domenica 1 novembre 2020

La bellezza femminile in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Sebbene esistano delle caratteristiche "universali" per riconosce, amare, raffigurare ed esaltare la bellezza femminea, bisogna aggiungere che tale bellezza può essere interpretata, giudicata e osservata in modi diversissimi, divenendo quindi una realtà soggettiva. Quest'ultima asserzione la si può dimostrare andando ad analizzare le tante opere della storia dell'arte, in cui la fanno da protagoniste le bellezze femminili, che, fin dalla comparsa dell'uomo sulla terra, appaiono in grandissima quantità, pur evidenziando elementi disparati e a volte contraddittori, riguardanti i canoni classici di bellezza. Abbondanza di carni o magrezza; colore chiaro o scuro della carnagione, dei cappelli e degli occhi; seni piccoli o grandi; estrema giovinezza o elevata maturità... ragazze e donne che appaiono nelle pitture, nei disegni, nelle sculture e anche nelle fotografie degli artisti, sono diversissime tra loro, e ognuno di coloro che le osservano può, a seconda del suo gusto personale, giudicarle più o meno belle. Qui però si parla di poesia, e in particolare dei poeti italiani del Novecento; anche in queste dieci liriche la bellezza viene trattata in maniere differenti: c'è chi dialoga con una bella donna, affermando che la bellezza è una sorta di dono divino; chi, fortemente attratto dal corpo, si lascia trascinare dai sensi e prefigura il rapporto sessuale; chi rimane colpito particolarmente da una parte soltanto del corpo femminile, come il volto o i capelli; chi è attratto, più che dal corpo, dalla voce femminile; chi vede nella beltà di una donna qualcosa di ultraterreno; chi infine paragona la bellezza femminile a quella dei fiori, delle stelle o di altri entusiasmanti spettacoli naturali. Insomma, ognuno tratta il tema a modo suo.

 

 

 

LA BELLEZZA FEMMINILE IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

 

BELLEZZA E BELLEZZA

di Riccardo Bacchelli (Bologna 1891 - Monza 1985)

 

Improvvisa tu chiedi, argutamente

Fuggitiva, che merito sarebbe

Nascer bella. C'è bellezza e bellezza,

E s'è sortita ad avvivar la vita,

L'animo ad animare,

Non è question di merito: è dono!

La tua benemerenza è d'esser nata

A amare e farti amare, a dare vita

All'animo ed animo alla vita.

 

(da "Versi e rime, Primo Libro, La stella del mattino", Mondadori, Milano 1971, p. 82)

 

 

 

 

LA TUA BELLEZZA

di Marcello Camilucci (Padova 1910 - Roma 2000)

 

La tua bellezza si squaderna come la rosa.

Un petalo al giorno ne bruco e salgo

più su come ladro per più vedere

nel mondo e non colgo che la tua pace.

Falso ogni altro acquisto ma la cenere

del fondo ha ancora il sapore della speranza,

ma il buio che geme ha nostalgia del tuo raggio.

 

Gorgoglia il tuo nome d'aria,

col profumo risponde e col canto, il verde

dei prati è il tuo passo fermo e sereno.

Nel cuore dell'uomo appassisce la rosa,

chi sopra vi riposa ne soffre le spine

pur se alla felicità non sfugga l'aroma

e l'amore, alla sua estate, le accolga felice.

 

Dà ai cieli il colore della nostalgia e punge

come ortica i sonni del piacere e della fatica.

La tocchi con gli occhi e nel bruciore ritrovi

la notte stellata che fu il tuo grembo,

il sole squillante che fu la tua fanfara.

E dici grazie, nel silenzio effuso,

per le parole, che non muove la voce

ma il vento remoto della Tua presenza.

 

(da "Tra il fuoco e la luce", Quaderni di «Persona», Roma 1970, p. 16)

 

 

 

 

BELLA DAI BEI CAPELLI

di Raffaele Carrieri (Taranto 1905 - Pietrasanta 1984)

 

O bella dai bei capelli

quando il tamburo tace

dagli occhi ti diparti

e la stella fuggi che s'increspa

come l'ombra del chiodo sul muro.

Io sono l'ombra il chiodo il muro

e il mesto silenzio del tamburo.

O bella dai bei capelli

quando lo specchio si appanna

per nuove lune vai e nuove terre.

