domenica 29 dicembre 2013

Due poesie di Giovanni Prati sull'inverno

UN GIORNO D'INVERNO

Sempre sul farsi della tacit'ora
Crepuscolar, m'invade una tranquilla
Malinconia, che dolcemente irrora
Questi occhi del dolor che da lei stilla.

Guardo il foco morente; e m'innamora
Tenervi intenta e fisa la pupilla;
Insìn che appena qualche brace ancora
Tra la commossa cenere scintilla.

Il crepitar di quella ultima vita,
L'ombra addensata e la cadente neve
Di più cupa tristezza il cor mi serra.

E prorompo dall'anima atterrita:
Mio Dio, che sogno è questo viver breve!
Mio Dio, che solitudine è la terra!





INVERNO

Nuda gli alberi il vento 
di loro ultime foglie; 
sul focolar s'accoglie 
con un tristo lamento 
il can di casa; e l'ava, al suo pennecchio, 
ricorda il tempo vecchio. 

Venuto è il verno. Addio, 
gaie corse tra i fiori! 
addio, de' volatori 
diverso pigolio, 
alla sera e al mattin, sotto le fronde 
o su per l'ardue gronde. 

Giove, al divin concilio, 
sente il rovaio anch'esso; 
e, tolti dal cipresso 
i libri di Virgilio, 
scalda le mani, a castigar la bruma, 
sul grande Ilio che fuma. 

Qua, qua la mia poltrona,
qua la mia rossa vesta:
un buon berretto in testa
val più d'una corona.
Accendete i sarmenti; e col falerno
diamo la baia al verno.



Le due poesie sopra riportate sono di Giovanni Prati (Lomaso 1814 - Roma 1884), poeta italiano che rappresentò, insieme ad Aleardo Aleardi, uno dei momenti più alti del secondo romanticismo. Entrambe le composizioni appartengono all'antologia "Poesie varie": opera facente parte della collana "Scrittori d'Italia" che consta di due volumi curati da un altro poeta: Olindo Malagodi, e fu pubblicata nel 1916 presso l'editore Laterza. Per la precisione, la prima poesia fa parte del primo volume (p. 144) ed era già uscita in "Memorie e lacrime"; la seconda invece appartiene al volume secondo (pp. 308-309) e fu pubblicata in precedenza nel volume "Iside". Entrambe parlano della stagione invernale in maniera malinconica e, più raramente, ironica.


venerdì 27 dicembre 2013

Il capodanno in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ecco dieci poesie italiane del '900 che hanno come tema la festa di capodanno. Come si noterà leggendole, molte di esse non sono affatto gioiose, e mostrano a volte un sentimento di profonda malinconia, a volte una viva sofferenza: sintomi di chi vive l'atmosfera festosa in modo travagliato ed è incapace di partecipare all'euforia collettiva; ma anche di chi ha da poco subito delle perdite affettive molto importanti e soffre maggiormente del clima di allegria che si respira nel capodanno. Fa eccezione la poesia di Fausto Salvatori, che vive la festività solo e soltanto in funzione della sua passione amorosa nei confronti di una donna, raffigurata dal poeta in modo oltremodo gradevole e affascinante. C'è poi la filastrocca di Gianni Rodari, scritta per il pubblico infantile, che elenca, scherzosamente, una serie di desideri impossibili da realizzarsi. Infine la prosa poetica di Arturo Onofri, tutta tesa alla descrizione dell'ambiente in cui si è da poco svolta la festa.




ROSA DELL'ANNO
di Sibilla Aleramo (1876-1960)

Arrivai una volta, 
che un anno finiva,
in un paese di mare,
era sera era freddo
io nessuno conoscevo,
saliva alla stanza
gelida e vasta
suono di danza
e, di più lontano,
l'ansito del mare.
Così m'addormii, né più ricordo
se in sogno piansi.
Una rosa ricordo
che il domani mi comprai,
nella stanza portai
per me sola il giorno
che l'anno incominciava,
bella e bianca fiorita
per me nel mattino del gelo,
e il mare che si lamentava.

