rondini di bronzo
si baciano e gli dicono: — Sai?
ti pensano sempre, ti pensano. —
(Da "Io", Formiggini, Roma 1919)
Tutte molto belle queste poesie,qualcuna non la conoscevo.Grazie
RispondiEliminaProbabilmente non sono molto conosciute. Grazie a lei.
RispondiElimina