domenica 11 marzo 2012

Da "Il mistico sogno" di Gabriele D'Annunzio

I fiori d'autunno hanno una grazia e una delicatezza singolari, e insieme non so qual fascino malinconico da cui si sentono presi anche li spiriti meno sentimentali. Portano, inoltre, nel loro colore e nella qualità delle loro foglie un'apparenza di vitalità quasi direi umana, ma di vitalità sofferente; e per questo attraggono più che le ricche e voluttuose fioriture d'estate e risvegliano in chi li contempla una specie di pietà e di tenerezza: la misericordia per li esseri fragili, solitarii ed infermi.

sabato 10 marzo 2012

Ohimè che cosa è accaduto

Ohimè che cosa è accaduto?
Il mandorlo è fiorito,
Ed io nulla ho sentito
Nulla ho veduto!

S'è guernito e colorato
D'un diadema di stelle d'argento,
Tutta notte ha lavorato
E su l'alba splendeva contento:

Ed ora le sue stelle le dà al vento:
La ghirlandetta fragile e superba
La sparpaglia su l'erba
Del fresco prato!

Il miracolo è compiuto,
Ma io nulla ho veduto
Nulla ho sentito!
Che cosa è dunque accaduto?

Dov'era questo povero cuore assorto,
Dov'era questo povero cuore muto
Se il mandorlo è fiorito
Ed esso di nulla s'è accorto?
 


"Ohimè che cosa è accaduto" è il titolo di una poesia di Angiolo Silvio Novaro, compresa nella raccolta "Il piccolo Orfeo" (1929). In una notte mite di fine inverno un mandorlo situato nelle vicinanze della casa del poeta, è fiorito. Il poeta si è accorto dell'evento soltanto a giorno fatto e si rammarica di non aver potuto assistere al fatto miracoloso che simboleggia il perpetuo e strabiliante rinascere della forza vitale. È una poesia semplice, che tanti anni or sono veniva spesso inserita in antologie scolastiche; il Novaro in questi versi, come anche in altri della medesima raccolta, mostra la sua affezione per la poetica pascoliana delle "Myricae" e dei "Canti di Castelvecchio".

venerdì 9 marzo 2012

[Marzo lucendo nell'aria]

Marzo lucendo nell'aria
Con vena sottile rinnova
L'esangue terra invernale
E come occhio di bimbo
Tutto s'apre a guardare,
E dà i riccioli al vento.
Che val, primavera, con spire
Irrequiete turbare
L'inerte mia spoglia?
Fra quattro mura di libri e d'ombre,
Sopra pagine ingombre,
L'amabil giovinezza
Qui s'infosca e si spezza,
L'amabil giovinezza
Che tranne sé
Non ha chi non conosca;
Che val, primavera, con avida
Gioia invitare il mio senso
All'ebbrezza del sole e del vento?
Dall'incessante via
Una canzone appassionata esulta,
E un rider sento d'uomini e di donne
Che nel lavoro preparan le voglie:
Dalle pagine ingombre, ottenebrato
Il mio volto s'alza a chiedere
La verità della vita
Che l'àttimo contrasta
E il dolor solo accoglie.
Ma il dolore non basta
E l'amore non viene.


 
È la 55° poesia di "Frammenti lirici", raccolta poetica di Clemente Rebora (Milano 1885 - Stresa 1957) pubblicata nel 1913. I versi di questa poesia rappresentano un'eccezione nell'opera citata, che presenta in prevalenza elementi espressionistici ardui, immagini che contrappongono la città e la natura e tendenti alla ricerca di una verità che appare nascosta ai più. Tramite una analisi dell'uomo del suo tempo e delle città in cui quest'uomo vive e crea il suo futuro, Rebora vorrebbe identificare una ragione esistenziale, vorrebbe estrapolare il significato recondito dell'esistenza; ma la sua indagine e le sue deduzioni sono spesso mortificate dall'assenza di ideali che predominava (e predomina ancor più oggi) nella società primonovecentesca, e ciò era più che mai palese in città come Milano, dove stava avvenendo un mutamento drastico delle abitudini e dei comportamenti umani. Tornando però alla poesia di cui sopra, si notano facilmente alcuni tratti leopardiani. È marzo e il poeta si accorge che la terra sta iniziando a cambiare: l'aria diviene più tiepida, il sole scalda di più ed il vento porta nuovi profumi invitanti. La gente è influenzata e incoraggiata all'allegria dalla mutata situazione climatica e così capita più facilmente di sentire qualcuno cantare o ridere, magari mentre sta lavorando e si sente invogliato a fare progetti per il futuro. Questo non vale per il poeta, che si rivolge alla primavera quasi fosse un essere reale, chiedendogli il motivo delle sue "avance" verso chi è estraneo alla insorgente, rinnovatrice vitalità e preferisce rimanere solo e in disparte, trascorrendo così l'intera sua giovinezza.