Ancora in una sera
che l'anno finisce,
vasta è la stanza
ma c'è fuoco ed è mia,
lungi è il mare,
lungi chi vorrei con me, e tace,
sono sola come quella
che nella sera lontana
sì freddo aveva,
udiva il lamento del mare,
ancor non conosceva
l'amore d'oggi che tace.
Sono sola né piango,
se non forse in cuore,
c'è fuoco nella stanza,
fuori grida salve la città
grida speranza
nella notte dell'anno,
e domani, se non io,
qualcuno una rosa si comprerà.

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2004)





BUON ANNO
di Luigi Crociato (1870-1935)

Buon anno a voi, longanimi
fantasmi dei cipressi,
che l'acquivento tribola
lungo il voto stradale in camposanto!
Oh, chi volete mai ch'oggi vi appressi?
Non vuol nessuno malaugurio e pianto.
Buon anno, a voi, fuggevoli
sembianze addolorate;
oggi qua siete le uniche,
perché le altre dai propri son tornate!
Uniche voi che tra le croci altrui
ite raminghe, come
cercando un sasso, una preghiera, un nome
che non aveste mai.
Ah buon anno, buon anno, son colui
che vi ricorda e piange ai vostri guai!
Ah, buon anno, buon anno, melanconica
bimba, che vai pel ghiado,
e ti tessi una piccola
ghirlanda di ghiaccioli, a tuo malgrado
senza colori e fragili!
Vien, tesseremo insieme...
Ah, tu... tu mia piccina
che invece d'una chicca, ne l'estreme
ore sì lunghe mi pregavi un sorso
d'acqua al tuo labbro, e invece della bambola
la convulsa manina
cercava la mia mano, il mio soccorso...
Non accorarti, sai, se ancor da l'arida
tua fossetta, il mio passo
riconoscendo, invan chiamavi a dirmi:
ti lascio le mie gioie, i miei balocchi,
e dammi solo un sasso...
Uno di poco prezzo, che mi tocchi
quando tu il tocchi e vieni a benedirmi!
Sai, per quel sasso comperai dei farmachi,
del pane de le vesti
pei tuoi fratelli... E i fiori?
Oh! per i fior che pure non avesti
ti piovver le mie lagrime
coi versi miei che esalano dolori.
Buon anno a voi, buon anno a voi, longanimi
cipressi tanto soli...
Oh, bimba, l'acquivento...! Questa piccola
corona di ghiaccioli...
Ah, me la lasci?... Dove sei?... Maria!...

(Da "Poeti italiani d'oltre i confini - Canti raccolti da Giuseppe Picciòla", Sansoni, Firenze 1914)





CAPODANNO A MILANO
di Luciano Erba (1922-2010)

Si credeva a Milano che a vedere
per primo un uomo sulla soglia di casa
andando a messa il primo di gennaio
fosse segno di prospero futuro.

Erano figure nere di pastrani
incerte nella nebbia del mattino
sciarpe bianche, cappelli, flosci e duri
rintocchi di bastone, passi lontani.

Or dove siete, uomini augurali?
L'onda lunga del vostro presagio
si frange ancora alla riva degli anni?

Dentro una nebbia tra noi sempre più fitta
mi sembra talvolta intravedere
un volo di profetici mantelli.

(Da "Negli spazi intermedi", All'Insegna del Pesce d'Oro", Milano 1998)





PER L'ULTIMO DELL'ANNO 1975
AD ANDREA ZANZOTTO
di Franco Fortini (1917-1994)

Come nel buio si ritrae lento,
Andrea, questo anno già da sé diviso.
Ora nel vischio del suo fiele intriso
starà così per sempre dunque spento.

