Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
lunedì 27 agosto 2012
Da "La vita e il libro" di Giuseppe Antonio Borgese
Vi sono, fra i tre, differenze notevoli di contenuto e di stile; ma son di quelle differenze che fra una trentina d'anni dilegueranno sotto quella patina unitaria che il tempo sovrappone alle opere di un'epoca medesima, quando quest'epoca non abbia messo fuori una personalità così vigorosa da superare l'imperativo dell'ambiente. Noi, vicini, sappiamo facilmente discernere che Moretti è il più languido e delicato e Martini il più canoro ed impreciso, mentre Chiaves, come individuo, è il più forte e raccolto e quello che più consciamente adopera l'ironia. Ma i lontani vedranno più facilmente, nei tre poeti nostri e negli altri molti loro coetanei, un'identica maniera di sentire la vita e di trattar l'arte. Arcadia? scetticismo? decadenza? futurismo? novecentismo, come io stesso altra volta chiamai questo poetare sfiancato e invertebrato, senza capo né coda, cullato passivamente da un ritmo monotono e da una rima narcotica, salvo che, invaso da un'improvvisa fede nella sua missione vaticinatrice, non si metta rotolare con una valanga di epiteti amplificativi e di enumerazioni enfatiche? Sono tutte formule che implicano una condanna; e l'importante non è né esaltare né condannare, ma capire.
(Da "La vita e il libro: seconda serie con un epilogo" di Giuseppe Antonio Borgese, Fratelli Bocca Editore, Roma-Milano 1911, pp. 150-151)
domenica 26 agosto 2012
Poeti dimenticati: Ugo Fleres

Presenze in antologie
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 162-164).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 265-273).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 329-331).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 709-712).
Testi
ZITTO...
Perché sorridermi
piano pianino,
cuore? sei proprio
un birichino!
Ho tante smanie
sotto il cappello,
leggo - e dimentico,
scrivo - e cancello:
perché sorridermi
piano pianino,
cuore? sei proprio
un birichino!
Sì, tutte l'ansie,
tutte le cure -
I capelli nella poesia italiana decadente e simbolista
Poesie sull'argomento
Diego Angeli: "In un giardino di sera" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Giuseppe Casalinuovo: "Capello bianco" in "Dall'ombra" (1907).
Sergio Corazzini: "Capelli perduti" in «Marforio», marzo 1903.
Ettore Cozzani: "La chioma incantata" in "Poemetti notturni" (1920).
Guido Da Verona: "Le trecce nere" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).
Federico De Maria: "Ballata dei capelli" in "Voci" (1903).
Federico De Maria: "Capelli" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Domenico Gnoli: "La tua chioma" in "Poesie edite ed inedite" (1907).
Corrado Govoni: "Ad una dalle chiome rosse" e "La chioma" in "Poesie elettriche" (1911).
Guido Gozzano: "Il sogno cattivo" in "La via del rifugio" (1907).
Tito Marrone: "Le chiome" in «Le Parvenze», marzo 1900.
Angiolo Orvieto: "Chiome d'oro" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Romolo Quaglino: "Cadon le trecce brune su le spalle" in "I Modi. Anime e simboli" (1896).
Testi
CADON LE TRECCE BRUNE SU LE SPALLE
di Romolo Quaglino
Cadon le trecce brune su le spalle,
con un lene sussurro di velluto,
delicate com'ali di farfalle,
morbide come serico tessuto.
Cadon le trecce bionde come gialle
fiumane ardenti giù per il dirùto
di forre alpine e gemono le falle
a la roccia un sospiro ed un saluto.
Ne l'iridi d'un bel nero corvino,
ne l'occhio ove risplende lo smeraldo,
tra le labbra procaci di rubino
freme l'incanto d'un invito baldo,
come un peäna squilla un argentino
riso d'ebbrezza, lugubre e spavaldo.
(Da "I Modi. Anime e Simboli")
martedì 21 agosto 2012
"Le fiale" di Corrado Govoni

Per quanto riguarda le edizioni successive a quella del 1903, una prima riedizione de "Le fiale" è avvenuta nel 1948, a cura di Enrico Falqui per le edizioni Garzanti di Milano. Una ristampa anastatica che contiene la sezione espunta "Vas luxuriae" è poi uscita nel 1983, per le edizioni Galeati di Imola.
