domenica 29 novembre 2020

"Medusa" di Arturo Graf

 

Non considerando, per la marginalità che la caratterizza, una sua raccolta giovanile, si può benissimo affermare che Medusa sia la prima e più importante opera poetica di Arturo Graf (Atene 1848 - Torino 1913). Uscì per la prima volta nel 1880, presso l'editore Loescher di Torino; ebbe una seconda edizione l'anno dopo, e una definitiva pubblicazione nel 1890 - sempre grazie al medesimo editore - che si arricchisce di molti testi poetici e di alcuni disegni dell'artista Carlo Chessa.

A proposito di questa raccolta, che personalmente ritengo sia la migliore del Graf, ecco un frammento pertinente scritto dall'illustre critico Luigi Baldacci, all'interno dell'antologia Poeti minori dell'Ottocento:

 

[...] Si è detto che le fonti del Graf devono essere individuate nei romantici tedeschi e in Leopardi: già per questo il suo esempio doveva restare isolato nell'ambito del proprio tempo e di conseguenza mal compreso. Ma l'accusa crociana di riflessione¹ è sproporzionata alla natura del Graf, e il suo stesso leopardismo, anziché ragionato nel segno del mito o dell'incatenante sillogismo, ci appare piuttosto filtrato attraverso le esperienze del Parnasse: cioè tragicamente intuito, anziché razionalmente dimostrato, e soprattutto affidato all'evidenza di una pittura immaginifica e talora scenografica (Baudelaire, Leconte de Lisle). Così al mito si sostituisce il simbolo, secondo una variazione decadentistica di quelle che potevano anche essere remote autorizzazioni leopardiane².

 

Ciò che emerge nei versi di Medusa è, quindi, un leopardismo contaminato dall'irrazionalità e dall'istintività propri di determinate correnti letterarie come il simbolismo e il decadentismo. E proprio a proposito di queste ultime, in un altro frammento significativo di Anna Dolfi, ovvero della curatrice della più recente riedizione di Medusa pubblicata cento anni dopo la definitiva (Mucchi, Modena 1990), dopo aver dimostrato che l'acuta disperazione esistenziale del poeta è attenuata soltanto da un'intima introspezione, si mette in risalto una delle caratteristiche fondamentali dei versi di questa raccolta: l'assidua presenza dell'acqua:

 

[...] Si arricchiva così, in questa possibilità, sia pur unica di salvezza, anche il topos dell'acqua, certo acqua nera dell'ultimo viaggio sul mare, ma anche acqua bianca di lago, acqua non solo della dispersione ma dell'effettuato o sognato annegamento, quasi acqua del primo specchio cui avevano teso Ofelia e Narciso nel tentativo vano di riappropriarsi di sé. L'acqua non sarà allora solcata soltanto da imbarcazioni mortuarie (il viaggio grafiano, d'altronde, è spesso, più che una simbolizzazione della morte, un'allegoria tragica della vita sospinta da una tenace e delusa speranza a schiantarsi contro il nulla finale), da navi guidate da vecchi marinai che ripetono senza sosta il mito dell'eterno non ritorno; sarà anche l'acqua/specchio/vetro capace di riportare alle origini attraverso le immagini catottriche che enigmaticamente risvegliano il passato trasmettendone i lontani lamenti. Sia pur facendo di quel passato di nuovo un regno di morti, ridestato attimalmente alla vita nell'«acqua cheta» di antiche specchiere («Come un'acqua cheta si riflette la stanza: / Sembra ogni cosa diafana e leggera, / vision di sogno, baglior di rimembranza») e riconsegnato al nulla dopo la ritessitura momentanea degli arazzi, la ricomposizione dei colori trecenteschi delle cacce disperate, coinvolgenti anche dame e cavalieri³.

 

Medusa è composta da un totale di 163 poesie; a parte le prime due, tutte le altre sono racchiuse in tre sezioni: LIBRO PRIMO (1876-1879); LIBRO SECONDO (1880-1881); LIBRO TERZO (1882-1889). Concludo riportando tre fra le migliori poesie di questa formidabile raccolta, estratte dalla riedizione di trent'anni fa (vedi foto sotto).

 

 


 

ACQUA CHIARA...

