mercoledì 20 maggio 2020

Maggiolata





Maggio, tra i tuoi divini
papaveri, tra il verde
tremulo e salmodie
di monache rinchiuse
e cori solitari,

tra questi tuoi sereni
silenzi rotti appena
da tinnuli echi, il cuore
chiudere voglio, il cuore
ch'è prossimo a morire.

Maggio, che disperato
pianto mareggia intorno,
che aneliti, che sangue!
Come si frange l'onda
rabbiosa su lo scoglio

frangesi il cuor del mondo.
Maggio, correre voglio
come a' verdi anni, come
naufrago uccello cieco
contro un muro di bronzo.




Maggiolata è una poesia di Gaetano Di Biasio (Cassino 1877 - Lecce 1959), e l'ho trascritta dal vol. III dell'antologia Le più belle pagine dei poeti d'oggi, curata da Olindo Giacobbe e pubblicata dall'editore Carabba di Lanciano nel 1929. L'autore di questi versi, che svolse per tutta la vita l'attività di avvocato, pubblicò pochi volumi poetici, tra i quali Liriche (Carabba, Lanciano 1928). In Maggiolata, sia per la tematica che per il modo di scrittura, è facile notare che il poeta ciociaro ebbe come punti di riferimento principali il Pascoli e il D'Annunzio. I versi sembrano descrivere un nuovo stato d'animo e un'esaltazione dovuta al rinascere della vita e della natura nel mese che precede l'estate; in realtà, procedendo nella lettura, si notano degli elementi che contraddicono questa voglia di vivere, come il cuore / ch'è prossimo a morire, così come il disperato / pianto, l'onda che si frange rabbiosa su lo scoglio e il naufrago uccello cieco che impatta contro un muro di bronzo. Elementi che indicano un malessere nemmeno troppo sotterraneo, trasformando l'esultanza iniziale in disperazione.

domenica 17 maggio 2020

Poeti dimenticati: Cesare Giulio Viola


Nacque a Taranto nel 1886 e morì a Positano nel 1958. Dopo la laurea in legge iniziò a scrivere per vari giornali interessandosi principalmente di teatro e di letteratura. Fu romanziere, commediografo e sceneggiatore cinematografico. Compose versi in gioventù e pubblicò una raccolta: L'altro volto che ride, in cui è facile notare una assidua presenza di atmosfere fosche e macabre che lo avvicinano alla poesia degli scapigliati.



Opere poetiche

"L'altro volto che ride", Ricciardi, Napoli 1909.





Testi

L'ALTRO VOLTO CHE RIDE

Uomo che ascolti, se un giorno, un tuo pazzo fratello
affondasse nel bianco tuo volto un aguzzo scalpello,
e scavasse,
feroce scavasse ne l'umida faccia cruenta la carne tua molle,
a vuotarti le cave terribili occhiaie,
a slargarti la bocca in immonde ferite,
a scuoiarti la cute villosa del cranio; -
- fra il rosso fluire del sangue,
fra il multiplo intrico di tutte le fibre ritorte, -
imagine tetra da te balzerebbe il tuo teschio giallastro,
sul folle tuo grido di strazio e di morte;
e al guardo febrile di quei che infrenabile squarta ed uccide,
beffardo, apparrebbe, ghignando,
l'Altro volto che ride.
Poeta selvaggio, nel breve cammin di mia vita mortale,
più che l'aratro puntuto per l'aride zolle,
più che la falce lunata alla fulvida messe,
più che l'autunno ferale pei rami de l'arbori macre,
più che l'aratro e la falce e l'autunno
io mi fui per l'effimere maschere umane.
Uomo! predando passai sul tuo pallido viso,
come il largo torrente pei fertili piani,
quando dei torbidi cieli cavalcano sopra l'attonita terra,
a torme, gli uragani.

Ed ora - nudata del carneo suo guscio l'ambigua tua faccia -
d'innanzi al mio cuor di sparviero,
Uomo!
perduto hai, per sempre, il tuo grande mistero.

