lunedì 12 maggio 2014

La Madonna nella poesia italiana decadente, simbolista e crepuscolare

Molto presente nelle poesie italiane, la Vergine Maria rappresenta per antonomasia la maternità ed è anche la figura femminile più rilevante della religione cristiana. I poeti decadenti e simbolisti la ritraggono in più di una maniera: bellissima, dallo sguardo incantatore, capace di creare un'atmosfera magica, che essa sia raffigurata in sculture o in pitture, è simbolo del divino e dell'amore universale. Ma nelle poesie dei crepuscolari ecco che le immagini della Madonna divengono meno sfolgoranti e assumono caratteristiche che fanno pensare alla povertà e alla sconfitta: essa si presenta in forme misere nei piccoli tabernacoli che spesso si trovano in luoghi poco frequentati e, addirittura, a volte non sono altro che delle rovine in cui rimane solo una scritta ad indicare la remota presenza di una immagine della Madonna.



AVE
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Piccola pettinatrice ebrea,
mi è dolce pettinarti così.
Venne l'angelo,
poi nacque Gesù.
Ma sei la donna di Maggio:
tra le rose di tutto il mondo
nessuna è più fresca di te.
Poiché
i tuoi occhi sono eterni,
i tuoi capelli sono sottili
carezzati dalle mani
di Gesù.
Poiché
nessuno ti può chiedere grazia
senza che Tu lo ascolti.
Il tuo Cuore è lo specchio
dove ciascuno si può specchiare
che abbia sete d'amare.
Sei bella
più del Tuo mite nome, Maria,
sei grave
più della musica dell'organo
che fa piangere.

Piccola Pettinatrice, Ave!

(Da "Senzanome", Mondadori, Milano-Roma 1924)





VALLE D'ADORNO
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Nell’alta ombra il tuo volto
Vergine contemplai;
In una pia, raccolto,
Estasi, ti adorai.

Ricontemplarti ancora
Volli, e l’alpe varcai;
Il mio lutto in quell’ora
Santa, dimenticai.

L’Arte non ha ideali
Fulgenti al par di te;
Fra tutti i floreali
Fiore più bel non v’è.

Sembra esultar la zolla
Sotto il divin tuo piè;
Ti saluta la folla
Come al passar del re.

Così superbamente
Nel nimbo mattinal,
Stupenda adolescente,
Tu porti il sideral

Tuo nome di Regina;
Gagliardo e trionfal
Così sulla marina
Trascorre il maestral.

Vidi, e quella memoria
Serbo, reliquia, in cor,
Fra i monti, nella gloria
D’un crepuscolo d’or,

Staccarsi in ombra queta
Lo spagnuolo pallor
Della tua faccia lieta;
Caldo lunare albor.

Fumavano dai boschi
Le case, un grigio vel
Correa pascoli e foschi
Balzi, era d’ambra il ciel;

Salìan, tremante incenso,
A te il fumo ed il vel,
Era il braciere immenso
La valle tua fedel.

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)





L'IMMAGINE
di Giuseppe Casalinuovo (1885-1942)

Sbiadita, informe, chiusa in una griglia,
una madonna guarda senza posa,
per la viuzza piccola ed ascosa,
aspra di selci e molle di fanghiglia.

C'è da tanti anni, e il tempo l'ha corrosa,
e ogni anno più scolora e s'assottiglia,
e sotto l'arco grande delle ciglia
si fa sempre più triste e più pensosa.

Il volgo passa e ciancia, indifferente
a quella vecchia immagine sbiadita
che tanto un dì sorrise alla sua gente.

Solo una vecchia pallida e smarrita,
che all'ave torna a lei devotamente,
pensa che piange sulla nostra vita.

(Da "La lampada del poeta", Zanichelli, Bologna 1929)





LA MADONNA E IL SUO LAMPIONCELLO
di Sergio Corazzini (1886-1907)


I

Umilmente la Vergine pregava,
e ne la voce avea tanto dolore,
e il suo cuore, trafitto, sanguinava:

«O lampioncello, fallo per mi’ amore,
tu se’ il compagno mio, tu sei la stella
che mi dà pace con il pio chiarore;

tu sei fratello, io sono tua sorella,
senti: ho paura di stare all’oscuro,
senza il raggietto de la tua fiammella!

Ardi, ed il cuor dolente rassicuro,
ardi, ti prego, lampioncello rosso,
come il cuor di Gesù, tremante e puro...»

Ma il lampioncello sospirò: «Non posso».