Olocausto
I. RELIQUIE
Ventagli giapponesi
I. Paesaggio
II. Criptomerie
III. Interno
IV. Alito di ventaglio
Senza baci
Elogio
Passero solitario
Davanti ad un ritratto
Laghi
Pasqua
Il tulipano
O nothung! nothung!
Ne la notte dei morti
Il garofano
Natale
ODORI SBIADITI
Su la tomba di Shelley
Piazza di Spagna
I.
II.
Sul Palatino
La fontana
Siringa fioca
La statua
Amore spirituale
Amore libidinoso
Le rondini
I.
II.
Villa chiusa
II. VAS LUXURIE
Magdalena
Giuditta
I.
II.
Frine
Crise
Taide
Laide
I. Desiderio
II. Alcova
III. Delirio
IV. Bacio di libidine
V. Sazietà
Cleopatra
I. Maga
II. Il mio ventre
III. La mia vulva
IV. Nel bagno
V. Spasimo
Fame di carne
I.
II.
Lucrezia Borgia
I.
II.
III.
III. FIORETTI FRANCESCANI
Chiesetta deserta
I. Mandorli in fiore
II. Abbandono
In un tempietto
I. Crepuscolo di morte
II. Gigli votivi
Tabernacolo
Sobborgo religioso
I. Delizie sconosciute
II. Armadi sacri
Sogno d'una notte d'inverno
La suora morta
San Giorgio
Nel chiostro del Laterano
I. Imagine
II. Crepuscolo nel chiostro
IV. IL PIVIALE DE L'AUTUNNO
Giardini morti
Verziere
Statue immemori
Gruppo
Le vasche
L'urna di Pane
Rassegnazione angosciosa
Allali
Serre
I cigni
Le ninfee
I paoni
Le agavi
Crepuscolo
Nel bosco
Sarcofago
Autunno
Disfatta
Giardini chiusi
I.
II.
VER TRISTE
Ai vili
Esortazione
Sole di marzo
Sul Pincio
I registri del verde
Antologie: "La poesia femminile del '900"

domenica 19 agosto 2012
Compianto per Garcia Lorca
Molto è stato scritto e detto sulla morte di Garcia Lorca, ma io voglio riportare soltanto una bellissima poesia di Raffaele Carrieri (1905-1984), scrittore che visse come un bohemien sostando, tra gli altri paesi, anche in Spagna, dove entrò in contatto con famosi poeti iberici. Questo "Compianto per Garcia Lorca" è una delle cose migliori mai scritte sulla scomparsa del grande poeta andaluso.
COMPIANTO PER GARCIA LORCA
Al muro, il poeta al muro
Dicevano i giornali,
Lorca fucilato al muro.
Per telegrafo un muro
È uguale a un altro muro.
Gli angeli non hanno pianto
Non hanno rivolto domande
Perché in paradiso è proibito.
Hanno guardato il muro
Hanno guardato il sangue
Come si guarda una rosa
Sopra un muro di calce.
Hai colto la rosa
E ti sei messo a giuocare:
Era come alla fiera di Cordova
Era come alla corrida,
Era come alla porta del sole
Il giorno di Sant’Isidoro.
Era bello vedere gli angeli
Incantati di te, Garcia.
Erano stati ragazzi a Siviglia
E ti apprezzavano.
All’improvviso furono tristi,
La rosa era più bianca
E tu più fioco.
Erano stati ragazzi a Siviglia
E sapevano che un muro
È diverso da un altro muro.
In cielo te lo sei portato
Perché ce ne fosse uno meno.
Gli altri portano cavalli,
Portano cigni e colombe:
Tu, Garcia, un muro
Un muro che non si scavalca.
Lasciate che gli angeli piangano.
( da "Souvenir caporal" di Raffaele Carrieri )
venerdì 17 agosto 2012
Poeti dimenticati: Romolo Quaglino
Opere poetiche
"I Modi. Anime e Simboli", Galli di Chiesa, Milano 1896.