Che gli occhi tuoi, gonfi di lacrime,
piangano il pianto più amaro
di tutte le più desolate sciagure del mondo;
che s'apra la bocca tua rossa
al riso più chiaro-squillante
del cuor più giocondo;
irrida il tuo sguardo sottile
o adocchi la preda, o carezzi il pugnale omicida;
s'aderga la tua larga fronte,
protesa in un sogno d'accesa vittoria;
t'esalti il più nobile grido di sfida,
t'accasci il più fosco tormento
di nostalgia,
ti strozzi l'estremo terribile rantolo
dell'agonia,
Uomo! a tuo scherno indelebile,
ne la tua carne polita, ti beffa, celato, il sarcastico viso
che ghigna all'alterna vicenda
della tua vita
quello che un dì riderà, nella fossa, al tuo lento
disfacimento;
quello che un dì mireranno, devoti,
superstite effige dell'avo glorioso,
i tardi nepoti.

Pure d'innanzi al fatale sigillo
che segna la tua poderosa mascella,
Uomo! poeta selvaggio, io ti grido:
- Se il cuore ti basti e l'ingegno,
sii tu della saggia Natura, più grande e più forte:
dischiudi il tuo labro sottile a un sorriso di sdegno,
di fronte alla Vita e alla Morte. -

(da "L'altro volto che ride")

mercoledì 13 maggio 2020

La solita strada




Ogni anno che passa è una svolta
che fai, d'un monte,
tortuosa...
Dall'alto il sol che scintilla,
t'illumina in fronte.
A valle scorre un torrente.
Chi scende lo sente
lamentarsi là in fondo.
La strada che avanza par molta,
aspra, petrosa, ristretta...
Ma un giorno, tu vedi la vetta
sognata, vicina, e ti brilla
di gioia lo sguardo. Finita
è ogni fatica gravosa,
ché ormai, lontano, là in fondo,
si snoda il torrente
del mondo...
Ma anche finita è la strada. Finita...

La vita.



Questa poesia è di Francesco Cazzamini Mussi (Milano 1888 - Baveno 1952), e fa parte della raccolta Le allee solitarie, che lo scrittore lombardo fece stampare dall'editore Ricciardi, in Napoli, nel 1920. Più precisamente, La solita strada si trova a pagina 157 del suddetto volume, come nona poesia della quarta ed ultima sezione intitolata La luce dell'anima. Tema principale è quello della vita umana, che ciascuno di noi trascorre come se stesse camminando su di una via montana, piena di tornanti; ad ogni tornante superato corrisponde il decorrere di un altro anno. Il percorso, a mano a mano che si sale, diventa sempre più impervio e faticoso; poi, improvvisamente, ci accorgiamo che la vetta non è così lontana, e riusciamo a scorgerla in lontananza. Quando arriviamo, finalmente, non avvertiamo più la fatica, e abbiamo davanti agli occhi "il torrente / del mondo". Ma proprio in questo momento ci rendiamo conto che, al nostro arrivo, corrisponde anche la fine della strada esistenziale, e non ci rimane che morire.