II

E Maria seguitò umilemente:
«Perché non puoi? Se tu sarai buono,
come una stella ti faccio splendente

e il tuo disobbedire ti perdono.
O lampioncello, o lampioncello mio,
mi sembra di sentir, lontano, il tuono!

Qui sono sola ed assai lunge è Dio!
Qui sono sola, assai lunge è il mortale;
sono fatta d’oblio, d’oblio d’oblio...

Non un passero batte la su’ ale
contro il mio volto, o lampioncello rosso,
ardi! Ho tanto timor del temporale...»

Ma il lampioncello spasimò: «Non posso».


III

La sera dopo, era una sera mite,
piena di trilli, piena di fiammelle,
di voci mai prima d’allora udite,

umilmente, una mano, una di quelle
mani che sanno spesso l’altra mano,
una mano tranquilla che il ribelle

gesto non seppe mai, piano piano,
il solitario lampioncello accese:
s’udì una prece, dolce, un passo umano

lontanare, laggiù, verso il paese
che dormiva da tempo, ne la sera.
Invano, invano il lampioncello prese

fuoco: Maria suavissima non c’era...


IV

Umilmente chiamò, umilmente
attese. Pensò perché mai Maria
fosse fuggita senza dirgli niente,

la sua dolce compagna, la sua pia
sorella! Aveva dunque una sì folle
paura de la solitaria via?

E il lampioncello, disperato, volle
giungere al cielo con la sua fiammella...
Ah, se fosse mai nato su quel colle!

Pregò ancora: «Maria, buona sorella,
ti farà luce il lampioncello rosso,
oh vieni, vieni, la serata è bella!»...

Ma la Madonna singhiozzò: «Non posso».

(Da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)





TABERNACOLO
di Corrado Govoni (1884-1965)

Io visito sovente nel mattino
o pure nel crepuscolo rosato
un religioso tabernacolino
nel canto d'un chiassuolo desertato.

Ed al chiuso cancello intrecciato
sempre vi trovo qualche gelsomino,
o un fresco bucaneve immacolato
che vi dispone un gracile bambino.

Su l'altare di legno scolorito,
una Madonna in tunica di raso
piange soletta con rassegnazione,

e un bronzeo lucernino arrugginito,
tra le rose di carta dentro un vaso,
spande la sua rossa orazione.

(Da "Le fiale", Lumachi, Firenze 1903)





LA MADONNINA DEL DIRUPO
di Agostino Mersi (1882-1943)

Oilà più di cento primavere vide
fiorir la madonnina umile e sola,
che là dal ciglio de l'alpestre gola
ai casolari e ai pascoli sorride!

Mite ella accheta il turbine che stride
e curvando le selve ampie trasvola,
veglia le sorti de le audaci guide,
ode le preci di lor famigliola.

Serti nivali e diademi rossi
d'accese aurore a lei donano i monti,
e le schiudono a' piè le alpestri rose.

E quando, dal morente sol percossi,
splendon come are i vertici, le fonti
sussurran lievi avemarie pensose.

(Da "Canti solitari", Unione Biellese, Biella 1914)






LA MADONNA DEL SASSOFERRATO
di Marino Moretti (1885-1979)

In mezzo a vecchie carte un bel «santino»
oggi ritrovo: il volto addolorato
d'una madonna del Sassoferrato
tutta chiusa nel suo manto turchino.

Dietro il foglietto che à un odor di cera
si legge: "Per ricordo di Vincenza
e di Ginevra Piattoli. Indulgenza
di 100 giorni". E il titolo: PREGHIERA...

O Vincenza, o Ginevra, o mie padrone
di casa (finalmente vi ritrovo
nella memoria!), fate ch'io di nuovo
sia da voi, nel vostro eremo, a pensione.

Fate ch'io viva nella stanza in cui
mi facean compagnia tanti ritratti
e ch'io carezzi il pelo ai vostri gatti
e ch'io ritorni un po' quello ch'io fui!

Dal giorno che mi deste per saluto
questa Madonna del Sassoferrato
oh se sapeste come son mutato,
oh se sapeste come son perduto!

Dal giorno triste della mia partenza,
dal giorno in cui piangendo vi lasciai
io non volli, io non seppi acquistar mai
un giorno, un solo giorno d'indulgenza!

Dolce la stanza mia quando era invasa
dalle prime ombre, e a me lenta venia
il metro della vostra salmodia
da un'altra stanza buia della casa.

Dolce era aprire un vostro libriccino
in un momento di tristezza ignota,
a questa e a quella pagina remota
chiedendo un po' di pace e di latino!

O Suor Vincenza, io vi rivedo china
al domestico altare in miniatura,
e per pregar la bocca à una più dura
piega sul vostro volto di beghina!

