domenica 7 aprile 2013

La Domenica in Albis in versi


La "Domenica in Albis" o "Ottava di Pasqua" è la prima domenica che giunge dopo la Santa Pasqua. È così chiamata per via di una tradizione esistente ai tempi del Regno della Chiesa, quando si usava celebrare il sacramento del battesimo nella notte di Pasqua; i battezzandi durante la cerimonia indossavano delle tuniche bianche che avrebbero usato per tutta la settimana successiva all'evento, compresa la domenica, dopo la quale potevano deporre le vesti. Da qui il nome latino scelto per questa festa: "domenica in albis depositis" che si traduce: "domenica in cui si depongono le bianche vesti".
Ecco infine tre poesie di tre grandi poeti del Novecento italiano che hanno dedicato dei versi a questa poco conosciuta ricorrenza religiosa.





AMEN PER LA DOMENICA IN ALBIS
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

Non m'hai tradito, Signore: 
d'ogni dolore
son fatto primo nato. 

(Da "Oboe sommerso", 1932)





DOMENICA IN ALBIS
di Luciano Erba (1922-2010)

Questo è un regno di pioggia, un mondo vizzo
di fantesche accordate ai music halls
di bambini sospesi a un palloncino
color lampone, vicino fuma il padre
ha le guance screziate dal rasoio.
Questo è un giorno di festa che ti esilia
alla soglia d'amore e dell'addio
a due mani di donna che tu hai visto
indugiare un istante tra le perle
di una breve collana
sembravan dire
per noi la vita è sempre mañana.

(Da "Il male minore", 1960)





DOMENICHE IN ALBIS
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Giorni d'azzurro vivo
e di tegole rosse,
e il mondo è come fosse
un infinito abbrivo
d'anima su quei colori
fin dov'esso s'estenua

questi sono i miei amori

la mia persiana verde
da cui schiusa si perde
la veduta, con l'anima,
perché l'anima vede
sempre ciò ch'essa crede
nei suoi bianchi fulgori.

(Da "L'estate di San Martino", 1961)

lunedì 1 aprile 2013

Aprile in 10 poesie di dieci poeti italiani del XX secolo


DISSOLVIMENTO
di Enrico Thovez (1869-1925)

Oh senza amore più! senza speranza! Nella miseria, 
disfatto come un cadavere! E attorno nuvole azzurre, 
mattine chiare di aprile, rumori allegri di carri. 
La mia superbia è caduta: mi striscio abbietto pei muri, 
non vive più del mio sogno nemmeno in me la memoria. 
Oh premer corpi flessuosi! cercar le forme dei seni, 
lisciare carni di rosa, morder con bocche anelanti, 
ghermir con avide mani, stordirsi sino alla morte! 
Ma non quest'ebete vita! questo rimpianto che rode, 
questo ronzare di gente che non discerno, e mi opprime! 
O vita! è tardi, io ti cerco con occhi già quasi spenti! 
Chi canta, suona? Mi scuote. Pare un lamento mortale... 
Qualcosa in me d'ineffabile, d'eroico gonfia dal cuore: 
è un coro, è un organo, è Wagner. Io canto i miei funerali 
dentro il mio cuore, ascoltando, mi intenerisco e mi esalto: 
sento che qualche gran cosa freme e trapassa con me. 

(Da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)





APRILE
di Giovanni Lanzalone (1852-1936)

Ritorni, o amabile madre dei fiori,
con rosee nuvole, con erbe tenere,
madre dei teneri fecondi amori?

Ahi! ma a chi gli aurei doni di Venere
rechi? a chi il reduce riso dei fiori?
Per tutto è incendio mina e cenere.

D'innumerabili lutti e d'orrori
ulula e sanguina la terra immensa,
di pianto e d'odio son gonfi i cuori.

Tu calma, o placida, l'empia bufera:
tu giusta ai popoli pace dispensa:
sii tu dei secoli la Primavera !

(Da "Speranze umane", Guidetti, Reggio Emilia 1919)





APRILE 
di Sebastiano Satta (1867-1914)

Per la strada fiorita 
Tornano al caro monte 
La greggia ed il pastore…

Alla svolta, sul ponte, 
Ti rivedrò, bel fiore, 
Cantando all’apparita.