giovedì 8 marzo 2012

Una poesia per Miss Cavell

Edith Cavell nacque in Inghilterra nel 1865 e già a vent'anni realizzò il sogno della sua vita: diventare infermiera. Ben presto si trasferì a Bruxelles e lì ottenne la direzione di una farmacia del Berkeandel Institute. Col passare degli anni si dimostrò una donna molto professionale, particolarmente religiosa ed eccezionalmente severa con sé stessa e con gli altri. Quando nel 1914 scoppiò la 1° Guerra Mondiale, nel giro di poco tempo il Belgio fu invaso dalle truppe germaniche; Miss Cavell decise allora di entrare nella Croce Rossa internazionale mentre il Berkeandel Institute divenne un vero e proprio ospedale di guerra dove si curavano i feriti di qualsiasi nazionalità. La Cavell fu nominata capo sala dell'ospedale e non esitò quando gli fu chiesto di aiutare alcuni soldati inglesi catturati e stazionanti nell'ospedale a fuggire; così circa 200 soldati, grazie a lei, riuscirono a rifugiarsi in Olanda. Ma i tedeschi ben presto scoprirono il fatto e considerarono Miss Cavell una delle maggiori responsabili della fuga di quei soldati nemici; per questo motivo fu arrestata e subì un lungo periodo di detenzione durante il quale i tedeschi la sottoposero a numerosi e sfiancanti interrogatori, fino al momento in cui dichiararono che la crocerossina aveva confessato la sua colpa, in realtà Miss Cavell aveva soltanto affermato di essersi comportata secondo coscienza. La donna fu condannata a morte dalla Corte marziale e, malgrado i ripetuti sforzi del governo inglese per salvarla, il giorno 12 ottobre del 1915 fu fucilata. L'uccisione di Miss Cavell ebbe un'eco enorme in tutta Europa: articoli di giornali, foto, disegni, cartoline, poesie e libri interi si diffusero a macchia d'olio e la Cavell diventò famosissima soprattutto per l'ingiusta condanna a morte che aveva subito pur avendo svolto il suo lavoro in modo altamente professionale, curando tutti i soldati (amici o nemici) che erano stati ricoverati nel suo ospedale. Inoltre la sua alta statura intellettuale, il suo spirito di sacrificio e il suo estremo eroismo divennero quasi leggendari. Anche in Italia la notizia si sparse e furono molti i giornalisti così come gli intellettuali in genere che si occuparono di Miss Cavell, uno di questi fu il poeta Corrado Govoni che, sulla rivista "La Diana" pubblicò una poesia dedicata alla crocerossina, il cui testo riporto qui sotto.
 


LA FUCILAZIONE DI MISS CAVELL

Lo scrocco secco dei fucili
suonò di contro al muro unto di sole
seguito dalla scarica vadente.
S'allontanarono battendo i piedi.
Più non c'era sull'erba così verde
che un mucchietto di cenci
spruzzolato di sangue.
Ma più buona e più pura, oh quanto!
eri tu, o terra, con intorno
come un odore nuovo di viole;
ma nell'infame giorno
più bello e santo
tu eri, o sole.

(Da "La Diana", novembre/dicembre 1916)

mercoledì 7 marzo 2012

[Sole di primavera, io non sapevo]


Sole di primavera, io non sapevo
che sì bello tu fossi e grande e nuovo,
né tal dolcezza se le mani muovo
nel tuo lume dorato e di te bevo.

Veder cose, udir voci è tal sollievo
che di chiudere ancor gli occhi mi provo
per il piacer di riaprirli; e trovo
la perduta mia voce e un grido levo.

E anche gli alberi, i monti, l'erbe... Un volto
di meraviglia oggi la terra, fisso
nella celeste fiamma onde si pasce.

E anch'io... Guardo il sol giovane che nasce;
guardo fin alla cecità l'abisso
donde egli sorge, il rombo d'oro ascolto.
 