"Fior' brumali", Sonzogno, Milano 1897.
"Dialoghi d'Esteta", Treves, Milano 1899.
"Cibele Madre", Sandron, Milano 1903.
"Filotette", Sandron, Milano 1905.
"I sonetti a Celia", Sandron, Milano-Palermo 1911.
"Echi ed ombre", Sandron, Milano 1920.
"Poesie", Ospedale Maggiore di Milano, Milano 1939.
Presenze in antologie
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. I, pp. 148-154; vol. II, pp. 194-202; vol. III, pp. 191-204).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (Tomo I, pp. 63-73).
Testi
FIOR D'ANIMA
Misterioso il fior de l'anima
assurto al bacio di linfa pallida,
co' petali bianchi profuma
il deserto de la coscienza.
Simili a rettili, salgono l'edere,
salgon le rose, i lilla salgono,
te, fiore de l'anima cinge
il deserto de la coscienza.
Han le tue rame verdezze tenui
e ne la coppa bianca di gloria,
risplende, mirabile fuoco,
lascivo al sole il polline d'oro.
O tu de l'anima, o tu de l'aere
coppa maliarda, come un sen giovane,
com'arco di giovani braccia
ne la selva di capelli d'oro.
(Da "Fior' brumali")
giovedì 16 agosto 2012
I canti nella poesia italiana decadente e simbolista
Passando ad una sommaria descrizione di alcune poesie, Antonino Anile in "Il canto dell'usignuolo" descrive la divina melodia del canto di questo uccello durante la notte, capace di creare una situazione incantata e estasiata che coinvolge tutti gli esseri della natura circostante.
Alfredo Catapano esterna la sua grande meraviglia nello scoprire che l'artefice di un canto meraviglioso non è altri che un uomo anziano e si chiede se il suo inno sia ispirato dalla imminente morte o dalla vita già vissuta.
Giovanni Alfredo Cesareo in un mite tramonto primaverile rimane ammaliato ascoltando un malinconico canto che sembra arrivare da un'anima vissuta in un tempo lontano. Sempre il Cesareo in un'altra poesia parla del canto di un gallo che gli impedisce di dormire e gli trasmette pensieri funebri; lo stesso canto in Govoni suscita ansie e preoccupazioni esistenziali.
Gabriele D'Annunzio racconta di un "canto solenne" ascoltato all'interno della basilica di San Pietro che "al mondo rivela un divino dolore". Pregna di un misticismo che però non ha nulla a che vedere col cristianesimo è "I cantori" di Giuseppe Lipparini.
I versi di Francesco Gaeta narrano di una terribile tempesta e del pauroso canto che ne scaturisce arcanamente.
Un'atmosfera incantata è di nuovo presente in uno dei "Notturni" di Adolfo De Bosis, dove, una volta di più, sono gli usignoli col loro canto a creare una sorta di paradiso terrestre.
Una figura femminile piena di aspetti arcani e ricca di grazia divina è la protagonista sei versi di Luisa Giaconi: "Ella", come la definisce la poetessa, intona un "antico e lento poema suo", e, mentre alcuni uomini la ascoltano in silenzio, Ella passa e si avvia verso i "suoi templi lontanissimi d'oro". Parlando poi di una poesia di Giuseppe Lipparini, anche Kate, come Ella, cammina cantando e si caratterizza per il profondo mistero della sua figura e del suo canto. È sempre una donna ad ammaliare con una melodiosa voce il poeta Cosimo Giorgieri Contri, che la ferma e le parla rimanendo poi ipnotizzato dai suoi occhi.
Giribaldi sente il canto dell'usignolo che arriva dalle sbarre della sua cella e che lo aiuta a sopprtare la disperazione causata dalla mancanza di libertà. Di nuovo un uccello, il chiurlo, cantando sommuove nella mente di Angiolo Orvieto sensazioni che gli fanno pensare ad una voce lontana in cerca, col suo straziante canto, di una speranza ormai inutile.