(Da "Canti del salto e della tanca", Il Nuraghe, Cagliari 1924)





APRILE
di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

È oggi la prima volta
Che le può aprire gli occhi,
L'adolescente.

Esiti, o sole?

Con brama schiva la bendi d'affanni

(Da "Sentimento del Tempo", Vallecchi, Firenze 1933)





APRILE
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

Quante parole stanche
mi vengono alla mente
in questo giorno piovoso d’aprile
che l’aria è come nube che si spappola
o fior che si disfiora.
Dentro un velo di pioggia
tutto è vestito a nuovo.
L’umida terra
mi punge e mi discioglie.
Se gli occhi tuoi son paludosi e neri
come l'inferno,
il mio dolore è fresco
come un ruscello.

(Da "Giorni in piena", Novissima, Roma 1934)





APRILE
di Olinto Dini (1873-1951)

Ecco: tra cori di rondini,
aprile, ritorni
inghirlandato di rose e di mammole
e di fioretti di pesco e di albaspina,
e, sorridendo agli antichi soggiorni,
voli per questa serena mattina;
e amore t'è insieme;
e la terra a voi freme.

Malinconia
gelida ho in cuore;
ma tu la soffi via
con baci di tepido odore.
O Aprile ridarello
che sei d'amore fratello
e nemico di tristezza,
ridammi giovinezza
di poesia.

(Da "Voci della mia sera", L'Eroica, Milano 1937)





APRILE IN RUGABELLA
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Quando a guardare l'orizzonte
Era il suono d'una tromba
La mia voglia di gridare,
Sentivo che la pietra
Era il mio cuore il sole
Rumoroso sulla guancia.
Più caro alla mia vita ora
Pensarmi solo a soffrire:
Più tardi quest'illusione
Passerà. A gran pena
Dispero della mia felicità,
Un giorno come questo ricco
Di squilli forti, un'ora
Piena di carità.

(Da "Vidi le Muse", Mondadori, Milano 1943)





APRILE-AMORE
di Mario Luzi (1914-2005)

Il pensiero della morte m'accompagna
tra i due muri di questa via che sale
e pena lungo i suoi tornanti. Il freddo
di primavera irrita i colori, 
stranisce l'erba, il glicine, fa aspra
la selce; sotto cappe ed impermeabili
punge le mani secche, mette un brivido.

Tempo che soffre e fa soffrire, tempo
che in un turbine chiaro porta fiori
misti a crudeli apparizioni, e ognuna 
mentre ti chiedi cos'è sparisce
rapida nella polvere e nel vento.

Il cammino è per luoghi noti
se non che fatti irreali
prefigurano l'esilio e la morte.
Tu che sei, io che sono divenuto
che m'aggiro in così ventoso spazio,
uomo dietro una traccia fine e debole!

È incredibile che io ti cerchi in questo
o in altro luogo della terra dove
è molto se possiamo riconoscerci.
Ma è ancora un'età, la mia,
che s'aspetta dagli altri
quello che è in noi oppure non esiste.

L'amore aiuta a vivere, a durare,
l'amore annulla e dà principio. E quando
chi soffre o langue o spera, se anche spera,
che un soccorso s'annunci da lontano,
è in lui, un soffio basta a suscitarlo.
Questo ho imparato e dimenticato mille volte,
ora da te mi torna fatto chiaro,
ora prende vivezza e verità.

La mia pena è durare oltre quest'attimo.

(Da "Primizie del deserto", Schwarz, Milano 1952)





APRILE
di Adriano Grande (1897-1972)

Aprile: oh, rischiararsi
tanto atteso del tempo! Fuga alterna
d'ali nel cielo; sopra i vetri, e dentro
le stanze chiuse, gioco
continuo di riflessi
limpidi e caldi. In me, segretamente,
dacché son reso schiavo
della grigia vecchiezza,
non vivo che di questi
alimenti incorporei, gratuiti
e senza peso. Invento un'esistenza
tutta di madreperla che di luce
solamente si nutra.
                             E duri eterna.

[Da "Poesie (1929-1969)", Mursia, Milano 1970]





APRILE
di Umberto Bellintani (1914-1999)

Tu vivi il tempo di grazia dell'aprile
e tra le canne stormenti dello stagno
se un frullo appena si ode dei palmipedi,
avverti un grido imponente di stupore;
e del tuo cuore se un nonnulla desta un lagno,
il muover d'ali di quell'anatra smarrita,
un piccol sasso, un'inezia ti consola.
È dunque vano che ti dica, e ciò m'allieta,
di come il male della vita qui s'apposta; 
è dunque vano che ti parli della nera
nube che incombe sopra l'anima contrita,
se per l'azzurro dei tuoi occhi sempre sosta
ritta sul palo di laggiù l'upupa rara.

