sabato 1 ottobre 2016

Ottobre in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ed ecco il primo mese autunnale: il caro Ottobre. A me che vivo a Roma, Ottobre può offrire delle giornate splendide, soleggiate, che ricordano un po' la primavera: sono le cosiddette "ottobrate romane". Ma questo mese somiglia a marzo: può regalare bel tempo o pioggia, o già qualche giorno rigido. Nelle poesie che seguono si parla di tutto questo; e c'è chi ti ama e chi ti odia, chi vede in te il tramontare definitivo dell'estate, chi ti loda e ti decanta, chi medita su di te, carissimo Ottobre, mese a me amico.


IMPROVVISA, LA FANTASIA...
di Riccardo Bacchelli (1891-1985)

Improvvisa, la fantasia m'ha condotto per le strade
rettilinee del Bolognese, bordate di rami
freddolosi, toccati dall'ottobre , con prospettive
di persiane verdi allineate sulle facciate.
Il Reno si stacca dai monti con incantevoli
indugi  e prende spazio  in pianura, alberi
e frutteti si spogliano con incredibile bellezza,
riposano al sole le terre. È il tempo
adesso che le cantine odorano di fermentazione,
e il contadino esce senz'arnesi a guardare
forse se qualche fosso non scola. Le terre,
gli uomini, il paese fortunato nelle adiacenze
del fiume, godono questo sole breve.
Gli uccelli son di passo.

(Da "Memorie del tempo presente", Milano 1953)




LA NOTTE D'OTTOBRE
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Mi ha svegliato il tuo canto solitario,
triste amica dell'ottobre, innocente civetta.
Era la notte,
brulicante di sogni come api.

Ronzavano
agitando le chiome di fuoco
e le bionde barbe,
ma i loro occhi erano rossi e tristi.

Tu cantavi, malinconica
come una prigioniera orientale
sotto il cielo azzurro...
Io ascoltavo battere il mio cuore.

(Da "Fuochi in novembre", Minardi, Parma 1934)




OTTOBRE
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

Un tempo, era d'estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si svegliava la mia fantasia.
Inclino adesso all'autunno
dal colore che inebbria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest'aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulla vigne saccheggiate.
Sole d'autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati,
vòlti al peggio e la morte nell'anima.
Ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
sole che rivediamo,
col tuo giungere ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t'inoltri
e sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch'è tutta una dolcissima agonia.

(Da "Il sole a picco", L'Italiano, Bologna 1929)




D'OTTOBRE
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Nei punti meditati
sui gradini dove
il pensiero si ferma e non riposa
perduta la stagione
(lucecalore forza
di fuochi fantasiosi)
mentre il mondo ingiallito prova
foglia per foglia a perdersi.

(Da "L'allodola ottobrina", Mondadori, Milano 1979)




PAREVI UN CHE SEDESSE...
di Francesco Chiesa (1871-1973)

Parevi un che sedesse, ieri, ravvolto
d'un mantel bigio, sotto un'acqua fina
che fluiva in silenzio. Stamattina
non piove più; ti batte il sole in volto,

fratello ottobre; e tu balzi disciolto
d'ogni mal, scuoti via quel po' di brina
dal mantel ch'era d'oro, e oro la spina
che, per trartela, il piede in mano hai tolto.

E vai, sommerso in un dorato oblio,
la terra e il ciel nelle pupille ignare
rispecchiando, frutteti, uve... Parevi

ieri l'ombra tua morta. Oggi ti levi
radioso, signor delle tue chiare
giornate ultime: ottobre, fratel mio.

(Da "L'artefice malcontento", Mondadori, Milano 1950)




TRISTEZZA D'UNA SERA D'OTTOBRE
di Guelfo Civinini (1873-1954)

Son rientrato or ora. Per la via
di casa s'accendevano i fanali
tremuli fuochi di malinconia.

Ha piovuto per tutta la giornata.
Son già le prime acque autunnali.
Poi l'aria a vespro s'è rasserenata.

Ma in questa trasparenza d'ametiste
il cielo è come un'anima ch'è stanca
di piangere, ed ancora è tanto triste.

Nessun passava, per la via remota:
incombeva una gran nuvola bianca
sovra le case, tragica ed immota,

un pianger di campane era nell'aria,
dai platani cadean le prime foglie;
tremava qualche stella solitaria;

ed un accoramento indefinito
era in quell'ora satura di doglie
che mi tenea come un fanciul smarrito:

un fiorir vago di memorie spente,
di rimpianto per ogni ben perduto
cui passai forse accanto indifferente:

volti di donne intravedute appena,
anime apparse in gesto di saluto
per qualche solitudine serena,

fantasmi erranti che più non ravviso
chiusi nei veli della lontananza,
ombre di pianto, luci di sorriso

rievocanti all'anima in tremore
un fulgor biondo, un'aria di romanza,
un mattin d'oro, una veranda in fiore.