 

(da "Stellacuore", Mondadori, Milano 1970, p. 93)

 

 

 

 

FEDONE A MÈLITTA

di Giuseppe Lipparini (Bologna 1877 - ivi 1951)

 

Mèlitta, tu lo sai: non cerco l'amor de le donne;

anzi nessuna, giammai, mi tenne sul ventre impudico.

 

Unica Filogìna entrò nel mio letto una notte;

ma Filogìna, si sa, è una donna e non è.

 

Pure tu sei così bella, ch'io piego in pensarti i ginocchi,

come davanti alla dea che Prassitèle scolpì.

 

No, non mi tentano i baci, le strette furenti, ed i molli

voluttuosi abbandoni, né le riposte beltà.

 

Pure verrò da l'etèra che splende fra tutte le donne

come la luce del sole sopra le stelle notturne.

 

Presso l'altar d'Afrodite attendimi, bianca ed ignuda:

fa che l'incenso bruci come nei templi sul mar.

 

Ardano mille faci; non arda, ti prego, il tuo cuore:

che se volessi baciarmi, Mèlitta!, io fuggirei.

 

Voglio restar su la soglia, mirarti così lungamente,

ridere e piangere insieme, senza sapere il perché.

 

(da "Le foglie dell'alloro", Zanichelli, Bologna 1916, p. 390)

 

 

 

 

CHI È QUESTA IMPROVVISA DEA CHE APPARE?

di Arturo Onofri (Roma 1885 - ivi 1928)

 

Chi è questa improvvisa dea che appare?

Occhi diafani stellano di luna

Sotto il manto ondeggiante delle chiome.

Da quella bocca, che sui denti abbonda

nelle labbra imbronciate, come un fiore,

la voce non la intende altri che il mare.

Perché venne fra noi come una donna?

Quel suo piccolo capo trasparisce

di mattinate, d’angioli e di giochi,

e nel girarsi addita in sua dolcezza

che le pietre traboccano di foglie,

le flore mettono ali, e mandre brute

s’appassionano d’ansie e di pensieri.

E noi, pregando che assuma una figura

di beltà, la parola in noi rinchiusa,

ne intravediamo, come un sogno, il volto

nel modello che in lei donna respira.

 

(da "Terrestrità del sole", Vallecchi, Firenze 1927, p. 22)

 

 

 

 

BRUNA, SELVAGGIA...

di Nino Oxilia (Torino 1889 - Monte Tomba 1917)

 

Bruna, selvaggia - Le pupille vive

strisciate d'oro, ombrate da le ciglia

lussuriose e morbide. In vermiglia

bocca i dentini fior delle gengive.

 

Nuca perfetta. Collo ove s'ingiglia

la neve e l'ambra in ombre fuggitive

che dilagan pel seno ove lascive

s'ergon le punte in breve meraviglia.

 

Amo la sua magrezza adolescente

e la sua forte nudità pagana

così viva di fremito e languore,

 

quando la bocca arrotondata a cuore

versa nella mia bocca avida e umana

la sua lussuria disperatamente.

 

(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, p. 84)

 

 

 

 

BELLA DONNA

di Francesco Pastonchi (Riva Ligure 1874 - Torino 1953)

 

Bella donna soave che parlava

era come veder nascere il giorno

lungo il mare con voli di colombe

tra le palme e spiegate vele uscire.

Una gemma le sfavillò sul collo,

tremula ultima stella nell'aurora.

 

(da "Endecasillabi", Mondadori, Milano 1949, p. 91) 

 

 

 

 

BELLEZZA MONTANARA

di Agostino Richelmy (Torino 1900 - Collegno 1991)

 

Vera divina tua bellezza, o bionda

come il letame su cui scalza stai,

riflessa è in un garzon che dalla sponda

del carro alza il tridente in via vai.

 

("Barbonse - Valle d'Aosta")

 

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1992, p. 183)

 

 

 

 

BELLA FIGLIUOLA

di Rocco Scotellaro (Tricarico 1923 - Portici 1953)

 

Bella figliuola che non parli mai

e ti tieni nascosta nei capelli

vorrei indovinare gli anni che hai

dagli occhi che mi paiono di agnelli.

Ti vedo che contenta te ne vai

all'erba che si fa male

già non si torna mai.

 

(da "Tutte le poesie 1940-1953", Mondadori, Milano 2004, p. 265)

 

 

 

 

PELLEGRINA CELESTE

di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976)

 

Pellegrina celeste, placata

la rissa dei venti,

strana riappari agli occhi dei viventi

col tuo viso di vergine annunziata.