(Da "Nella grande pianura", Mondadori, Milano 1998)

venerdì 22 marzo 2013

Antologie: "Poeti minori dell'Ottocento" a cura di Luigi Baldacci


"Poeti minori dell'Ottocento" è il titolo di un'antologia poetica curata da Luigi Baldacci e pubblicata dall'editore Ricciardi nel 1958. In realtà, quanto detto è valido solo per il primo tomo di quest'opera che comprende anche un secondo tomo, pubblicato cinque anni dopo e curato dallo stesso Baldacci e da Giuliano Innamorati.
Si tratta di un'antologia molto importante, curata ottimamente in ogni minimo dettaglio, e dedicata a quei poeti minori dell'Ottocento che furono al centro dell'attenzione di molti critici illustri in un periodo di anni che potremmo comprendere tra il 1947 ed il 1968. La selezione effettuata da Baldacci è piuttosto severa, perché, come spiegato da lui stesso alla fine dell'Introduzione: «Abbiamo chiara coscienza di certe omissioni, lamentabili forse in sé e tuttavia imposte dall'economia del nostro lavoro. Ma il criterio nostro è stato quello di ritrarre adeguatamente ciascuno dei poeti qui accolti, anziché abbondare nelle presenze e dover poi costringere ogni poeta entro termini troppo angusti o, comunque, insufficenti a darne la genuina fisionomia». Baldacci parla al plurale perché intende includere, nel suo discorso, l'opera intera; ciò è chiarito subito dopo quando afferma: «Il secondo tomo sarà dedicato alla produzione poetica dell'Ottocento che si discosta dalla linea tradizionale della "lirica" [...]». Parlando del primo tomo, che in sostanza raggruppa il meglio della poesia ottocentesca italiana cosiddetta "minore", mi pare interessante riportare cosa ha scritto Baldacci in un'altra sua interessante antologia: Secondo Ottocento, Zanichelli, Bologna 1969: «Ogni secolo si concede dei lussi, degli sperperi poetici, che rappresentano più il costume che le strutture portanti della storia, e della storia delle forme. Un certo impianto antologico impone di registrare anche quei lussi, un altro di delineare solo le strutture. [...] Negli ultimi anni lo studio di questo settore importante ha segnato notevoli progressi. Ciò non toglie che certe abitudini storiografiche, certi luoghi comuni abbiano ancora molta forza di suggestione. Così, a volte, si dà conto dei lussi e si tace sui fatti veri della poesia». E infine così conclude: «I poeti minori dell'Ottocento sono, insomma, assai maggiori di quanto si creda». Come non essere d'accordo su quest'ultima affermazione, pensando a poeti come Poerio, Aleardi, Prati, Zanella, Guerrini, Praga, Tarchetti, Camerana, Graf, Gnoli e tanti altri ancora. Due parole infine sull'ordinamento dei poeti presenti nell'antologia, che si basa fondamentalmente sulle tendenze poetiche susseguitesi negli anni; per tal motivo Domenico Gnoli, nato molto prima rispetto a parecchi poeti presenti, ma rivelatosi con un'opera fortemente innovativa agli albori del XX secolo, è quasi in fondo al libro.




POETI MINORI DELL'OTTOCENTO
TOMO I

I
Gabriele Rossetti, Giovita Scalvini, Giovanni Berchet.

II
Bartolomeo Sestini, Luigi Carrer, Pietro Paolo Parzanese, Francesco Dall'Ongaro, Vincenzo Padula.

III
Alessandro Poerio, Agostino Cagnoli, Goffredo Mameli, Giambattista Maccari, Giuseppe Maccari, Giulio Carcano, Cesare Betteloni, Andrea Maffei, Giuseppe Revere.

IV
Aleardo Aleardi, Giovanni Prati.

V
Giacomo Zanella, Costantino Nigra, Felice Cavallotti, Mario Rapisardi, Olindo Guerrini, Giuseppe Aurelio Costanzo.