Dogliosa nostalgia, la più dogliosa:
quella di ciò che trascurammo, e ov'era
forse la nostra dolce sorte ascosa.

Forse... Triste parola, triste quale
fra le rame dei platani stasera
questo languor di cielo autunnale:

triste e pur buona, che pur s'addolora
ne illude ancor di qualche tenerezza
di cui viviamo, in cui crediamo ancora,

di cui può ancora l'anima sognare,
l'anima ch'ebbe a tedio ogni certezza
e il sogno solo può ancor consolare.

Ma questa sera, oh, nulla la consola:
così triste è la casa all'imbrunire
quando si è soli, e pur l'anima è sola.

Le cose amate, le cose più care
son come morte e più nulla san dire
in questa scialba angoscia che traspare

di tra i ricami delle tende bianche
nell'agonia dell'ultimo chiarore
fra voci di campane umili e stanche.

Tristezze d'un crepuscolo! Nell'ombra
una pendola batte: un vecchio cuore
triste, che una mortal stanchezza ingombra.

«Addio» mormora l'anima dolente.
Perché, non sa. Vede svolare a frotte
fra rade stelle fantasime lente

nubi di sogni, vanienti forme
perdute incontro all'imminente notte
verso il mistero immobile ed enorme,

e un bisogno d'addii, forse di pianto,
la stringe. Qualcheduno è per partire?
Non sa. Forse è partito già, da tanto,

da tanto tempo. «Addio» mormora ancora
e piange stanca, e sentesi morire.
Di che, non sa. Malinconia l'accora.

(Da "I sentieri e le nuvole", Treves, Milano 1911)




UN MITE OTTOBRE
di Gian Carlo Conti (1928-1983)

Pigri voli d'addio
sulla casa fanno
le ultime ali dell'anno.
Quale dolce stagione è mai la nostra:
stare con le braccia nude senza tremare.

(Da "Il profumo dei tigli", Feltrinelli, Milano 1960)




OTTOBRE DENTRO UN NUVOLO DECLIVE
di Arturo Onofri (1885-1928)

Ottobre dentro un nuvolo declive
sui castagneti, mèdita assonanze
fra l'oro morto delle foglie estive
e l'aria azzurra, pregna di distanze.

Ma un rullio d'ali stringe e circoscrive
l'ultime quasi esanimi fragranze
di terra, e irradia nelle zolle attive
l'armonia di più sveglie concordanze.

Un sussulto, che sembra esalar fuori
dal profondo dei suoli agita a tratti
le morte foglie in brividi sonori.

Ma le respinge in basso, dalle zone
alte, qual pullulio d'angoli esatti,
che l'inverno dei cieli in terra pone.

(Da "Vincere il drago!", Ribet, Torino 1928)




OTTOBRE
di Antonia Pozzi (1912-1938)

È crollo di morta stagione
quest'acqua notturna sui ciotoli.

Lànguono
fuochi di carbonai sulla montagna
e gela
nella fontana un fioco lume.

L'alba vedrà
l'ultima mandria divallare
coi cani, coi cavalli,
in poca polvere
dietro un dosso scomporsi.

Pasturo, 30 settembre 1935

(Da "Parole", Garzanti, Milano 1998)




TRAMONTO D'OTTOBRE
di Francesco Scaglione (1891-1946) ed Emilio Scaglione (?-?)

Non più lunghi crepuscoli: difformi
d'ombre i monti e di luci, in queste sere
rapidamente perdon le severe
aridità de le lor cime enormi.

Non più indugi: l'estate è seppellita;
pace a l'anima sua! Questa è la vita.

Che bella sera! Una campana squilla,
ad occidente Venere sfavilla.

(Da "Limen", Giannotta, Catania 1910)



Santiago Rusiñol, "Paseo de los plátanos"
(da https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12082935)



venerdì 30 settembre 2016

Ottobre in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Da "IDILLIO DOMESTICO"
di Vittorio Betteloni (1840-1910)

Fu a mezzo ottobre, quando si fan gialle 
Le foglie, e al primo soffio che diserra 
                  II monte su la valle 
                  Cascano in folla a terra; 
Fu a mezzo dell'ottobre disadorno, 
                  Che a la modesta villa, 
                  Dov'ebbero tranquilla 
Dimora i padri miei, feci ritorno. 

Dopo l'assenza di molt'anni al loco 
Feci ritorno dell'infanzia mia; 
                  Partii fanciullo e poco 
                  Men che adulto or venia: 
Nessuno ravvisarmi avria saputo, 
                  Ma gli antichi cipressi 
                  Vidermi appena, ch'essi 
Mossero il capo in segno di saluto. 