 

Picciol lago, che in mezzo

a questa valle e a questi sassi enormi,

d’ignota vena ti raccogli e dormi

dell’alte querce e de’ grand’olmi al rezzo;

 

sul margin tuo che in giro

tutto verdeggia solitario io seggo;

la stanca fronte con la man mi reggo,

lo specchio di tue pure acque rimiro.

 

Primaticce vïole

e verde timo fan l’aria fragrante:

in te la bianca nuvoletta errante,

e dall’alto del ciel si guarda il sole.

 

Intorno a te nereggia

silenzïoso il bosco; dalla frasca

la secca foglia vagolando casca,

e lieve sulla cupa onda galleggia.

 

Tra ’l verde, in dolce rima,

un usignol la primavera canta:

passano l’ore e d’ombre il ciel s’ammanta,

splende la luna ai negri sassi in cima.

 

Acqua chiara e tranquilla,

sul tuo margine io seggo; il ciel sereno

veggo in te rispecchiarsi, e nel tuo seno

dagli occhi miei piove un’amara stilla.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 12-13)

 

 

 

 

IL VASCELLO FANTASMA

 

Io lo vidi, io lo vidi! un mar di piombo

senza voce, senz’onda: in occidente

il sol morente insanguinava il cielo,

le bige nubi lacerando a strombo.

 

Io lo vidi, io lo vidi! i cupi abissi

venia premendo, procedeva stanco,

l’enorme fianco arrotondava al sole,

pareva un mostro dell’Apocalissi.

 

Laggiù, guardate! In ogni parte sua

negro lo scafo; avviluppata e nera

una bandiera penzola da poppa,

bieca si drizza una Medusa a prua.

 

Splendon vestiti di lucenti lame

gli alberi smisurati; per le nere

cave troniere luccicano in doppia

fila i cannoni di color di rame.

 

A prora, a poppa, in cima agli alti fusti,

ai gran canapi, su, stanno ammucchiati,

stanno aggrappati i cento marinai,

estenuati, pallidi, vetusti.

 

Il capitan coi cento marinai,

scrutando il cielo, investigando il morto

pelago, un porto invan spïando, il porto

sempre invocato e non raggiunto mai.

 

Così l’alto vascel naviga ed erra,

e se talor la nebbia all’orizzonte

simula un monte, stanco ed affannato

si leva il grido: Terra, terra, terra!

 

Ma breve error gli spiriti soggioga:

si dilegua il fantasma: orrida e grave

la negra nave in suo cammin procede,

e la Speranza dietro a lei s’affoga.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 68-69)

 

 

Disegno di Carlo Chessa presente nella 3° edizione di Medusa, relativo alla poesia Il vascello fantasma

 

 

L’ABETE SOLITARIO

 

Dalla trachite eccelsa, vestito di gramaglia,

il solitario abete smisurato si scaglia

       siccome un dardo nel profondo ciel;

tutto solo dell’Alpe sulla pendente balza,

dove più furïosa la tramontana incalza,

       dove più morde nel silenzio il gel.

 

Sott’esso uno sgomento di traboccate rupi,

d’irte lacche; di baratri caliginosi e cupi,

       e un confuso di prone arbori stuol;

sopr’esso in luminoso giro l’etere immenso

e le nuvole bianche via per l’azzurro intenso

       e sfolgorante nell’azzurro il sol.

 

Lontan, nella bassura, il solitario abete

vede colli ubertosi, vede pianure liete

       di messi e d’acque, di paschi e di fior;

vede come sognando, e tra le selci ignude,

in sua triste gramaglia più rigido si chiude,

       muto, superbo, nell’alpino algor.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, p. 194)

 

 

 

NOTE

1) Il celebre filosofo Benedetto Croce non lodò mai la poesia di Graf, così come un poeta che tutto sommato non si discostava molto dal suo intento poetico: Pompeo Bettini; fu proprio quest'ultimo che, in una rivista, etichettò in maniera negativa il Graf poeta, affermando, come riportò poi anche il Croce, che in esso dominava la "riflessione", ovvero un elemento identificabile in un bel difetto soltanto se si parla di prosa.

2) Dal volume: Poeti minori dell'Ottocento, Tomo I, Ricciardi, Napoli 1958, p. 1142.

3) Dal volume: Arturo Graf, Medusa, Mucchi Editore, Modena 1990, p. XVIII.

 

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