O Suor Ginevra, attenta alla domanda
del pensionante io vi rivedo ancora
mentre passa un pensiero che vi accora
sul vostro volto di vecchia educanda!

Nulla mutaron nella vostra vita
gli anni che passan facili nell'ombra
quando una teda basta alla penombra
e la discesa è quasi una salita;

ma quegli che ama solo il suo passato
vi pensa e piange con dolente metro,
e legge... legge il vostro nome dietro
alla Madonna del Sassoferrato...

(Da "Poesie scritte col lapis", Ricciardi, Napoli 1910)





GUARDIE DI NOTTE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

All'angolo della via,
come due enormi carabinieri,
fanno la guardia
due cipressi neri.
E alle lor rigide gambe,
l'ultimo avanzo s'affida,
d'un vecchio tabernacolo rotto,
si legge ancora sotto:
Salutate Maria.

(Da "Poemi", Cesar Blanc, Firenze 1909)





CEPPO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

È mezzanotte. Nevica. Alla pieve
suonano a doppio; suonano l'entrata.
Va la Madonna bianca tra la neve:
spinge una porta; l'apre: era accostata.
Entra nella capanna: la cucina
e piena d'un sentor di medicina.
Un bricco al fuoco s'ode borbottare:
piccolo il ceppo brucia al focolare.

Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.
Gesu trema; Maria si accosta al fuoco.
Ma ecco un suono, un rantolo che viene
di su, sempre più fievole e più roco.
Il bricco versa e sfrigge: la campana,
col vento, or s'avvicina, or s'allontana.
La Madonna, con una mano al cuore,
geme: Una mamma, figlio mio, che muore!

E piano piano, col suo bimbo fiso
nel ceppo, torna all'uscio, apre, s'avvia.
Il ceppo sbracia e crepita improvviso,
il bricco versa e sfrigola via via:
quel rantolo... è finito. O Maria stanca!
bianca tu passi tra la neve bianca.
Suona d'intorno il doppio dell'entrata:
voce velata, malata, sognata.

(Da "Myricae", Giusti, Firenze 1903)





AVE MARIA
di Enrico Pea (1881-1958)

Passeggero che passi per la via,
non ti scordar di salutar Maria.
Ti porterò le primizie di maggio,
e niuno potrà esserne geloso.
Nemmeno l'altra che ha denti di neve
e marita le burle alle passioni.
Chi è geloso di Maria Regina
non sa che il fuoco brucia e l'acqua bagna.

L'erba ti porterò che sempre odora,
erba Santamaria, foglie e coltello,
e le viole che crescono in silenzio
tra i colaticci di tre metri d'orto:
un mazzolino con le foglie in tondo
legato stretto con lo stame rosso,
come fanno di maggio per la dama
quelli del mio paese a cor beato.
L'offerta è poveretta a una Regina,
alla Regina di tutto il Creato.

E' come se portassi un'oncia d'oro
al tesoro del gran re Salomone;
è come un chicco di grano al granaio
di Faraone, un trifoglio in un prato.
E' come se volessi col mio fiato
alimentare una bufera immane
o portare all'oceano un contributo
con il pianto dei miei occhi mortali.

Hai per diadema le stelle del Cielo,
Madre, e ti offro un mazzetto di fiori
con queste poche sillabe d'amore
nella speranza di tornarti in core.

Mi faccio bimbo e ti chiamo Maria
e mi risponderai come rispondi
ai piccolini cui inanelli il capo.
Rimandami il tuo Angelo custode:
il poeta è creatura che si turba,
ché ha paura a rimanere solo.

(Dalla rivista: «Italiano», aprile 1928)





DOLCE SIGNORA
di Giulio Salvadori (1862-1928)

Dolce Signora,
quanta tristezza,
quante miserie,
quanto dolore
  Quaggiù! né un'ora
senza amarezza
passa, né gioia
senza terrore.

Solo il tuo sguardo
tanto soave
rinfranca l'anima
impaurita.
  Il foco ond'ardo
posa; men grave
è ogni martirio;
torna la vita.

La tua dolcezza
chi può pensare?
come, a comprenderla,
misero io sono!
  Il cuor si spezza;
lacrime amare
piange, né credere
vuole al perdono
  talora: e intanto,
dolcissim'onda,
come in un arido
fiore rugiada,

  la tua lo pènetra
pietà profonda,
ed all'altissima
pietà fa strada.