Ma quel che in noi di anno in anno è deriso
o incompiuto e deforme non lamento:
se uno è vinto e un altro è stato ucciso,
uno ha durato contro lo sgomento.

Qui stiamo a udire la sentenza. E non
ci sarà, lo sappiamo, una sentenza.
A uno a uno siamo in noi giù volti.

Quanto sei bella, giglio di Saron,
Gerusalemme che ci avrai raccolti.
Quanto lucente la tua inesistenza.

(Da "Versi scelti 1939-1989", Einaudi, Torino 1990)





ANNO NUOVO
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Tra risa, grida e coppe di spumante
L'anno nuovo ha schiacciato
L'antico. Sparsi restano
Lungo le strade i cocci della festa.
E l'ombra è scesa d'un altro grado sul tuo quadrante.

(Da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999)





CAPODANNO
di Arturo Onofri (1885-1928)

   O timidi arrivi del celeste, sul far della sera, fra le sfumanti nuvole e gli strappi sui tetti cupi!
   Un fremito come d'alba, un arpeggio sfiorato di risvegli, anima gli scialbi abbandoni di cose ed uomini sonnolenti, in questo ammantato crepuscolo di capodanno.
   Alla tavola non sparecchiata, due seggiole puntigliose si voltano ancora le spalle. Sulla tovaglia avvizzita, spicchi di cristallerie stanche e d'argenti soffrono in silenzio: gialli e rossi di bucce e di fiori spenti, sbadigli oblunghi di tazze e coppe sbevute.
   Ma in fondo alla sera, nell'azzurro diaccio dell'aria, vacilla solo il brillante d'una stella.

(Da "Orchestrine. Arioso", Neri Pozza, Venezia 1959)





CAPODANNO
di Gianni Rodari (1920-1980)

Filastrocca di Capodanno
fammi gli auguri per tutto l’anno:

voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile,

voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera,

voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco,

che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.

Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

(Da "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960)





PRIMO D'ANNO...
di Fausto Salvatori (1870-1929)

Primo d'anno. C'è tanto sole in cielo.
Per via Sistina c'è una fioritura 
di viole, e tu porti alla cintura
un fascio di corolle, e qualche stelo

fra le tue dita. Vieni senza velo
come d'Aprile, e rechi l'aria pura
del Pincio e il lume d'oro fra le mura
ospiti, e un bacio nel respiro anelo.

Sulle tue labbra l'anno si rinnova:
è l'antico, è diverso. Ne' tuoi baci
i dì sereni l'anima ritrova.

L'ora alterna dolci ire, dolci paci,
malinconie di vesperi cui giova
il cuore tuo che parla anche se taci.

(Da "In ombra d'amore", Optima, Roma 1929)





PRIMO GENNAIO
di Toti Scialoja (1914-1998)

Esplosioni lontane ancora per applaudire l'anno ma è l'alba
a mezzanotte fu inferno nella festa delle esplosioni
i cubetti di ghiaccio galleggiano dentro il tuo bicchiere
il bicchiere di ghiaccio galleggia nel mare dell'orrore
nel mare dell'orrore si discioglie il bicchiere di ghiaccio
nel mare di ghiaccio affonda per gradi ogni desiderio
quel mare così trabocca nel bicchiere di capodanno.

(Da "Poesie 1961-1998", Garzanti, Milano 2002)





FINE D'ANNO
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Dietro il tuo profilo infermo
scintillano gli alberi cari
ai nostri occhi. Il sole
dell'anno nuovo scende sbieco
dalle mura. Non possiamo
fargli festa.