Arturo Graf si commuove ascoltando una voce enigmatica che, in una notte stellata, intona una famosa aria di Vincenzo Bellini: "Casta Diva"; mentre Corrado Govoni si chiede donde venga una misteriosissima canzone portata dal vento. Simile a quella del Graf è una poesia di Pompeo Bettini in cui un dolcissimo canto di donna conduce il poeta alla meditazione e alla malinconia.
Nell'ambito della poesia crepuscolare si trovano elementi contrastanti: Guelfo Civinini è sollecitato da una sconosciuta interlocutrice a cantargli qualcosa, e lui allora pensa ad una vecchia romanza dimenticata da tutti, che gli possa ricordare un passato gioioso ormai perso del tutto; Corrado Govoni consiglia ad una piccola canzonettista di smettere il suo canto, ché secondo lui suscita soltanto tristezza e malinconia; Tito Marrone canta alla donna amata una serenata triste, poiché la sua voce è malata e la sua anima è morta; infine Fausto Maria Martini durante un pomeriggio trascorso in casa sente il suono di un pianoforte che gli fa tornare in mente i momenti in cui la sua donna, ora lontana, suonava lo strumento a corda e cantava delle canzonette; a ciò pensando decide di mandargli un messaggio in cui gli chiede di ritornare per cantargli la canzonetta della sua morte.
Poesie sull'argomento
Antonino Anile: "Il canto dell'usignuolo" in "Poesie" (1921).
Pompeo Bettini: "Una dolcissima bocca" in «Cronaca moderna», febbraio 1895.
Alfredo Catapano: "Per un vecchio che canta" in "Dai Canti" (1929).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Sfuma ranciato il vespero sul mare" in "Le consolatrici" (1905).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Canto di galli" in "I canti di Pan" (1920).
Guelfo Civinini: "Una romanza dimenticata" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Guglielmo Felice Damiani: "Serenata" in "Lira spezzata" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "In San Pietro" in "Elegie romane" (1892).
Adolfo De Bosis: "Cantano rosignoli entro laureti" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "La Canzone dell'Usignuolo" in "Voci" (1903).
Marcus De Rubris: "Ó sentito più volte una canzone" in "Anima nova" (1906).
Francesco Gaeta: "La tempesta" in "Sonetti voluttuosi e altre poesie" (1906).
Diego Garoglio: "L'usignolo" e "Canto e pianoforte" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Luisa Giaconi: "Armonia" in "Tebaide" (1909).
Giulio Gianelli: "Pianto d'amore" in «Il Momento Illustrato», agosto 1906.
Cosimo Giorgieri Contri: "Marina di Versilia" in "La donna del velo" (1905).
Alessandro Giribaldi: "Ad un piccolo cantore" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Corrado Govoni "Il canto del gallo" e "Canzone al vento" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Ad una piccola canzonettista" in "Poesie elettriche" (1911).
Arturo Graf: "Casta Diva" in "Le Rime della Selva" (1906).
Marco Lessona: "Il canto delle stelle" in "Ritmi" (1902).
Giuseppe Lipparini: "Kate" e "I cantori" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Olindo Malagodi: "Un canto del mistero" in "Poesie vecchie e nuove (1890-1915)" (1928).
Tito Marrone: "Il canto delle sirene" e "Serenata nuziale" in "Cesellature" (1899).
Tito Marrone: "Una palida luce" in "Le rime del commiato" (1901).
Fausto Maria Martini: "La canzonetta" in "Panem nostrum" (1907).
Fausto Maria Martini: "Elegia del «caffè concerto»" in "Poesie provinciali" (1910).
Angiolo Orvieto: "Chiurlòdo" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Enrico Panzacchi: "Terribil sirena invernale" in "Poesie" (1908).
Giovanni Pascoli: "La Sirena" in "Myricae" (1900).
Francesco Pastonchi: "Canto di mendicante" in "I versetti" (1930).
Romolo Quaglino: "Le schiave" in "Dialoghi d'Esteta" (1899).
Fausto Salvatori, "Alita il vento ed è la prima sera" in "In ombra d'amore" (1929).
Carlo Vallini: "Regnando il mezzodì sotto la cava" in "La rinunzia" (1907).