 

Porti attorno alla chiara testa

la festa delle cose leggiere vaganti:

le rondini turchine balenanti

nell'innumerevole giro,

le bianche nuvole che salgono lente

la china del cielo

e gocciano latte

su le pallide acque stupefatte,

la danza smarrita delle farfalle,

bianche con bianche gialle con gialle,

le aperture del grigio orizzonte

su le plaghe lontane cristalline

dove abitano ancora le memorie bambine.

 

Ma chi sa, bella, che cosa chiudi

tra l'esili braccia congiunte in croce,

chi sa quale dono ci porti

di dolce bene o di male atroce

serrato sui piccoli seni nudi...

 

(da "Poesie", Mondadori, Milano 1962, pp. 179-180)



Luis Ricardo Falero, "A classical beauty"
(da questa pagina web)


mercoledì 28 ottobre 2020

Nel dì dei morti

 

                                                                  Il morire è nulla: è il non vivere

                                                                                      che riesce orribile.

                                                                                      V. HUGO

 

 

I

Suonano a festa: olezzan di viole

Le morte zolle e si rallegra la terra;

Cantano gli augelli, sfogliansi le aiuole...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

Inverno riede; Autunno, come suole,

L’ultime gemme dei fiori disserra,

Ronzano insetti e volteggiano al sole...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

Dormono stesi, immobili, stecchiti

Nell’umido, che stilla entro la fossa,

Col lenzuol roso e co’ stinchi imbianchiti.

 

O padre mio, una voce mi dice

E mi suona nell’anima commossa

Che tu sei morto e non fosti felice!

 

 

II

Che felice non fosti! È questo ingrato

Rimembrar che la mia vita addolora,

È il rimembrar che de’ tuoi cari il fato

Non allietò la tua fredda dimora;

 

Ma dimmi, per le lacrime, che dato

Mi fia versar su la tua fossa ancora,

D’un’altra vita, in forme altri rinato,

Vedesti o vedi una più lieta aurora?

 

Dimmi: pel duolo ond’è l’anima oppressa

Per il negro avvenir, che m’impaura,

È una mercede alla virtú concessa?

 

Ma tutto è muto! - Il sol dall’alto sferra

Gli ultimi raggi, e sorride natura...

Tacciono i morti e dormono sotterra.

 

 

I due sonetti che compaiono in questo post e che portano il titolo Nel dì dei morti, sono di Iginio Ugo Tarchetti (pseudonimo di Igino Pietro Teodoro Tarchetti, San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969) e furono pubblicati all'interno della raccolta postuma Disjecta. Versi (Zanichelli, Bologna 1879); dalla pagina 5 e 6 di detto volume li ho trascritti. In seguito, questi versi comparvero in diverse antologie della poesia italiana più o meno importanti, ed ora è possibile leggerli, insieme a tutti i versi dello scrittore piemontese, in Disjecta. Frammenti lirici, a cura di Roberto Mosena, Carabba, Lanciano 2017. Grazie a quest'ultimo volume, sono venuto a sapere che i due sonetti fecero la loro prima comparsa nel novembre del 1867, sulla rivista L'Illustrazione universale. Poi, comparvero di nuovo nella strenna Il Presagio (Bontà e Co., Milano 1868); qui, tra l'altro, vengono inseriti un luogo e una data di composizione: Milano, 1 novembre 1867, che meglio spiegano la frase del primo verso ("Suonano a festa"), ovvero il fatto che i sonetti furono scritti nel giorno di Ognissanti, che precede quello della commemorazione dei defunti. Per quel che riguarda il contenuto dei due sonetti, iniziando dal primo si può dire che le due quartine si limitano a descrivere l'ambiente e il paesaggio in cui il poeta si trova: il camposanto dove è situata la tomba del genitore, in una giornata mite d'autunno; sembrerebbe quasi l'inizio di un idillio, se non ci fosse quell'inquietante verso che chiude entrambe le quartine, a sottolineare il silenzio dei morti, e il conseguente malessere che si insinua nel poeta. La prima terzina del primo sonetto mostra la tendenza - comune in quasi tutti gli scapigliati - al gusto del macabro, insistendo troppo su particolari riguardanti il cadavere e le cose che lo circondano, sinceramente superflui. La seconda terzina aumenta ancor di più la drammaticità del contesto, a causa di quella voce interiore percepita dal poeta, che sottolinea l'infelicità cronica del padre del poeta, durata praticamente per tutta la sua vita. Il secondo sonetto, se possibile, rincara ancor di più la dose di drammaticità e di disperazione, con affermazioni relative alla sorte dei familiari (cari) più intimi, sia di Tarchetti che del padre, evidentemente poco fortunata. Quindi, nella seconda quartina e nella prima terzina, il poeta inizia una sorta di dialogo col genitore, quasi convinto che il povero defunto possa in qualche modo rispondergli; in particolare gli chiede se, dopo la morte, abbia avuto la possibilità di rinascere di nuovo, magari in altra forma vivente e con una nuova possibilità di trovare quella felicità mai assaporata nella prima vita; poi gli chiede ancora, se per tutto l'immenso dolore provato dall'anima e per il fortissimo timore dell'incerto futuro (sentimenti provati sia dal padre che dal poeta stesso) ci sia, dopo la morte, finalmente un riscatto. Si arriva infine all'ultima terzina, che rimarca il silenzio assoluto dei morti, impossibilitati a rispondere sia a questa che a qualunque altra domanda esistenziale; la poesia trova il suo epilogo nello stesso modo in cui aveva trovato il suo prologo: con la contraddittoria serenità che si respira in quel luogo destinato alle persone scomparse; la natura ancora offre, sebbene l'autunno sia già iniziato da un pezzo, giornate soleggiate e tiepide, mentre i morti, sotto terra, non possono né parlare e né guardare quel paesaggio così incantevole e rassicurante.