(Da "Il passero e il lebbroso", Mondadori, Milano 1970)

martedì 24 dicembre 2013

Da "Vigilia" di Piero Chiara

24 dicembre 1950

È la vigilia di Natale. Occorre dire di più per dare l'atmosfera di questo giorno? Da stamattina la gente si mescola per le vie: è come un fiume d'olio che entra ed esce dai negozi. Tutti guardano, tentennano, comperano. Hanno appena il tempo per salutarsi, per scambiarsi gli auguri. Vecchi conoscenti s'incontrano dopo anni, amici di circostanza si scappellano, si complimentano. Agli auguri di Natale tutti aggiungono sempre un «anche alla famiglia». È una festa di famiglia. La gente se ne strabatte della ricorrenza religiosa, ma intanto le famiglie si stringono insieme per un giorno. È il bisogno d'amore a fare il Natale. Chi pensa alla nascita, passione e morte di Gesù Cristo? Questa è una festa e non una commemorazione. Stasera, domani e dopo, fino all'Epifania, si mangia, si sta in casa, si è buoni quanto è possibile.
Ognuno stringe a sé un pacchetto con un regalo da fare. Ma in verità tutti stringono a sé il loro egoismo. È la paura di essere soli che avvicina gli uomini. I bambini sperimentano per la prima volta la gioia di possedere qualche cosa: il Natale è per loro un giorno di regali.

(Da "Vigilia" di Piero Chiara)

lunedì 23 dicembre 2013

Da "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Nelle strade vi era già un po' di movimento: qualche carro con cumuli d'immondizia alti quattro volte l'asinello grigio che li trascinava. Un lungo barroccio scoperto portava accatastati i buoi uccisi poco prima al macello, già fatti a quarti e che esibivano i loro meccanismi più intimi con l'impudicizia della morte. A intervalli una qualche goccia rossa e densa cadeva sul selciato.
Da una viuzza traversa intravide la parte orientale del cielo, al di sopra del mare. Venere stava lì, avvolta nel suo turbante di vapori autunnali. Essa era sempre fedele, aspettava sempre Don Fabrizio alle sue uscite mattutine, a Donnafugata prima della caccia, adesso dopo il ballo.
Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero; lontano dai torsoli e dal sangue nella propria regione di perenne certezza?

(Da "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano 2005)

