domenica 4 marzo 2012

De tranquillitate animi

Anch’io, come un po’ tutti gli esseri umani, ho pensato tante volte al momento del trapasso, a come sarebbe stato quello delle persone che avevo più care e, soprattutto, quale tipo di morte sarebbe toccata a me. Ho letto anche tante poesie su questo tragico argomento (mi piacquero, tra gli altri, alcuni versi di Guido Gozzano e di Cesare Pavese); quindi, in questa prosa poetica, ho provato ad immaginare quale potrebbe essere una mia, personalissima “dolce morte”. In verità, quello che ho sempre sperato e spero tutt’ora, è che, quando giungerà il fatidico momento, io possa essere del tutto incosciente e inconsapevole; ma comprendo che a pochissimi è concesso di perire senza un minimo di sofferenza; ecco, quindi, cosa m’immagino e spero possa succedere poco prima della mia dipartita, magari causata da una malattia incurabile.




Si accorse che stava provando sensazioni simili a quelle che aveva provato alcuni giorni dopo la sentenza, ma questa volta si sentiva molto meglio rispetto ad allora, malgrado le pessime condizioni di salute. Viveva uno stato di estasi mentale: non aveva più preoccupazioni di sorta, non temeva ormai più nulla (cosa si può temere infatti di più della Morte?) e sentiva che la fine della sua vita coincideva con una tranquillità mai provata, se non nel lontanissimo tempo dell'infanzia, quando non sapeva ancora bene cosa significasse esistere ed essere consapevoli della realtà delle cose. Si avviò così verso l'ultimo sentiero, e già poteva intravedere l'arrivo: un paese meraviglioso dove dominano per l'eternità: la pace, il silenzio e il non-pensiero.

[Marzo, che mette nuvole a soqquadro]

Marzo, che mette nuvole a soqquadro
e le ammontagna in alpi di broccati,
per poi disfarle in mammole sui prati,
accende all'improvviso, come un ladro,
               un'occhiata di sole,
               che abbaglia acque e viole.

Con in bocca un fil d'erba primaticcio,
Marzo è un fanciullo in ozio, a cavalcioni
sul vento che sepàra due stagioni;
e, zufolando, fa, per suo capriccio,
               con strafottenti audacie,
               il tempo che gli piace.

Stanotte, fra i suoi riccioli, spioventi
sul mio sonno a rovesci e a trilli alati,
il flauto di silenzio dei suoi fiati
vegetali svegliava azzurri e argenti
               nel mio sognarlo, e fuori
               ne son sbocciati i fiori.
 
 
La 49° poesia della raccolta "Vincere il drago!" (1928) del poeta romano Arturo Onofri, ritengo sia una delle più belle mai scritte sul mese di marzo. Un mese molto caro ad Onofri, che scrisse un altro bel componimento in versi dedicato a marzo, compreso nella raccolta "Arioso" (1921); lì il mese è descritto come un «fanciullo dal lungo sbadiglio» capriccioso e impertinente, esattamente come in questa poesia, dove Marzo fanciullo sta in ozio «a cavalcioni / sul vento che sepàra due stagioni» (l'inverno e la primavera ovviamente), insomma è dipinto come un giovane dio che ama giocare con le nuvole, col sole e con la pioggia. Possiede un flauto magico che usa per scompigliare le immagini della natura, creando visioni improvvise molto diverse tra loro ma ricche di colori e di fiori.
La poesia rientra in parte nell'ultima fase poetica di Onofri, molto vicina alla dottrina antroposofica di Rudolf Steiner, filosofo austriaco che, partendo da basi risalenti al pensiero indiano e alla teosofia, indicava l'essere umano come fulcro del divenire cosmico.
 
 
 

venerdì 2 marzo 2012

Poeti dimenticati: Alessandro Giribaldi


Piatto anteriore de "I canti del prigioniero"

Alessandro Giribaldi nacque a Porto Maurizio nel 1874 e morì a Chiavari nel 1928. Diplomatosi, s'iscrisse alla facoltà di Legge ma interruppe gli studi per seguire la carriera di ufficiale portuale, proprio come fece suo padre, e s'impiegò alla capitaneria del porto di Genova. Nel 1903 avvenne un episodio che mutò la sua vita: l'involontario omicidio che il poeta commise dopo una rissa notturna avvenuta nella Galleria Mazzini, a Genova. Dopo un periodo di detenzione fu prosciolto dall'accusa di omicidio e tornò libero. Durante gli anni dell'università conobbe i fratelli Adelchi e Pier Angelo Baratono, con quest'ultimo fondò e diresse la rivista letteraria "Endymion". Seguace del simbolismo, fu l'artefice principale della nascita di un cenacolo di poeti liguri che si provarono di attuare un rinnovamento della poesia italiana in direzione simbolista. Dopo il periodo di carcere abbandonò completamente l'attività letteraria dedicandosi eclusivamente al mestiere di ufficiale nelle capitanerie di porto di svariate località della costa ligure.