Iginio Ugo Tarchetti


sabato 24 ottobre 2020

La nebbia nella poesia italiana decadente e simbolista

 La nebbia, come è facile immaginare, simboleggia assai frequentemente uno stato di incertezza e di indeterminatezza che può anche trasformarsi in confusione totale; esprime, soprattutto pensando ad alcuni poeti crepuscolari, una realtà per nulla chiara né rassicurante, bensì grigia, al limite della tetraggine. Ma la nebbia può avere anche altri significati; per esempio, in una delle poesie più note di Giovanni Pascoli, la vita appare come una valle sommersa da una nebbia fitta, che impedisce di vedere in modo nitido qualunque cosa circostante, e quindi permette soltanto d'intuire o d'interpretare soggettivamente ciò che è lì intorno; insomma, l'esistenza equivale a questo paesaggio indefinito e misterioso, di cui si sa poco o nulla e di cui poco o nulla possiamo dire.

 


 

Poesie sull'argomento

 

Sandro Baganzani: "Nella nebbia" in "Senzanome" (1924).

Pompeo Bettini: "Nel vel di una nebbia che bagna" in "Versi e acquerelli" (1887).

Francesco Cazzamini Mussi: "Nebbie" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).

Ida Finzi: "A Miramar d'ottobre" in "Poesia", agosto 1908.

Diego Garoglio: "Nebbia d'autunno" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Ugo Ghiron: "Nella bruma" in "Poesie (1908-1930)" (1932).

Giulio Gianelli: "Nebbia" in «Gazzetta del Popolo della Domenica», agosto 1900.

Marino Marin: "Quando a l'alito fosco..." in "Sonetti secolari" (1896).

Pietro Mastri: "Effetti di nebbia" in "La Meridiana" (1920).

Nino Oxilia: "La nebbia fascia la città..." in "Canti brevi" (1909).

Aldo Palazzeschi: "Diaframma di evanescenze" in "I cavalli bianchi" (1905).

Aldo Palazzeschi: "Festa grigia" in "Lanterna" (1907).

Giovanni Pascoli: "Nebbia" in "Canti di Castelvecchio" (1903).

Giovanni Pascoli: "Nella nebbia" in "Poemetti" (1900).

Giacinto Ricci Signorini: "A grandi ondate i venti furiosi" in "Poesie e prose" (1903).

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Motivo grigio" in «Svegliarino», agosto 1897.

Agostino John Sinadinò: "Succube, dal volto delle acque..." in "La Festa" (1900).

 

 

 

Testi

 

NEL VEL DI UNA NEBBIA CHE BAGNA

di Pompeo Bettini

 

    Nel vel di una nebbia che bagna

vedemmo morir la campagna

    divisa in rettangoli a prati

da file di salci spogliati.