lunedì 16 dicembre 2013

Principali protagonisti della poesia italiana del XX secolo




Nella poesia italiana del del XX secolo risiedono una moltitudine di tesori della lirica nazionale; in nessun altro secolo infatti si possono trovare autori e poesie di eccezionale livello in grandissima quantità. Si potrebbe cominciare da due vati come Giovanni Pascoli (1855-1912) e Gabriele D'Annunzio (1863-1938) che vissero e pubblicarono i loro libri di versi a cavallo tra l'Ottocento ed il Novecento, possono quindi essere considerati poeti di entrambi i secoli anche se, viste le importanti innovazioni che portarono nella poesia di quei tempi, a ragion veduta dovrebbero essere trattati come capostipiti della poesia novecentesca. Sia l'uno che l'altro furono anche i principali esponenti italiani del decadentismo e, in parte, del simbolismo: correnti letterarie nate in Francia che influenzarono profondamente molti poeti italiani del '900. Sulla scia di questi due pilastri della poesia italiana si situano alcuni poeti diversi tra di loro che hanno, come comun denominatore, l'influenza che subirono dal duo appena citato; questi sono: Gian Pietro Lucini (1867-1914), Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1871-1919), Mario Novaro (1868-1944) e Carlo Michelstaedter (1887-1910). Ci sono poi i crepuscolari: gruppo, corrente o tendenza che sia, il crepuscolarismo rappresenta uno degli apici raggiunti dalla poesia italiana di tutti i tempi. Tra i poeti "maggiori" del crepuscolarismo si ricordano: Guido Gozzano (1883-1916), Sergio Corazzini (1886-1907), Marino Moretti (1885-1979) e Fausto Maria Martini (1886-1930); un discorso a parte meritano invece Corrado Govoni (1884-1965) e Aldo Palazzeschi (1885-1974), i quali furono inizialmente crepuscolari ma poi abbracciarono altre esperienze poetiche tra le quali il futurismo. Ed è proprio il futurismo la seconda corrente della poesia novecentesca passata alla storia, è anche uno tra i più innovativi movimenti artistici del XX secolo che si espresse oltre che nella poesia anche nella pittura, nella scultura ed in altre forme d'arte; per quello che concerne la poesia i suoi massimi esponenti furono: l'ideatore Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), Paolo Buzzi (1874-1956), Luciano Folgore (1888-1966), Ardengo Soffici (1879-1964) e Enrico Cavacchioli (1885-1954). Anche la rivista letteraria La Voce ebbe un ruolo fondamentale per il rinnovamento della poesia italiana, in essa pubblicarono i loro versi poeti di indubbio valore e grazie a questa rivista si diffuse il "frammentismo"; tra le personalità di maggior spicco che scrissero sulla Voce si possono citare Giovanni Papini (1881-1956), Clemente Rebora (1885-1957), Camillo Sbarbaro (1888-1967), Piero Jahier (1884-1966) e Giovanni Boine (1887-1917); in un'altra visuale vanno viste invece le opere poetiche di Dino Campana (1885-1932) e Arturo Onofri (1885-1928), due poeti fondamentali per le generazioni che seguirono e che parteciparono al clima vociano ma s'imposero soprattutto perché fautori della "poesia pura". Ma anche altri poeti pubblicarono i loro versi sulla Voce pur rivelandosi col tempo nettamente distinti e distanti rispetto alle principali tematiche dei vociani; questi poeti sono Umberto Saba (1883-1957), Vincenzo Cardarelli (1887-1959) e Giuseppe Ungaretti (1888-1970). I primi due pur nella loro originalità, molto s'ispirarono ad autori del passato, in particolare a Giacomo Leopardi e a Giovanni Pascoli; Ungaretti invece va considerato come uno dei più coraggiosi innovatori della poesia italiana, in particolare per l'uso dei "versicoli". Insieme ad Ungaretti c'è un altro poeta che giganteggia nella storia poetica del Novecento: Eugenio Montale (1896-1980); Le sue opere in versi, dense di un linguaggio "scabro ed essenziale" ma a volte anche ostico, aprirono la strada dell'ermetismo, corrente poetica nata all'inizio degli anni '30 e sviluppatasi per circa un ventennio. Come