(Da "Liriche", Vita e Pensiero, Milano 1933)





FLORA MIRABILIS
di Emanuele Sella (1879-1946)

O dolcissimo angelico linguaggio,
parola ardente che alle stelle arrechi
il dolce invito della fioritura,
sboccia alla tua carezza il fior dell'ètere
e si compie il prodigio ed una flora
incandescente popola l'azzurro!

Meteore satelliti pianeti
e stelle fisse un bel desìo travolge
d'esser giacinti e fiordalisi d'oro.

Le Pleiadi diffondono nel cosmo
l'iride infranta dell'opale lattea
d'un niveo giglio ed Orione assume
l'eleganza d'un mistico asfodelo.

Ma tu, fra i fiori della luce, esulti
circonfusa d'angeliche fragranze
e di zodiacali edere cinta,
unica stella, stella delle stelle,
Alta Madonna, simbolo di Dio
nell'algoritmo dell'eternità.

(Da "Il giardino delle stelle", Zanichelli, Bologna 1907)





CANZONE ALLA VERGINE
di Federigo Tozzi (1883-1920)

Parevami toccar quasi le cime
delle guglie d'enormi cattedrali,
quand'io vedea formate le mie rime
ventando un poco una dolcezza d'ali.

E, dopo una Madonna di Neroccio
mi sorrideva che mi convertissi;
e come l'acqua appena giunta al doccio
così pareva a me ch'io l'obbedissi.

E feci bene. Ma non vidi subito
come accolto sarei nell'infinito:
e pure di salire più non dubito
or che mi sento come preferito.

Preferito da te, dolce Madonna,
da te, che non disdegni quel che dico;
e se talvolta l'anima si assonna
tu la ridesti col tuo volto amico.

E m'inviti a venir su le ginocchia,
perché tu sai che sei la Madre eterna,
la Madre bella che non ha sirocchia,
la più benigna ed ultima lucerna.

Oh, quando tu mi prendi sopra i polsi,
e mi porti fin quasi alla tua bocca!
Oh, come di dolcezza mi trabocca
l'anima che per il tuo amore sciolsi!

Oh, come tutto è gaudio che sorride
in ogni parte! E come tu rispondi
da dove prima l'anima ti vide
leggiadra de' misteri tuoi profondi!

È il tuo grembo che ride ed ha splendore
di stelle innumerabili rinate
nel cielo pieno, tutte dal tuo amore
e dalla bontà tua costì chiamate.

Della natura se' la veste eterna
che d'anime si adorna come gigli
e l'unico suggello hai ne' tuoi cigli
di tutto 'l tempo ch'entro lor s'interna.

E la canzone mia così venuta
fino a pregarti dove l'odi meglio,
ora dinanzi al tuo cospetto ammuta
come l'anima fosse innanzi a speglio.

O paradiso dove il gaudio è come
la materia che foggia la sua incude!
O paradiso dolce di tue chiome
ché te, Madonna, per sua gloria chiude!

Certo, il tuo ventre fa sognare ancora
la sua grande dolcezza e la salute
che per il mondo tuo traesti fuora
a ripigliare le anime cadute.

Ventre misterioso, dove a noi
rinnovellasti la terrena origine,
viene da dentro te la scaturigine
che mi disseta co' piaceri tuoi!

E l'anima mia sento divenuta
come la veste che t'avvolge tutta.
Ella t'ama da quando t'ha veduta,
e nel tuo caldo le sue gemme butta.

Ricordo quando l'angelo a te venne
da una purezza simile alla luce;
come la primavera i fiori adduce
così l'anima a te l'eterne penne.

E sì come la luce un corpo tocca,
l'angelo fermo, al sole simigliante,
venne a toccare alquanto la tua bocca
portandoti le sue parole sante.

Ave, Maria, ti disse. E ti sembrava
che l'anima gravata di un suo giglio
sognasse troppo. E l'angelo indugiava
soave ad annunciarti il Grande Figlio.

Par che tu sappia qualche cosa, ed io 
non possa mai saperlo; benché trovi
che tutto quel che dici è del tuo Dio,
i cui misteri sono sempre novi.

Ed incontrarti prima che la via
divenga troppo lunga! Il tuo sorriso
par che rifletta a me l'anima mia
per l'amore che senti, com'io avviso.

Or da per tutto il manto vedo scorrere
il tempo come un fiume senza foce;
io lo vedo rossigno d'una croce,
e tutto il mondo all'ombra sua soccorrere.

O mia canzone simile a una spada
confitta in una pietra (e vibri ancora
del colpo che t'aprì la dura strada)
nessuno di costì ti tragga fuora.

(Da "Le poesie", Vallecchi, Firenze 1981) 

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