Questo sonetto è del poeta ticinese Francesco Chiesa (1871-1973), oggi ormai dimenticato, ma che fu invece molto apprezzato agli inizi del Novecento, così come altri poeti etichettati poi come tradizionalisti o (ancor peggio) passatisti: Giovanni Bertacchi, Giovanni Cena, Francesco Gaeta, Ada Negri Francesco Pastonchi ecc.
Appartiene alla raccolta "L'artefice malcontento" (1950), una sorta di antologia curata dallo Chiesa e che ripercorre gran parte del percorso poetico del poeta svizzero: da "I viali d'oro" del 1911, fino ai "Versi inediti" mai pubblicati in precedenza. "Sole di primavera, io non sapevo" fu pubblicato per la prima volta nel volume "La stellata sera" (1933) e possiede tutte le peculiarità della poesia di Francesco Chiesa, spessissimo attratto dai paesaggi naturali e dalle emozioni che nascono dalla visione di questi. Qui c'è la descrizione di una meraviglia inaspettata, provata dal poeta nell'osservare il sole primaverile e l'effetto dei suoi raggi sul paesaggio che lo circonda: emerge uno stupore nuovo, come se chi osservi lo spettacolo naturale rappresentato dal ritorno della primavera e di conseguenza la rinascita della vita dopo il gelo invernale (il cui artefice principale è proprio il sole) lo faccia con gli occhi di un bambino, rimanendo sorpreso e spiazzato da tale meravigliosa visione. È una poesia che racconta sentimenti semplici ed ha una struttura tradizionale: quella del classico sonetto; il tutto avveniva in anni in cui la poesia italiana stava vivendo un periodo di profondo rinnovamento, iniziato già da qualche decennio col futurismo e proseguito con l'ermetismo: proprio quest'ultimo movimento dettava legge nel 1933, l'anno in cui uscì la raccolta citata di Francesco Chiesa, assai distante dalla poetica di Quasimodo e di Montale.

martedì 6 marzo 2012

Che dice la pioggerellina di marzo?



Che dice la pioggerellina
Di marzo, che picchia argentina
Sui tegoli vecchi
Del tetto, sui bruscoli secchi
Dell’orto, sul fico e sul moro
Ornati di gèmmule d’oro?

- Passata è l’uggiosa invernata,
Passata, passata!
Di fuor dalla nuvola nera,
Di fuor dalla nuvola bigia
Che in cielo si pigia,
Domani uscira’ Primavera
Guernita di gemme e di gale,
Di lucido sole,
Di fresche viole,
Di primule rosse, di battiti d’ale,
Di nidi,
Di gridi,
Di rondini, ed anche
Di stelle di mandorlo, bianche...

Ciò dice la pioggerellina
Di marzo, che picchia argentina
Sui tegoli vecchi
Del tetto, sui bruscoli secchi
Dell’orto, sul fico e sul moro
Ornati di gèmmule d’oro.

Ciò canta, ciò dice:
e il cuor che l’ascolta è felice.
 


È la poesia più famosa di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938) imparata a memoria sui banchi di scuola da molte generazioni del passato. Consiste in una sorta di filastrocca che in parte s'ispira ad un'altra celebre poesia: "La pioggia nel pineto" di Gabriele D'Annunzio. In entrambe le composizioni poetiche la pioggia diviene un evento desiderato, sicuramente positivo; ma nei versi del D'Annunzio la precipitazione arriva in estate, dopo un lungo periodo di siccità, mentre in quelli del Novaro essa assume il ruolo di messaggera ed annuncia l'arrivo della primavera. "Che dice la pioggerellina di marzo?" fa parte della raccolta "Il cestello" (1910), dove si trovano poesie dedicate ai più piccoli, tra le quali alcune divenute piuttosto note perché inserite in molte antologie scolastiche di molti anni fa.
Passando all'analisi del testo, e volendo fornire alcune spiegazioni e chiarimenti, è bene sapere che i bruscoli del verso 4 stanno ad indicare i fuscelli stecchiti che, alla fine dell'inverno, ricoprono gli orti ormai aridi; le gèmmule del verso 6 sono le gemme terminali presenti sul fusto di un albero. Le gale del verso 13 sono gli ornamenti, ovvero gli elementi sfarzosi e festosi che contornano i rami degli alberi in primavera; le stelle di mandorlo del verso 20 sono i fiori che sbocciano sui rami di questo albero da frutto in anticipo rispetto alla stagione primaverile.
 