 

Opere poetiche

"Il 1° Libro dei trittici" (con Mario Malfettani e Alessandro Varaldo), Di Pietro Gibelli, Bordighera 1897.
"I canti del prigioniero e altre liriche", Emiliano degli Orfini, Genova 1940.
 


Presenze in antologie

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 125-126, 128; vol. 3, pp. 98-100, 288, 291, 294, 297).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (Tomo primo, pp. 99-103, 105-110).
 


Testi


PACE AGLI AFFLITTI

Pace agli afflitti, pace a chi dispera,
a chi piange su l'urna della vita,
a chi cercò ma non trovò l'uscita
da una selva di spetri folta e nera
né per fiumi di morte trovò un guado.

Oh pace a tutti! Non a me, che vado
errando come un folle per la via
e cerco invano un cuore che non sia
cuore d'instabil donna o cuor di fiera
sotto rustica lana o fin zendado.

(Da "I canti del prigioniero")





Odor di verde

Odor di verde –
mia infanzia perduta –
quando m'inorgoglivo
dei miei ginocchi segnati–
strappavo inutilmente
i fiori, l'erba in riva ai sentieri,
poi li buttavo –
m'ingombran le mani –

odor di boschi d'agosto – al meriggio –
quando si rompono col viso acceso
le ragnatele –
guadando i ruscelli il sasso schizza
il piede affonda
penetra il gelo fin dentro i polsi –
il sole, il sole
sul collo nudo –
la luce che imbiondisce i capelli –
odor di terra,
mia infanzia perduta.

Pasturo, agosto 1934



La poesia di Antonia Pozzi sopra riportata uscì per la prima volta nel volumetto "La giovinezza che non trova scampo", edito da Scheiwiller in Milano nel 1995. Della Pozzi, sono qui presenti sette poesie inedite che successivamente sono confluite nel volume che raccoglie l'intero corpus poetico della scrittrice lombarda, intitolato "Parole" ed edito dalla Garzanti. In "Odor di verde" si nota, come s'intuisce già nel titolo, una trascrizione delle sensazioni olfattive provate dalla poetessa in un giorno estivo e che la riportano a vivere l'infanzia perduta, ritrovando, oltre agli odori di allora, anche le immagini care dei luoghi dove aveva vissuto: paesaggi montani incontaminati e di una bellezza rara che si possono osservare nella stagione estiva a Pasturo, in provincia di Lecco. Proprio in questa località, all'interno di un piccolo camposanto, c'è la tomba di Antonia Pozzi.

giovedì 1 marzo 2012

Antologie: "Poeti del riflusso"

"Poeti del riflusso" è il titolo di un'antologia poetica curata da Rina Gagliardi e pubblicata da Savelli in Roma nel 1979. Nel contesto dell'opera letteraria in questione, la parola "riflusso" vuole indicare l'abbandono di un impegno attivo ed una riscoperta del privato, come è spiegato nella copertina anteriore del libro. In effetti, alla fine degli anni '70 la poesia italiana stava vivendo una situazione di ripiegamento dopo una lunga fase di impegno sociale e politico, di esternazioni provocatorie, di sperimentazioni espressive, di protesta e di trasgressione. Artefici di quest'ultima fase, già incominciata negli anni '50, erano i poeti di "Officina" come Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi e Paolo Volponi; quelli che facevano parte del "Gruppo '63" e che furono identificati come i "Novissimi": Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Nanni Balestrini e altri ancora. Furono proprio alcuni dei "Novissimi" (Elio Pagliarani e Edoardo Sanguineti in primis) a mostrare i segni di un ritorno a poetiche ormai ritenute sorpassate, dove emergono i semplici sentimenti e le piccole cose quotidiane; nello stesso tempo diventava più rara la volontà di parlare in grande, di occuparsi dei problemi della società, di denunciare o comunque di impegnarsi. Da qui nasce questa antologia che raccoglie alcuni testi poetici di scrittori più o meno noti, attivi tra il secondo Ottocento e i primi quindici anni del Novecento.
Accanto ai nomi ridondanti di Carducci, Pascoli, D'Annunzio e Gozzano troviamo quelli pressochè sconosciuti di Ferdinando Fontana e di Vincenzo Riccardi di Lantosca; ma anche nomi noti per ben altre attività come quello di Filippo Turati, cofondatore del Partito Socialista Italiano.
Come ben chiarisce la curatrice dell'antologia, maggior spazio è dedicato ai poeti crepuscolari: più consoni a descrivere quello che era il momento poetico in Italia alla fine degli anni '70. Per questo all'interno del libro si possono leggere molte pagine di Gozzano, Corazzini, Moretti e Martini. E per questo l'antologia è strutturata nei seguenti, eloquenti capitoli:

I. Chi sono?
II. Dolce tristezza
III. L'amore. La donna. Il sesso
IV. Memoria e nostalgia. Idilli domestici
V. La natura. Simboli e desideri
VI. La morte
VII. Il mal d'esistere
VIII. La gran rinuncia. Il disimpegno.