domenica 10 maggio 2020

"L'urna" di Guelfo Civinini


L'urna è il titolo della prima raccolta poetica pubblicata da Guelfo Civinini (Livorno 1873 - Roma 1954): scrittore, giornalista e librettista che divenne famoso per i suoi ottimi articoli pubblicati dal Corriere della Sera, per cui lavorò in diversi periodi, sia come inviato speciale che come collaboratore esterno. La sua fama è anche legata al libretto che scrisse per La fanciulla del West: opera lirica del grande Giuseppe Puccini. Meno conosciuta è la sua opera poetica, che invece meriterebbe maggiori attenzioni; mi riferisco in particolare alle due raccolte: L'urna e I sentieri e le nuvole, che pubblicò nell'arco di circa un decennio.
Volendo ora analizzare sommariamente la prima, che uscì nel 1900 presso la Società Editrice Dante Alighieri di Roma, va detto che comprende 34 poesie divise in 6 sezioni i cui titoli vado ora ad elencare: CIRCE; RIME DELLE LIETE E DELLE TRISTI STAGIONI; RIME D'AMORI SPENTI; RIME DI VISIONI E DI MEMORIE; RIME DELL'AMICA FEDELE; LA MÈTA. Va aggiunto che, sia la prima che l'ultima sezione contengono soltanto una poesia avente lo stesso titolo delle stesse (anche se Circe si struttura in 10 sonetti collegati tra loro).
La seconda sezione risulta essere la più corposa, essendovi racchiuse ben 11 poesie, che, per le tematiche presenti, e per la disposizione cronologica, vanno a coprire l'arco temporale di un intero anno (si comincia infatti dalla Sestina di Natale, per finire con Canzonetta di una sera di Novembre). Già qui, è possibile identificare le caratteristiche della poesia di Civinini, che rimarrà quasi intatta anche nella raccolta successiva. I suoi punti di riferimento italiani sono il D'Annunzio del Poema paradisiaco e, in minor misura, il Pascoli di Myricae; gli stranieri maggiormente seguiti o imitati dallo scrittore toscano sono invece Paul Verlaine e Maurice Maeterlinck. Facile è anche notare più di una somiglianza con la scrittura in versi di Cosimo Giorgieri Contri, che allora aveva già pubblicato da diversi anni la sua raccolta più importante: Il convegno dei cipressi. Tale somiglianza viene ancor di più allo scoperto nella terza sezione, in cui il poeta descrive, con accorata malinconia, una serie di amori "spenti" del suo passato più o meno recente. Le poche poesie che fanno parte della quarta sezione, sembrano anticipare il crepuscolarismo, non solo per l'immancabile e profonda malinconia che vi si respira, ma, soprattutto, per la scelta di porre in risalto luoghi abbandonati o desolati, e, qualche volta, anche dei personaggi umili e umbratili. Quanto alla quinta sezione, contiene anch'essa poche liriche in cui la fa da padrone un romanticismo estenuato, lo stesso che in parte si ritrova nel D'Annunzio più languido e dimesso.
Chiudo riportando il piatto anteriore della raccolta, l'elenco completo delle poesie ivi presenti e infine tre testi che reputo fra i migliori.






Autore principale: Civinini, Guelfo
Titolo:   L'urna / Guelfo Civinini
Pubblicazione: Roma: Società ed. Dante Alighieri, 1900
Descrizione fisica: 121 p.; 19 cm.


* * *


CIRCE

Or che sui clivi dei malvagi incanti
Lungi, a la mèta! Io m'affannava invano
Passò nel sole un galoppar serrato
Quanta vita, in breve ora! A l'adombrato
Ella venne raggiante come un astro
E mi viene l'orgoglio. Dolorando
- O buon polledro, sangue violento
Alba o vespro, io non seppi. Il passionale
Or dei malvagi incanti per i macri
Ma nelle notti, quando il cuore è stanco



RIME DELLE LIETE E DELLE TRISTI STAGIONI

Sestina di Natale
Sestina del verno e della morte
Sestina del sole sul fiume
Canzone dei mandorli fioriti
Canzone della primavera perduta
Canzone delle rose fiammanti
Ballata delle rose «In Memoriam»
Ballata delle falci
Ballata delle stelle cadenti
Canzonetta del desiderio onesto
Canzonetta vendemmiale
Canzonetta d'una sera di novembre



RIME D'AMORI SPENTI

L'omaggio
La vana lotta
Le stelle
Ballata del bel fiore e del dolce frutto
L'eremo
Chiesa rurale
L'abito viola
Motivo stanco
L'istantanea
La spilla di turchine
La grazia