Testi
TERRIBIL SIRENA INVERNALE
di Enrico Panzacchi
Par dentro alla neve, tra gli alberi,
la piccola casa sepolta.
Tu canti ; e non sai nella tenebra
chi fuori, pensoso, t'ascolta;
t'ascolta cantare, cantare
in mesti volubili metri.
Rosseggian riflesse nei vetri
le fiamme del tuo focolare.
Ho freddo. Nei sensi, nell'anima
mi filtra un affanno mortale.
Tu evochi le care memorie,
terribil sirena invernale!
Danno echi d'angoscia e di pianti
gli avori del tuo pianoforte;
un tetro pensiero di morte
esala ne' dolci tuoi canti.
(Da "Poesie")
mercoledì 15 agosto 2012
All lost
come chi non ha più titubanza.
Come lo fu «il povero negro»
nel Kentucky, in piena disperanza.

Questa breve poesia di Giorgio Caproni (1912-1990) fa parte della raccolta "Il conte di Kevenhuller" (1986) ed è rappresentativa del suo secondo periodo poetico contraddistinto da una frequente essenzialità e da un pessimismo che spesso si manifesta con una sentenza sarcastica. Qui ad esempio il titolo in inglese già spiega molto ("Tutto perso" in italiano) e la parola iniziale della poesia, quel "Ma", si riferisce esattamente al titolo ed evidenzia che, malgrado la perdita totale non ben definita, il poeta ha mantenuto l'allegria, allegria di chi non ha più preoccupazioni (titubanza) esattamente come il povero (negro) che non ha più nulla da temere né da sperare dalla vita.
Da "Buffonate, Satire e Fantasie" di Giovanni Papini
Accompagnare una donna a far passeggiate, a teatro, a casa; doverla tentare, assalire.... Ahimè! Non son capace. Piuttosto ne faccio a meno. Rinunzio all'amore e a tutte le belle del mondo. Se venissero da sé, senza dichiarazioni, senza preparativi, senza lotte — spontaneamente, semplicemente — allora non avrei nulla in contrario. Ma questa parte di cacciatore inquieto e sudato, questo lavorìo complesso e infinito di seduzione e di conversazione, mi spaventa — e più che altro mi spaventa per le piccole noie, per i meschini imbarazzi, per le ridicole attese e finzioni, non per il resto.
Mi succede lo stesso anche in altre faccende della vita. Io sento d'avere in me, per esempio, la possibilità di scrivere qualcosa che non sarebbe una nauseabonda rifrittura di roba già detta. Vedo il mondo a modo mio, ho una personalità che non mi sembra comune; mi vengono in testa, a volte, pensieri non del tutto imbecilli. Ma indietreggio subito davanti alla tentazione di essere un uomo stampato quando intravedo la necessità di dover comprare l'inchiostro, la penna, la carta, eppoi, quel ch'è peggio, di dover inzuppare la penna in quell'inchiostro chissà quante volte e di dover ricoprire, quella carta, io, colla mia mano, di migliaia e migliaia di lettere. Non è possibile. E rimango un uomo oscuro, senza speranza di gloria.
Per le stesse ridicole ragioni ogni forma di gioia mi è impedita. Avrei abbastanza denari per viaggiare ma son fermato dall'impossibilità fisica di compulsare un orario, di andare alla stazione all'ora precisa, di scegliere un albergo, di chieder da mangiare. Non vado alle esposizioni per non dover discutere cogli amici; non entro mai in un teatro per non dover comprare il biglietto ; non frequento le biblioteche per non aver da scrivere schede. Sto in una casa fredda, scomoda, senza luce, eppure tremo all'idea di andare in un migliore appartamento, tanto mi atterrisce la visione infernale dello sgombero, della roba sui carri, delle trattative, dei nuovi accomodamenti. Per fortuna non ho dovuto fare il soldato altrimenti mi avrebbero fucilato il giorno dopo. Piuttosto che muovere una foglia o scansarmi da un posto mi lascerei cascare il mondo addosso. Neppur la vicinanza della morte mi scuote. Son l'eroe dell'apatia.