ben spiega la parola, l'ermetismo si caratterizzò per un linguaggio difficile, in certi casi incomprensibile, che privilegiava il fascino della parola ricercata. Tra gli esponenti di maggior spicco di questa importante corrente ci sono: Salvatore Quasimodo (1901-1968), Alfonso Gatto (1909-1976), Mario Luzi (1914-2005), Leonardo Sinisgalli (1908-1981), Libero De Libero (1906-1981), Alessandro Parronchi (1914-2007) e Piero Bigongiari (1914-1997). Mentre l'ermetismo dava il meglio di sé, altri poeti di valore, dalle svariate personalità, pubblicavano i loro versi. Un critico attento quale fu Luciano Anceschi li inserì nella storica antologia: Lirici nuovi (1943) assieme ad altri poeti, anche del passato, che contribuirono non poco al rinnovamento della poesia italiana. Tra costoro si ricordano: Diego Valeri (1887-1976), Angelo Barile (1888-1967), Giorgio Vigolo (1894-1983), Adriano Grande (1897-1972), Carlo Betocchi (1899-1986), Raffaele Carrieri (1905-1984), Sandro Penna (1906-1977), Attilio Bertolucci (1911-2000), Giorgio Caproni (1912-1990), Antonia Pozzi (1912-1938) e Vittorio Sereni (1913-1983). Dopo la fine della 2° guerra mondiale, esauritasi la corrente ermetica, fu il tempo della poesia impegnata che alcuni critici etichettarono come "neorealismo"; il fautore di questo ritrovato impegno fu Salvatore Quasimodo, ma cronologicamente il primo poeta rivoluzionario in tal senso fu Cesare Pavese (1908-1950); vanno poi inseriti in questo filone anche Franco Fortini (1917-1994), Umberto Bellintani (1914-1999), Pier Paolo Pasolini (1922-1975), Roberto Roversi (1923-2012) e Rocco Scotellaro (1923-1953). Fu ancora Anceschi, in una ulteriore antologia, a tracciare una "linea lombarda" della poesia italiana del dopoguerra, riferendosi ad alcuni poeti nati in Lombardia o nei dintorni che pubblicarono volumi di versi a cominciare dalla quinta decade del '900; tra costoro spiccano i nomi di Nelo Risi (1920), Luciano Erba (1922-2010) e Giorgio Orelli (1921). Questi ultimi, insieme a Andrea Zanzotto (1921-2011) e a Giovanni Giudici (1924-2011), entrano di diritto nella "quarta generazione" poetica del XX secolo, composta da scrittori in parte ancora legati ai modi dell'ermetismo, in parte innovatori. La "neoavanguardia" invece si sviluppò tra il 1956 ed il 1961, in sostanza tra la nascita della rivista il verri (diretta dall'immancabile Luciano Anceschi) e l'uscita dell'antologia I Novissimi. Questi intellettuali, che si riunirono nel cosiddetto Gruppo 63, praticarono una poesia molto sperimentale che si rifaceva parzialmente ad alcuni tentativi (come la poesia visiva) operati dalle avanguardie poetiche italiane di inizio secolo; i nomi più significativi di questo gruppo sono: Elio Pagliarani (1927-2012), Edoardo Sanguineti (1930-2010), Antonio Porta (1935-1989), Alfredo Giuliani  (1924-2007) e Nanni Balestrini (1935). Nel contempo videro la luce altre opere poetiche di indubbio valore i cui autori non possono essere incasellati in nessun gruppo o movimento; tra gli altri si citano: Giovanni Raboni (1932-2004), Alda Merini (1931-2009), Fernando Bandini (1931), Giampiero Neri (1927) e Amelia Rosselli (1930-1996). Furono ancora due antologie a evidenziare i nomi dei poeti più validi di fine Novecento, precisamente: La parola innamorata (1978), a cura di Enzo Di Mauro e Giancarlo Pontiggia, e Nuovi poeti italiani contemporanei (1996), a cura di Roberto Galaverni. Nella prima è giusto ricordare almeno Giuseppe Conte (1945), Maurizio Cucchi (1945), Milo De Angelis (1951), Valerio Magrelli (1957) e Cesare Viviani (1947); nella seconda si ricordano Antonella Anedda (1958), Ferruccio Benzoni (1949-1997), Claudio Damiani (1957), Umberto Fiori (1949), Roberto Mussapi (1952), Fabio Pusterla (1957). Altri nomi di poeti coetanei meritevoli e assenti dalle antologie menzionate sono: Roberto Carifi (1948), Patrizia Cavalli (1947), Vivian Lamarque (1946) e Nico Orengo (1944-2009).




