 

lunedì 5 marzo 2012

L'anima nella poesia italiana decadente e simbolista

Per l'anima è senz'altro da tener presente ciò che dichiarò il filosofo greco Platone, il quale la definì simbolo di purezza e di spiritualità. Nella poesia simbolista si nota spesso una specie di colloquio tra il poeta e la sua anima che diviene quindi un interlocutore muto, un altro sè stesso. A sua volta l'anima viene rappresentata anche da entità materiali (basiliche, muri, acque), animali (farfalle) o da immagini visibili in altre forme d'arte, a tal proposito forse è inutile rammentare che nel romanzo "Il ritratto di Dorian Gray" di Oscar Wilde, una tela evidenziava l'anima "spaventosa" del protagonista. Infine mi pare il caso di ricordare che il concetto di anima è fondamentale nella religione cristiana e che in questo caso rappresenta la parte divina dell'essere umano.
 


Poesie sull'argomento
Alfredo Catapano: "Anima" in "Dai Canti" (1929).
Giovanni Cena: "Nox" in "In umbra" (1899).
Girolamo Comi: "L'anima esilia, e sopra il rogo esterno" in "Lampadario" (1912).
Sergio Corazzini: "Invito" in "L'amaro calice" (1905).
Sergio Corazzini: "L'anima" in "Le aureole" (1905).
Auro D'Alba: "Pausa" in "Baionette" (1915).
Italo Dalmatico: "Le notti, allor che il lume de le stelle" in "Juvenilia" (1903).
Gabriele D'Annunzio: "Esortazione" in "Poema paradisiaco" (1893).
Guglielmo Felice Damiani: "L'abisso" e "Invito" in "Lira spezzata" (1912).
Adolfo De Bosis: "Poi che solinga l'anima..." e "Anima errante" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Luigi Donati: "L'Anima" in "Le ballate d'amore e di dolore" (1897).
Luisa Giaconi: "L'anima e il sogno" in «L'Idea Liberale», giugno 1895.
Luisa Giaconi: "L'offerta" e "Aneliti" in "Tebaide" (1912).
Alessandro Giribaldi: "L'anima" in "Domenica Letteraria", luglio 1897.
Domenico Gnoli: "La basilica" in "Fra terra e astri" (1903).
Corrado Govoni: "Passeggiata dell'anima convalescente", "Anime sotto vetro" e "Le anime" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Anima" in "Poesie elettriche" (1911).
Arturo Graf: "Mare interno" e "Pittura interiore" in "Medusa" (1990).
Giorgio Lais: "Canto autunnale" in "Gens Nova", XXIX, 1905.
Giuseppe Lipparini: "Carmen Sylva" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Enzo Marcellusi: "La mia anima è un vecchio muro" in "I canti violetti" (1912).
Marino Marin: "Come l'oceano l'anima..." in "Sonetti secolari" (1896).
Fausto Maria Martini: "Il rosario dell'anima" in "Panem nostrum" (1907).
Marino Moretti: "Dove sei?" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Arturo Onofri: "Dagli scoscendimenti dei tuoi cupi" in "Aprirsi fiore" (1935).
Francesco Pastonchi: "Le tre sorelle" in "Belfonte" (1903).
Guido Pereyra: "Ci sono in fondo all'anima mia degli esseri morti" in "Il Libro del Collare" (1920).
Romolo Quaglino: "Le due anime" in "Dialoghi d'Esteta" (1899).
Raffaele Salustri: "S. Paolo" in "Poesie" (1891).
Emanuele Sella: "Fuor della storia" in "Monteluce" (1909).
Alberto Tarchiani: "Amen" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Federigo Tozzi: "Allegoria" in "La zampogna verde" (1911).
Alfredo Tusti: "Invocazione" in "Capitan Fracassa", settembre 1903.
Alessandro Varaldo: "Anima senti. Ne la dubia aurora" in "Marine liguri" (1898).
Mario Zarlatti: "La Vittoria" in "La Gioventù Lucana", marzo 1904.
Remigio Zena: "Non toccarmi: sono Anima..." in "Le Pellegrine" (1894).
 

 
Testi
VI. 1
di Marino Marin

Come l'oceano, l'anima è un perenne
alternarsi di calme e di procelle,
di luce e d'ombra: i fulmini e le stelle
solcan la superficie ampia e solenne.

E, come in un oceano, erte le antenne
d'oro, passan ne l'anima le snelle
flotte de' sogni: e contro a i massi e in quelle
onde più d'un naviglio a finir venne.

Una maravigliosa isola ride
lungi: ma non vi ammaina alcuna vela:
umano occhio o pensier mai non la vide;

Invano al mar, che a' verdi lidi anela,
tendon le braccia le fallaci Armide;
il mar non reca che la sua querela.

(da "Sonetti secolari")