Apatia? Non credo, non mi pare. Io sono appassionato per un'infinità di cose. L'ho già detto: tutto mi attira. Ma non vorrei far nulla per andare verso ciò che mi piace; vorrei che tutto fosse attirato da me, sì da poterlo godere senza passare per la triste dogana dello sforzo.
(Da "Buffonate, Satire e Fantasie" di Giovanni Papini, Libreria della Voce, Firenze 1914, pp. 69-71)
Questo bellissimo frammento di Giovanni Papini (Firenze 1881 – ivi 1956), quando lo lessi per la prima volta, mi portò a pensare ad un personaggio di un famoso romanzo russo del XIX secolo: Oblomov (di Ivan Aleksandrovič Gončarov). Qui, come nel romanzo che ho citato, si parla di una persona incredibilmente indolente, spaventosamente pigra e totalmente apatica. L’uomo sa che sarebbe in grado di fare svariate cose importanti, e che tali cose, se le facesse, potrebbero migliorare la sua attuale vita; ma, vinto, appunto, da difetti e vizi che gli creano mille ansie, rimane nell’immobilismo più completo. Chi avrà letto Oblomov, si renderà certo conto di quante somiglianze ci siano nel personaggio di Papini, col benestante proprietario terriero che trascorre l’intera esistenza non combinando nulla, faticando perfino ad alzarsi dal letto la mattina. Ahimè, sia in questo frammento che nel romanzo russo, trovo più di una somiglianza - pur con delle differenze che non sto a precisare - col mio personale comportamento e con la mia inguaribile apatia; anche per questo mi piacciono entrambi.
lunedì 13 agosto 2012
Poeti dimenticati: Emilio De Marchi

"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (pp. 1259-1261)."Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 289-294)
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 296-301).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp.601-604).
Testi
DOPO LA PIOGGIA
Fra i corni della Grigna apresi e pare
Una scena di mare umido il ciel:
E l'aria vaporosa
Come sul corpo di novella sposa
Cinge alla vetta rugiadosa un vel.
Scendon le nubi che trasporta il vento,
Lasciando un lento strascico regal
domenica 12 agosto 2012
Le campane nella poesia italiana decadente e simbolista
Poesie sull'argomento
Alfredo Baccelli: "La campana invisibile" in "Poesie" (1929).
Sandro Baganzani: "Campane di sera" in "Senzanome" (1924).
Ugo Betti: "Le campane" in "Il Re pensieroso" (1922).
Ettore Botteghi: "Mattutino" in "Poesie" (1902).
Paolo Buzzi: "Le campane" in "Aeroplani" (1909).
Giovanni Camerana: "È la festa doman della Madonna" in "Poesie" (1968).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Campana a sera" in "Le consolatrici" (1905).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Oscura una campana" in "I canti di Pan" (1920).
Sergio Corazzini: "Campana" in «Marforio», febbraio 1903.
Sergio Corazzini: "La campana" in "Marforio", giugno 1903.
Guglielmo Felice Damiani: "Campane" in "Lira spezzata" (1912).
Federico De Maria: "Campane" (I e II) in "Voci" (1903).
Ugo Ghiron: "Campana a stormo" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Luisa Giaconi: "Suoni di campane" in "Tebaide" (1912).
Alessandro Giribaldi: "Rintocchi" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Corrado Govoni: "O campane argentine" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni "Le campane" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "La campana" in "Medusa" (1890).
Arturo Graf: "Ultima campana" in "Le Danaidi" (1897).
Tito Marrone: "Le campane" in "Liriche" (1904).
Pietro Mastri: "Ai piedi del campanile di Giotto" in "La fronda oscillante" (1923).
Nino Oxilia: "Un tocco di campana" in "Canti brevi" (1909).
Giovanni Pascoli: "Alba festiva" in "Myricae" (1900).
Francesco Pastonchi: "Ave Maria" in "Sul limite dell'ombra" (1905).
Giulio Salvadori: "Vespere jam facto" in «Domenica letteraria», febbraio 1884.
Fausto Salvatori: "Santa Francesca Romana" in "La Terra promessa" (1907).