lunedì 9 dicembre 2013

Il dolore nella poesia italiana simbolista e decadente

Il dolore è un elemento preponderante nelle poesie dei simbolisti e dei decadenti, sia inteso come dolore fisico, sia come dolore morale. A volte è eletto a bandiera del proprio essere quasi con masochismo, oppure a trofeo da conquistare e, cristianamente, a percorso che rende migliori, che santifica; a volte appare con le sembianze di donne ricche di fascino e di mistero; a volte appare improvvisamente in forme bizzarre (ombre di cipressi, guerrieri) e rimane a lungo in compagnia dei malcapitati; a volte è rappresentato da luoghi chiusi e tetri ove il poeta è costretto a vivere isolato da tutto e da tutti; a volte vien percepito come una voce o un ululato lontano o ancora come un lungo e acuto urlo nella notte (che ricorda molto quello del famoso quadro di Munch); a volte è simboleggiato da infinite schiere di viventi che ascendono un monte sul quale si trova la morte; a volte lo si ritrova in volti pallidi e scavati... Ma sempre e comunque il dolore ha un'importanza fondamentale per questi poeti e si trova spesso al centro delle loro composizioni in versi.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Il Castigo" in "La città di Vita" (1896).
Antonio Beltramelli: "Il giardino del dolore" in "I Canti di Faunus" (1908).
Enrico Cavacchioli: "Il dolore" in "L'Incubo Velato" (1906).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Consolatrix afflictorum" in "Le consolatrici" (1905).
Sergio Corazzini: "Dolore" in "Dolcezze" (1904).
Italo Dalmatico: "Vespero" in "Juvenilia" (1903).
Guglielmo Felice Damiani: "Ecce homo" in "Lira spezzata" (1912).
Luigi Donati: "Il Pianto" in "Le ballate d'amore e di dolore" (1897).
Riccardo Forster: "Il Dolore" in "La Fiorita" (1905).
Aldo Fumagalli: "Il dolore" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio: "Le due coppe" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Giulio Gianelli: "Alla croce" in "Tutti li angioli piangeranno" (1903).
Cosimo Giorgieri Contri: "Il dolore che supera" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Corrado Govoni: "La suicida" in "Gli aborti" (1907).
Remo Mannoni: "L'eterna lotta" in «Il Trionfo d'Amore», marzo 1905.
Marino Marin: "Dolor, legge del mondo..." in "Sonetti secolari" (1896).
Pietro Mastri: "Grido nella notte" in "Lo specchio e la falce" (1907).
Mario Morasso: "L'ortica umana" in "Profezia" (1902).
Angiolo Orvieto: "Via Crucis" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Angiolo Orvieto: "Il macello" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Enrico Panzacchi: "Vox!" in "Poesie" (1908).
Giovanni Pascoli: "Notte dolorosa" in "Myricae" (1900).
Giovanni Pascoli: "Il prigioniero" in "Nuovi poemetti" (1909).
Giuseppe Piazza: "Il servo dolore" in "Le eumenidi" (1903).
Yosto Randaccio: "Ombre di convalescenza" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "I volti dolorosi" in "Il Libro dei Frammenti" (1895).
Guido Ruberti: "Dolore" in "Le fiaccole" (1905).
Domenico Tumiati: "La Dolorosa" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Diego Valeri: "Un attimo" in "Umana" (1916).
Giuseppe Vannicola: "L'errore" in "Poesia", febbraio/marzo 1906.
Remigio Zena: "Sei infermo, lo so; t'hanno ferito" in "Le Pellegrine" (1894).



Testi

I VOLTI DOLOROSI
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi

Nei volti dolorosi, su le pacate fronti
brilla quietamente effuso, un pallor d'Alba,
e ne gli occhi ristagna la visione scialba
dei paesi che sognano a l'ombra dei tramonti.

Sotto, l'occhiaie incavansi come un vecchio sentiere
cui rosero infinite pioggie silenziose;
e i labbri che un oscuro poter, come le rose
morte nei libri, strazia, parlano di chimere.

Talor la fronte sfiora una carezza d'ale: 
la morte? - E, come un breve spiraglio d'opale
che si svolge tra nuvole misteriose,gli occhi 

intravegon lo scorcio d'un paese fiorito
meravigliosamente. Trema il cuore e i ginocchi 
tremano. E il labbro esangue mormora: oh, l'infinito!