    Le foglie cadute dai rami

gremivan di mesti ricami

    la terra, e marcivano in pace;

o volte in un giallo vivace

    pezzavano gli alberi in guazzo

e avevano il rider d'un pazzo.

    Al fischio di sciocco tranello

volava a riprese un uccello.

    Pioveva col crescer del giorno

e noi volgevamo al ritorno,

    bagnata di nebbia la fronte,

guardando l'angusto orizzonte,

    la sola unità di misura

d'un piano di morta natura.

 

(da "Versi e acquerelli")

 

 

 

 

NELLA NEBBIA

di Giovanni Pascoli

 

E guardai nella valle: era sparito

tutto! sommerso! Era un gran mare piano,

grigio, senz'onde, senza lidi, unito.

 

E c'era appena, qua e là, lo strano

vocio di gridi piccoli e selvaggi:

uccelli spersi per quel mondo vano.

 

E alto, in cielo, scheletri di faggi,

come sospesi, e sogni di rovine

e di silenziosi eremitaggi.

 

Ed un cane uggiolava senza fine,

né seppi donde, forse a certe péste

che sentii né lontane né vicine:

 

eco di péste ne tarde né preste,

alterne, eterne. Ed io laggiù guardai:

nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.

 

Chiesero i sogni di rovine: Mai

non giungerà? Gli scheletri di piante

chiesero: E tu chi sei, che sempre vai?

 

Io, forse, un'ombra vidi, un'ombra errante

con sopra il capo un largo fascio. Vidi,

e più non vidi, nello stesso istante.

 

Sentii soltanto gl'inquieti gridi

d'uccelli spersi, l'uggiolar del cane,

e, per il mar senz'onde e senza lidi,

 

le péste né vicine né lontane.

 

(da "Poemetti")

 

 

Claude Monet, "Houses of Parliament in the Fog"
(da questa pagina web)


mercoledì 21 ottobre 2020

Giorno d'autunno

 Signore: è tempo. Grande era l'arsura.

Deponi l'ombra sulle meridiane,

libera il vento sopra la pianura.

 

Fa' che sia colmo ancora il frutto estremo;

concedi ancora un giorno di tepore,

che il frutto giunga a maturare, e spremi

nel grave vino l'ultimo sapore.

 

Chi non ha casa adesso, non l'avrà.

Chi è solo, a lungo solo dovrà stare,

leggere nelle veglie, e lunghi fogli

scrivere, e incerto sulle vie tornare

dove nell'aria fluttuano le foglie.

 




Questi versi sono del poeta Rainer Maria Rilke (Praga 1875 - Les Planches 1926), e li ho trascritti dall' antologia Poeti del Novecento italiani e stranieri, curata da Elena Croce e pubblicata a Torino dall'editore Einaudi nel 1960. Più precisamente la poesia si trova alla pagina 474 nella versione in lingua tedesca (vedi la foto in alto) e alla pagina seguente nella traduzione in italiano di Giaime Pintor (Roma 1919 - Castelnuovo al Volturno 1943). L'argomento, come si capisce facilmente, è l'autunno; nella prima parte il poeta compone una sorta di preghiera in versi, implorandolo il Signore a far sì che la nuova stagione sia clemente e conceda agli uomini la possibilità di ottenere i massimi risultati dalle attività agricole connesse con il periodo autunnale: maturazione e raccolta dei frutti, vendemmia e semina. Quindi il poeta si lascia andare a meditazioni che mostrano un pessimismo senza scampo. Gli ultimi tre versi, che potrebbero essere collegati al precedente, in cui si evidenzia uno stato di solitudine permanente e forzata, sembrano descrivere le attività giornaliere del poeta stesso, compresa quell'incertezza del vivere accentuata da un senso profondo di caducità, simboleggiato dalle foglie fluttuanti lungo le vie: tipicità di paesaggi che è facilissimo osservare nella stagione autunnale, sia in città che in campagna.