Ecco infine l'elenco completo dei poeti compresi nell'antologia.


Vittoria Aganoor Pompilj, Vittorio Betteloni, Pompeo Bettini, Carlo Borghi, Giovanni Camerana, Giosuè Carducci, Giovanni Cena, Contessa Lara, Sergio Corazzini, Gabriele D'Annunzio, Edmondo De Amicis, Ferdinando Fontana, Giulio Gianelli, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Arturo Graf, Fausto Maria Martini, Marino Moretti, Enrico Nencioni, Alfredo Oriani, Nino Oxilia, Aldo Palazzeschi, Enrico Panzacchi, Giovanni Pascoli, Emilio Praga, Vincenzo Riccardi di Lantosca, Lorenzo Stecchetti, Iginio Ugo Tarchetti, Filippo Turati, Diego Valeri, Carlo Vallini, Remigio Zena.

mercoledì 29 febbraio 2012

Ò visto

I

Ò visto la folla per le vie,
la folla passare gaia.
Ma più gaia di tutti
era una bimba
che aveva trovato il modo
di comprarsi una bambola...
 
 
II

Ò visto la folla peregrinare
davanti al santuario:
c'erano gli storpi, i paralitici,
gli etici, i ciechi:
tutti erano tristi,
ma la cosa più triste
era il volto di un bimbo
che non poteva comprare un fischietto che gli piaceva
e che stava sul banco della fiera
che c'è sempre vicino ai santuari.
Tutte le altre tristezze vicino alla sua
parevano diminuite...
 
 
III

Ò visto le monache passare tra i letti
dell'ospedale,
passare piane leggere
con un ticchettìo di rosari
sulle gonne grossolane;
e avevano gli occhi buoni,
gli occhi sommessi e calmi,
e io mi sono ricordato di Dog,
del mio povero cane,
che mi guardava con occhi simili
quando io ero malato...



 
"Ò visto" fa parte della raccolta "Gli orti", poesie di Nino Oxilia (1889-1917) pubblicate postume nel 1918; vi sono comprese le più note liriche del poeta torinese che aveva fatto uscire nel 1909 un altro libro di versi: "Canti brevi"  decisamente poco conosciuto e per nulla considerato. La poesia in questione si differenzia abbastanza dalle altre della medesima raccolta, dove spesso si notano delle caratteristiche in parte lontane dal crepuscolarismo, e molto più consone col futurismo: movimento artistico che andava diffondendosi proprio nel periodo in cui Oxilia abbozzava i versi che sarebbero confluiti ne "Gli Orti" e che forse attrasse parzialmente il poeta. "Ò visto" è invece una poesia più che mai crepuscolare, dove domina un'aura di tristezza palpabile e dove le immagini entrano senza mezzi termini in quel repertorio della poesia crepuscolare che comprendeva luoghi religiosi, suore, poveri animali, bimbi tristi ed altro ancora. Fa eccezione però la prima parte della poesia di Oxilia, dove si parla di una "folla gaia" e una "bambina felice", in netto contrasto con i poveri "tristi" che nella seconda parte affollano l'entrata del santuario; così come col bimbo che, al contrario della bambina, non è riuscito a comprarsi il giocattolo che desiderava. L'ultima parte è dedicata alla bontà ed alla malattia: protagoniste, oltre che simboli, sono le suore dell'ospedale e il cane (morto) del poeta.


martedì 28 febbraio 2012

Da "Alla ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust

Trovo molto ragionevole la credenza celtica che le anime di quelli che abbiamo perduto siano prigioniere in qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, in cui ci troviamo a passare vicino all'albero, a entrare in possesso dell'oggetto che le tiene prigioniere. Allora sobbalzano, ci chiamano, e appena le abbiamo riconosciute, l'incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi.
È così per il nostro passato. È invano che cerchiamo di rievocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono inutili. È nascosto al di fuori del suo campo e della sua portata, in qualche oggetto materiale (nella sensazione che un oggetto materiale ci potrebbe dare) che non sospettiamo. Quell'oggetto, dipende dal caso che lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo affatto.

(Marcel Proust: "Alla ricerca del tempo perduto - Dalla parte di Swann", F.lli Melita Editori, La Spezia 1988, p. 49)