VI
Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti, Arrigo Boito, Giovanni Camerana.

VII
Vincenzo Riccardi di Lantosca, Vittorio Betteloni, Edmondo De Amicis, Pompeo Bettini.

VIII
Enrico Nencioni, Enrico Panzacchi, Giovanni Marradi, Severino Ferrari.

IX
Remigio Zena, Contessa Lara, Arturo Graf, Vittoria Aganoor Pompilj, Giulio Salvadori, Domenico Gnoli, Adolfo De Bosis.

lunedì 18 marzo 2013

La siesta del micio

È sereno. Ogni cosa
sembra velata di fatica.
Il pomeriggio è in panna su l'antica
Certosa.

Nel marciapiede suonano i miei passi.
Si pensa quasi che l'azzurro crepiti.
Dei pugnali di sole tiepidi
feriscono il cuore dei tassi.

Sopra in tetto s'illuminan dei coppi.
De le finestre sono infiorate.
Il vento pettina le sue chiome arruffate
nei lunghi pettini dei pioppi.

De le campane d'un convento vicino
spennellan l'aria di una loro festa.
Sul davanzale un bianco micio fa la siesta
gambe a l'aria come un maialino.






Questa poesia di Corrado Govoni (1884-1965) fa parte della raccolta Armonia in grigio et in silenzio (1903), precisamente è la XX dell'ultima sezione intitolata La Certosa che in questo caso ha il significato di cimitero; infatti tale sezione comprende una serie di poesie "cimiteriali" dai titoli eloquenti (Riflessione sopra un avello, Corone funebri, "Lapide anonima" ecc.). La poesia sopra riportata descrive un momento incantato, di estrema calma all'interno del camposanto; il pomeriggio viene definito come "in panna", che nel linguaggio marinaresco sta a significare una manovra particolare con la quale il veliero si arresta e si può anche rimettere in moto facilmente. Singolare è anche il pensiero del poeta secondo il quale l'azzurro del cielo stia crepitando, così come fa il fuoco della legna che scoppietta nel camino. I raggi del sole sono paragonati a pugnali che colpiscono al cuore gli alberi che circondano quel luogo: i tassi. I "coppi" che s'illuminano sui tetti sono delle tegole che hanno forma di mezzo tronco di cono. Dopo i tassi pugnalati dal sole, Govoni fantasiosamente immagina che il vento pettini le chiome dei pioppi. L'ultima quartina è quella che esprime nello stesso tempo una sensazione di gioia e di tenerezza: il suono delle campane di un vicino convento immette nell'aria una festosa atmosfera, mentre sul davanzale di una finestra è possibile osservare un gatto bianco che in una posizione bizzarra (gambe a l'aria) sta facendo il suo sonnellino pomeridiano.




Corrado Govoni, "La siesta del micio"
(da "I poeti crepuscolari", a cura di Giorgio De Rienzo, Mondadori, Milano 1999)

sabato 16 marzo 2013

Poeti dimenticati: Francesco ed Emilio Scaglione


Francesco ed Emilio Scaglione furono due fratelli che si dedicarono in gioventù alla scrittura di versi, attratti particolarmente dalle nuove tendenze poetiche sviluppatesi in Italia e in Europa  tra l'Ottocento ed il Novecento. Pubblicarono un primo volume nel 1910, la cui particolarità consiste nel fatto che le poesie ivi presenti risultano firmate da entrambi. Francesco poi fece uscire una ulteriore opera poetica circa un anno dopo; lì finì la stagione artistica dei fratelli Scaglione, che per un periodo furono ricordati come rappresentanti di quel cenacolo di poeti siciliani nato agli albori del XX secolo, avente come punto di riferimento la misteriosa e stravagante figura di Agostino John Sinadinò; insieme a loro fecero parte di questo gruppo anche Tito Marrone, Federico De Maria, Angelo Toscano, Umberto Saffiotti e Gesualdo Manzella Frontini. Furono, insieme a pochi altri, i primi poeti che portarono in Italia le suggestioni e le atmosfere della poetica simbolista, e per tal motivo non andrebbero dimenticati.



Opere poetiche

"Limen" (Francesco e Emilio Scaglione), Giannotta, Catania 1910.
"Litanie" (Francesco Scaglione), Bideri, Napoli 1911.



Presenze in antologie

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 169-177; vol. 2, pp. 214-230; vol. 3, pp. 237-241).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 497-508).