domenica 18 ottobre 2020

"Cuor mio" di Aldo Palazzeschi

 Cuor mio è il titolo di un volume poetico scritto da Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, Firenze 1885 - Roma 1974), pubblicato dalla Mondadori nel 1968, che ha segnato il ritorno alla poesia dello scrittore fiorentino dopo un lunghissimo periodo di pausa - circa cinquant'anni - in cui Palazzeschi si dedicò completamente alla prosa con ottimi risultati. Sorprendente fu per i lettori giovani e non solo, la scoperta di un talento poetico rimasto intatto, migliorato anzi dalla saggezza dello scrittore che si cimenta, cosa esclusivamente presente in quest'opera, anche con la poesia in lingua francese, dimostrando ancora una volta la sua indiscussa bravura. Palazzeschi pubblicò il suo primo libro di versi a soli vent'anni, continuò poi a scrivere poesie attraversando tutte le correnti più significative del primissimo Novecento e divenendo in breve assai famoso negli ambienti letterari più autorevoli. Dopo L'incendiario, la cui seconda edizione, accresciuta di nuove poesie, uscì nel 1913, Palazzeschi smise di pubblicare volumi di versi e intensificò la sua produzione di romanzi, alcuni dei quali, di ottima fattura, lo resero celebre (basti citare Le sorelle Materassi). Cuor mio contiene in tutto 54 poesie, di cui le prime 38 sono in lingua italiana, le rimanenti, raccolte nella sezione Quadretti parigini, sono in lingua francese. Concludo riportando alcuni estratti dalla seconda edizione di Cuor mio, il cui piatto esteriore è riportato nella foto che segue questo mio breve saggio: inizialmente compaiono dei frammenti relativi alla prefazione del poeta al suo libro, in cui lo scrittore chiarisce sia come cominciò a scrivere dei versi, sia come ritornò, dopo un lungo periodo, a riscriverli; segue la trascrizione di alcuni versi tratti dalla poesia Il grillo del Ponte Vecchio.


"CUOR MIO" DI ALDO PALAZZESCHI

 





«Scrissi delle poesie fra il 1904 e il 1914 e aggiungerò, per essere preciso, come la maggior parte di esse furono scritte fra il 1904 e il 1909. Ne avevo scritte anche prima ma quelle non contano, non essendo pervenute alla pubblicazione erano destinate al Limbo come coloro che non ricevettero il battesimo [...].

Ma tornando alle poesie ricordo a tale proposito di averne scritta una direttamente col sangue: sì, servendomi di un temperino per aprire una boccettina d'inchiostro, a quel tempo i tappi erano di sughero, mi ferii una mano e tuffando la penna nella piccola ferita scrissi una poesia di otto versi [...].

Ma ecco che quasi dopo trent'anni mi venne fatto, e potrei dire senza accorgermene, senza volerlo in modo assoluto, di scrivere una poesia, chi sa perché? Potrei direttamente aggiungere che la poesia si scrisse da sola. risorgeva nel mio animo un ricordo nostalgico della gioventù all'avvicinarsi della vecchiaia? Perché avevo scritto delle poesie prima? Perché durante trent'anni non ne avevo scritte più?. E perché dopo tanto tempo con la medesima spontaneità di allora ripresi a scriverne qualcuna quasiché invece di trent'anni fosse passato solo qualche giorno? Come nascono tacciono e rifioriscono consuetudini di questo tipo? Non sapendolo, lo domando a voi, che per poco ne sappiate ne sapete più di me certo».

 (da "Cuor mio", Mondadori, Milano 1975, pp. 14-16)

 

 

 

 

Da "IL GRILLO DEL PONTE VECCHIO"

 

Quando abitavo alla Costa San Giorgio

e ad ora tarda

risalivo ogni notte al mio aereo domicilio

per il riposo notturno

prima d'incominciare l'irto percorso

che mi portava a quello

dovevo attraversare il Ponte Vecchio deserto.

E mi accorsi

in una notte di Maggio

come la solennità di tanto vuoto

giunta a una levità

che mi faceva rattenere il respiro

e galleggiante

nel monotono e sommesso

mormorare dell'Arno

nel suo corso

fosse popolata

dal canto di un grillo:

cri... cri... cri... cri...Pareva in quel silenzio

che a così esile voce

 venissero lasciate

in ogni dimensione

le vie dello spazio.

E siccome da un tal fatto

la mia attenzione

venne colpita la notte dopo

da quella notte

il mio passaggio sul Ponte Vecchio

si associò a quel canto

e non udendolo

talvolta

 

Copertina anteriore di "Cuor mio"

immaginando una tregua

del lirico travaglio

attesi un poco

attesi incerto...

cri... cri... cri... cri...

appena udito

procedetti contento.

...

 (da "Cuor mio", Mondadori, Milano 1975, pp. 88-89)