RIME DI VISIONI E DI MEMORIE

Una villa
Le bòccole
Notturnino
Le querce sul fiume
Mattinata
Memorie dell'infanzia



RIME DELL'AMICA FEDELE

"Sonetti augurali":
  O rime sorte in lieve fioritura
  Ditele: - a voi che siete tanto buona
  Ditele: - su la vostra fronte bianca
Un tramonto lontano
L'asilo



LA MÈTA

La mèta


* * *


CANZONETTA D'UNA SERA DI NOVEMBRE

Gli orti son tutti pieni
di crisantemi bianchi
e di foglie cadute:
pe' silenzi sereni
vanno i ricordi stanchi
delle cose perdute.

Ancor l'ultimo sole
incendia una vetrata
laggiù: suonano l'Ave.
In un ciel di viole
la luna s'è levata
di dietro a Monte Cave.

Novembre. Ah, che veleno
in queste sere smorte,
quando nel cheto lume
pe' piani umidi il fieno
e l'erbe odoran forte
fra le nebbie del fiume!

Quando l'autunno infiora
come uno stanco aprile
l'asil romito ov'io,
solo, m'indugio ancora,
che veleno sottile
di ricordi e d'oblio!

Non tornerà l'assente
che nei vesperi molli
qui mi sedea vicino
(moria sì dolcemente
sovra i lontani colli
il giorno novembrino);

non tornerà più mai
in una sera stanca
giungendo di lontano
l'amica che obliai,
la buona anima bianca,
a porgermi la mano?

Troppe volte io l'attesi,
con la fronte che ardeva,
dietro al vecchio cancello,
e l'anima protesi
se la ghiaia strideva
sotto al piedino snello!

Troppe volte la sera
ho udito una romanza
passata ormai di moda
diffondersi leggera
per la tepida stanza
dal piano a mezza coda!

E troppe volte infine
io le vidi cadere
nell'ebbrezza profonda
rovescia su le trine
bianche dell'origliere
la bella testa bionda!

E quest'amore è morto.
Ove sarà l'altera
che tenne in signoria
i giaggioli dell'orto?
Non tornerà, una sera?
Non tornerai, Maria?


Commiato.

I morti: ieri i Santi.
O mio cuore, è la sorte:
quel che fu santo ieri
oggi nei camposanti
custodisce la morte
fra le ghirlande e i ceri.

(dalla sezione "Rime delle liete e delle tristi stagioni", pp. 53-57)  




CHIESA RURALE

Nel mattino riposa
la chiesa umile e cheta:
quasi la rende lieta
un chiarore di rosa.

Vanisce un'alta pace
fra i dipinti sbiaditi:
negli scanni scolpiti
stride il tarlo, tenace,

fra i parati turchini:
dal vecchio sfondo d'oro
guardan rigidi il coro
tre santi bizantini.

Saettando fra' travi
van le rondini a' nidi,
liete, con brevi gridi:
giungon di fuori soavi

i profumi del prato:
per la navata cheta
olisce la segreta
poesia del passato.

Ella un dì qui pregò
pel mio, pel suo peccato.
Oh, l'han riconsacrato
il luogo ove passò

la carezza odorosa
della veste di seta?
La chiesa umile e cheta
nella pace riposa.

(dalla sezione "Rime d'amori spenti", pp. 69-70)




UNA VILLA

Io conosco una villa abbandonata
fuor delle mura, a capo d'un viale
di cipressetti polverosi, eguale
sempre nella sua grazia desolata.

Dai ferri della vecchia cancellata,
fra i rami del bel parco baronale,
si scorge un palazzetto. Un ogivale
finestra da gran tempo è spalancata.

Da gran tempo è così. chi sa? La mano
che la dischiuse or forse sarà immota.
Stillan gli alberi lacrime gelate

sopra le violette che son nate
a' lor piedi, dolcezza buona e ignota:
ed ha quel pianto un alto senso umano.

 (dalla sezione "Rime di visioni e di memorie", p. 97)