Accompagnare una donna a far passeggiate, a teatro, a casa; doverla tentare, assalire.... Ahimè! Non son capace. Piuttosto ne faccio a meno. Rinunzio all'amore e a tutte le belle del mondo. Se venissero da sé, senza dichiarazioni, senza preparativi, senza lotte — spontaneamente, semplicemente — allora non avrei nulla in contrario. Ma questa parte di cacciatore inquieto e sudato, questo lavorìo complesso e infinito di seduzione e di conversazione, mi spaventa — e più che altro mi spaventa per le piccole noie, per i meschini imbarazzi, per le ridicole attese e finzioni, non per il resto.
Mi succede lo stesso anche in altre faccende della vita. Io sento d'avere in me, per esempio, la possibilità di scrivere qualcosa che non sarebbe una nauseabonda rifrittura di roba già detta. Vedo il mondo a modo mio, ho una personalità che non mi sembra comune; mi vengono in testa, a volte, pensieri non del tutto imbecilli. Ma indietreggio subito davanti alla tentazione di essere un uomo stampato quando intravedo la necessità di dover comprare l'inchiostro, la penna, la carta, eppoi, quel ch'è peggio, di dover inzuppare la penna in quell'inchiostro chissà quante volte e di dover ricoprire, quella carta, io, colla mia mano, di migliaia e migliaia di lettere. Non è possibile. E rimango un uomo oscuro, senza speranza di gloria.
Per le stesse ridicole ragioni ogni forma di gioia mi è impedita. Avrei abbastanza denari per viaggiare ma son fermato dall'impossibilità fisica di compulsare un orario, di andare alla stazione all'ora precisa, di scegliere un albergo, di chieder da mangiare. Non vado alle esposizioni per non dover discutere cogli amici; non entro mai in un teatro per non dover comprare il biglietto ; non frequento le biblioteche per non aver da scrivere schede. Sto in una casa fredda, scomoda, senza luce, eppure tremo all'idea di andare in un migliore appartamento, tanto mi atterrisce la visione infernale dello sgombero, della roba sui carri, delle trattative, dei nuovi accomodamenti. Per fortuna non ho dovuto fare il soldato altrimenti mi avrebbero fucilato il giorno dopo. Piuttosto che muovere una foglia o scansarmi da un posto mi lascerei cascare il mondo addosso. Neppur la vicinanza della morte mi scuote. Son l'eroe dell'apatia.
Apatia? Non credo, non mi pare. Io sono appassionato per un'infinità di cose. L'ho già detto: tutto mi attira. Ma non vorrei far nulla per andare verso ciò che mi piace; vorrei che tutto fosse attirato da me, sì da poterlo godere senza passare per la triste dogana dello sforzo.
(Da "Buffonate, Satire e Fantasie" di Giovanni Papini, Libreria della Voce, Firenze 1914, pp. 69-71)
Questo bellissimo frammento di Giovanni Papini (Firenze 1881 – ivi 1956), quando lo lessi per la prima volta, mi portò a pensare ad un personaggio di un famoso romanzo russo del XIX secolo: Oblomov (di Ivan Aleksandrovič Gončarov). Qui, come nel romanzo che ho citato, si parla di una persona incredibilmente indolente, spaventosamente pigra e totalmente apatica. L’uomo sa che sarebbe in grado di fare svariate cose importanti, e che tali cose, se le facesse, potrebbero migliorare la sua attuale vita; ma, vinto, appunto, da difetti e vizi che gli creano mille ansie, rimane nell’immobilismo più completo. Chi avrà letto Oblomov, si renderà certo conto di quante somiglianze ci siano nel personaggio di Papini, col benestante proprietario terriero che trascorre l’intera esistenza non combinando nulla, faticando perfino ad alzarsi dal letto la mattina. Ahimè, sia in questo frammento che nel romanzo russo, trovo più di una somiglianza - pur con delle differenze che non sto a precisare - col mio personale comportamento e con la mia inguaribile apatia; anche per questo mi piacciono entrambi.
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