Alessandro Varaldo: "Non più ricordi. Tutta la riviera" in "Marine liguri" (1898).
Mario Venditti, "Dies festus" in "Il terzetto" (1911).
Mario Venditti, "La campana che ammonisce" in "Il cuore al trapezio" (1921).
Testi
AVE MARIA
di Francesco Pastonchi
Le squille dell'Ave Maria
Ondeggiano in grembo alla sera.
Sia pace a colui che desia,
Sia pace a colui che dispera!
È l'ora in cui giunge il pensiero
A plaghe nel sogno intraviste:
S'umilia dinnanzi al mistero
La gloria di mille conquiste.
È l'ora che il vinto si adagia,
Si affonda in un torpido stagno
E invoca la Morte randagia
Che venga a troncare il suo lagno.
È l'ora in cui torna in cammino
Il povero che s'è sfamato,
Guardando il fulgor vespertino
Dall'orlo di un roco fossato.
Le squille dell'Ave Maria
Si spengono in grembo alla sera...
Sia pace a colui che s'avvia
Incontro alla notte sua, nera.
(Da "Sul limite dell'ombra")
LA CAMPANA CHE AMMONISCE
di Mario Venditti
Suona la seconda volta
e suonerà poi la terza
questa campana che sferza
l'anima di chi la ascolta.
Se l'eco tale non fosse,
parrebbe un giorno d'aprile:
ha un che di primaverile
la vitalba a foglie rosse;
e il sole ha troppi diademi
perché dian perle i nostri occhi;
e innanzi ai nostri ginocchi
sembran rose i crisantemi.
Ma forse tale è la squilla
proprio per questo: diversa
sarebbe ad aria non tersa
e a vitalba non vermiglia.
(Da "Il cuore al trapezio")
mercoledì 8 agosto 2012
Poeti dimenticati: Alessandro Benedetti
Presenze in antologie
"Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento", a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999 (pp. 579-584).
Testi
IL PARCO
Amica dolce, è così triste il parco
or che l'Autunno pianse tutti i pianti,
e un po' di mare sotto i tuoi stellanti
occhi fiorì languidamente in arco.
Amica piangi: sovra il noto varco
i nostri sogni che ben sai cotanti
ingroppano le nubi galoppanti,
e nostro andare è d'ogni pena carco.
Vedi: gli alberi tendono le braccia,
contorte sì come groppo di bisce,
e via pe' cieli giostran le chimere
folli, avide del vento alla minaccia,
sorridendo agli ontani che intristisce,
un tenero desìo di Primavere.
(Dal "Giornale d'Arte", 18 giugno 1904)
martedì 7 agosto 2012
Da "Feria d'agosto" di Cesare Pavese
Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico. Ciò s’accompagna all’altro noto fatto che nessun bambino sa nulla del «paradiso infantile» a cui a suo tempo l’uomo s’accorgerà d’esser vissuto. La ragione è che negli anni mitici il bambino ha assai di meglio da fare che dare un nome al suo stato. Gli tocca vivere questo stato e conoscere il mondo. Ora, da bambini il mondo si impara a conoscerlo non - come parrebbe - con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a quel tempo la fantasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione.
Bellissimo frammento che ho tratto dal volume Feria d’agosto di Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo 1908 – Torno 1950), in cui lo scrittore piemontese descrive, in modo ineccepibile, i sentimenti, i pensieri, le emozioni e le fantasie dell’età infantile; è un modo del tutto personale d’intendere e d’interpretare questo meraviglioso periodo della vita degli esseri umani, in cui mi è riuscito facile essere d’accordo, ripensando io stesso a quella che considero di gran lunga la parte più bella della vita: la fanciullezza. Ma Feria d’agosto non si concentra soltanto su questo argomento, che viene trattato nel capitolo Del mito, del simbolo ed altro: in questo memorabile libro, pubblicato per la prima volta nel 1946, si possono leggere racconti e prose di altro genere, altrettanto interessanti; è, insomma, una delle opere in prosa più significative di Pavese: uno dei nostri miglior scrittori del Novecento.