(Da "Il libro dei frammenti")

mercoledì 4 dicembre 2013

Poeti dimenticati: Mario Adobati

Per certi aspetti la storia artistica e letteraria di Mario Adobati (Bergamo, 1889 - ivi, 1919) può ricordare molto quella di Sergio Corazzini; sia per il fatto che morì precocemente (a soli trent'anni), sia perché scrisse poesie dense di sentimenti malinconici. Adobati nacque, visse e morì a Bergamo, e pubblicò soltanto un volume poetico: "I cipressi e le sorgenti", proprio lo stesso anno in cui morì. Sfogliando l'unico volumetto di Adobati ci si accorge ben presto del suo animo "crepuscolare", vi si trovano infatti immagini di disfacimento e di morte: paesaggi autunnali e piovosi; strade in cui si susseguono senza sosta convogli che portano bare; selve su cui, dal cielo torbido, cade una pioggia simile al pianto; fiumi dalle cui rive scolan rifiuti; gotiche cattedrali in piazze silenziose; città illuminate da un sole malato; sale da ballo in cui s'ode una musica blanda e malinconica e così via. Anche i personaggi delle sue poesie trasmettono le medesime sensazioni: carogne bieche che gemono nella belletta; infermi stanchi che guardano la notte; fanciulli attoniti che vedono le loro primavere sfiorire; un vecchio che sente intorno a lui la "tristizie" umana andare con un passo muto ecc. Il repertorio di oggetti e animali che spesso ritorna nei versi di Adobati è formato da cigni, pavoni, fontane, rose, ninfee, cattedrali, cimiteri, specchi... Insomma l'armamentario tanto caro ai poeti simbolisti e a quelli crepuscolari. È certo che Adobati, nella stesura dei suoi versi, ebbe ben presente la poesia di Sergio Corazzini, Corrado Govoni, Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio, oltre a quella dei simbolisti francesi e di qualche altro italiano minore; la sua bravura fu quella di rielaborare i temi di quei poeti in modo originale, palesando una schiettezza di sentimenti che lo rende vero poeta. Mi pare ingiusto infine che, sia il suo nome, sia quello di Giuliano Donati Pétteni (1894-1930) - altro poeta bergamasco che pubblicò liriche in riviste e volumi tra il 1910 ed il 1930 -, siano stati sempre e totalmente ignorati dai critici; se è vero che essi vanno considerati quali epigoni del crepuscolarismo, ciò non toglie nulla alla loro grande capacità di scrivere versi molto belli, che fa piacere leggere ancora oggi.


Opere poetiche

"I cipressi e le sorgenti", Tip. C. Conti e C., Bergamo 1919.




Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 300-301).



Testi

PASSEGGIATA NEI SOBBORGHI

L'autunno, ecco, riviene.
Scioglie le sue cascate
di mammole velate
pei cieli e le sue pene.

Godo la pace in lente
sorsate di mollezza.
La pace ha la freschezza
della pioggia recente.

A zonzo nei sobborghi.
Chi ha raso pei sentieri
l'erba? Lungo i cantieri
le cloache hanno ingorghi.

Tra pioppo e pioppo stanno
penduli a un filo ragni
enormi. Su gli stagni
veloci insetti vanno.

L'autunno impallidisce
i luoghi del mio bene.
L'autunno fa serene
le cose che intristisce.

Pissidi di devoti
assai delusi e stanchi
i lor dischetti bianchi
sperdono in cieli ignoti.

La nevicata scende
su le case e le siepi.
Appaiono presepi
tra le varie vicende.

Gotiche cattedrali
in piazze silenziose.
Già l'erba si dispose
tra i palagi e i portali.

Sul marmo dei palagi,
sul marmo delle statue
si formano le fatue
luci in tremule ambagi.

I fanciulli perversi
scagliano pietre ai nidi
delle rondini. Stridi
nell'alto son dispersi.

La pietra che giù piomba
dà un tonfo che risuona
stranamente. Rintrona
nel vacuo d'una tomba.

L'anima mia s'arretra.
Un poco intorpidita
ritorna nella vita
al tonfo della pietra.

Riprende la sua via
tralasciata da poco.
È un assai triste gioco
la sua melanconia!

Il sole a cui m'affido
come sangue s'aggruma.
Trema a pena una piuma
nella creta d'un nido.

(Da "I cipressi e le sorgenti")