Testi

Un giorno che peccai
mi dissero che mai
pietà ritroverei.
Ero così bambino
allora, e non credei
che potesse il destino
già cogliermi fra' rei
ne l'eterno cammino.
Un giorno che peccai
mi dissero che mai
pietà ritroverei.

Ed il mondo ho girato,
molti sogni ho spezzato,
molte lacrime ho pianto.
Poi, talvolta, un sorriso,
fra un anelito e un canto,
m'ha scherzato pe 'l viso.
Poi quel pianto ho rimpianto,
poi quel riso ho deriso.
Così il mondo ho girato,
molti sogni ho spezzato,
molte lagrime ho pianto.

Ma quel peccato sento
che di dissolvimento
m'inebria e m'avvelena.
Ogni giorno più forte
del mio essere in pena
dissuggella le porte:
ho già colma ogni vena
del suo soffio di morte.
Tale il peccato io sento
che di dissolvimento
m'inebria e m'avvelena.

(Da "Limen")

martedì 12 marzo 2013

Similitudine


In mezzo all'erbe sfolte
agonizzano al sole
tutte quelle viole
che non furono colte.

Ed hanno la tristezza
di giorni non vissuti,
di baci non goduti,
di non dette parole
d'amor - quelle viole
che non furono colte
e che, prive di brezza,
morran tra l'erbe sfolte.



Questa poesia di Mario Venditti (1889-1964) fa parte della raccolta Il terzetto (Parrella, Napoli 1911), seconda opera in versi del poeta napoletano che in verità non ebbe molti estimatori e che oggi è assolutamente sconosciuto. Eppure la lirica sopra riportata, come altre dello stesso volume, non sono affatto da buttare. In Similitudine è piuttosto evidente l'associazione dei fiori con gli esseri umani: le viole "non colte", che rimangono a morire lentamente sotto il sole, rappresentano quelle persone che nella loro vita non hanno vissuto a pieno la loro esistenza per scelta personale, per paura o per chissà quale altro motivo; queste, come i fiori, continueranno ad esistere passivamente, per poi morire senza aver dato un vero significato al loro passaggio sulla Terra.

lunedì 11 marzo 2013

Ohimè che cosa è accaduto

Ohimè che cosa è accaduto?
Il mandorlo è fiorito,
Ed io nulla ho sentito
Nulla ho veduto!

S'è guernito e coronato
D'un diadema di stelle d'argento,
Tutta notte ha lavorato
E sull'alba splendeva contento:

Ed ora le sue stelle le dà al vento:
La ghirlandetta fragile e superba
La sparpaglia su l'erba
Del fresco prato!

Il miracolo è compiuto,
Ma io nulla ho veduto
Nulla ho sentito!
Che cosa dunque è accaduto?

Dov'era questo povero cuore assorto,
Dov'era questo povero cuore muto
Se il mandorlo è fiorito
Ed esso di nulla s'è accorto?
 



È questa, l'ottava poesia del volume poetico di Angiolo Silvio Novaro Il piccolo Orfeo, Fratelli Treves Editori, Milano 1929. Come si può notare, trattasi di un testo molto semplice, tutto concentrato sullo stupore del poeta nel vedere, in un mattino di fine inverno, che l'albero del mandorlo è fiorito improvvisamente. Per tal motivo, ovvero per aver perduto l'occasione di osservare da vicino l'incredibile spettacolo della rinascita primaverile dei fiori e, simbolicamente, della vita, è fortemente rammaricato. Novaro fu poeta classicista e, come dissero molti illustri critici, "pascoliano"; scrisse molti versi per il pubblico infantile che intere generazioni impararono a memoria sui banchi di scuola. Rimase coerente con la sua poetica iniziale fino all'ultima opera che pubblicò; lo si capisce anche da questa poesia, che uscì qualche anno prima rispetto ai primi libri di Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli e Mario Luzi: i massimi esponenti del cosiddetto "ermetismo". Novaro non cercò mai di imitare le ultime avanguardie poetiche, continuando a scrivere liriche che riflettono la sua puerile semplicità, la sua meraviglia di fronte agli spettacoli della natura e i suoi profondi sentimenti per la famiglia e l'umanità intera. Grande esempio di coerenza e di grazia che difficilmente si ritrova nei tempi odierni.