Furon dinanzi del cancel piantati 
Da non so quale de' miei vecchi stessi 
                  Que'due vecchi cipressi; 
                  E là come soldati 
Stan da gran tempo a guardia del mio tetto, 
                  E mi conobber tosto, 
                  Perchè ai lor piè deposto 
Io soleva giocar da pargoletto.

(Da "Nuovi versi", Zanichelli, Bologna 1880)




MAMMA, QUESTA D'OTTOBRE...
di Giovanni Cena (1870-1917)

Mamma, questa d’ottobre così gaia
giornata, sembra d’una primavera
ultima. Senti? rondinelle a schiera
empiono di bisbigli la grondaia.

Senti? tutto è brusio. Biondo nell’aia
il sol, tiepido ancora. Ma l’intera
famiglia è qui d’intorno, e prega e spera
che dalla casa il reo morbo scompaia.

Oggi si spilla il vino e si ripone
il grano turco: a noi il buon Signore
nulla di queste cose diede, mamma.

Pur siamo lieti: poi che 'l buon Signore
ancor ci appresta molte cose buone,
la tua salute, il tuo sorriso, mamma.

(Da "Madre", Streglio, Torino 1900)




OTTOBRE 
di Giovanni Alfredo Cesareo (1860-1937)

Il mio core è a te da canto, 
Il mio core qui non è: 
M'empie gli occhi a un tratto il pianto, 
E non so, non so perché. 

Triste è ottobre, e l'aria é scura; 
Tace inerte la città; 
E un presagio di sventura 
Fitto in animo mi sta. 

Su le vie di pioggia lustre 
Fioco trema a specchio il sol, 
E l'augel, con cura industre, 
Su le torri posa il vol. 

Ma 'l tuo labbro roseo e infido 
É un cespuglio sempre in fior, 
Dove fanno i baci 'l nido, 
Dove il nido fa l'amor. 

O diletta, io t'amo tanto; 
Ma, se tu sorridi a me. 
M'empie gli occhi a un tratto il pianto, 
E non so, non so perchè. 

(Da "Le Occidentali", Triverio, Torino 1887)




L'OTTOBRATA
di Domenico Gnoli (1838-1915)

Su tre colonne di granito, girano 
Due snelli archi di pietra e fanno un vago 
Portichetto, riparo a' densi ardori. 
Salgono a destra pampinosi colli. 
A manca s'apre la verde pianura. 
Sotto scoppian le risa, è di bicchieri 
Un tintinnio, gaio tumulto. Vino, 
Datemi vino! Sopitor de' mali 
Ridesta al senso de la gioia il core. 
Di sé fanno ghirlanda sovra il prato, 
Scotono i lombi al crepitar de' cembali 
Le giovinette lucide; percotono 
Coll'agil piè la terra a suon di nacchere. 
Datemi vino! Dagli occhi giranti 
Saettano la luce dell'amore: 
Stilla sudor da le guance vermiglie 
Che par brina piovuta su le rose: 
Volano i panni, s'avvolgono a' nudi 
Colli di cigno le corvine chiome. 
Datemi vino! Tutto il ciclo ride, 
É la natura un infinito riso. 
La gioia è moto. Volano pel tremulo 
Etere i raggi del divino sole, 
Ondeggia la marina irrequieta, 
L'uccello l'ali, la donzella i fianchi 
Agita al ballo: ogni nervo mi trema. 

Ed ecco stanco del tripudio poso 
All'ombra lunga e nera d'un cipresso. 
Il vino mi vapora la tristezza 
Nel capo: in terra mi distendo e tocco 
Con mano un teschio da la vanga rotto. 
Vien fuori, o sede d'una vita spenta. 
Chi fosti? Donna di beltà divina? 
Non temer di mostrarmiti sì brutta. 
Io colla viva fantasia t'incarno, 
Ti fo gli occhi brillar fuor da le buche 
E giù dal cranio piovere i capelli: 
Ti compongo le guancie delicate 
Circonfuse d'un molle aere d'amore. 
Di gelosa rancura ti molesta 
Il ballo delle donne ch'or son belle? 
Io colla viva fantasia le scarno, 
Le dischiomo, le cieco, e sotto a quella 
Maschera di bellezza sta la morte. 
Dimmi, da quanti secoli non godi 
La gioconda campagna, e su quest'osso 
Batte dell'ebre danzatrici il piede? 
Muoion le madri, sull'ossa obliate 
Danzan le figlie, il piè de le nepoti 
Già s'addestra ne' balli. Le progenie 
De' morituri l'una l'altra incalza. 
O mio capo che senti e vedi e odi, 
Starai sotterra ignudo. Un dì la vanga 
Del contadino che i vigneti educa 
Ti romperà, ti getteranno là 
Come un ciottolo. Capo, non tremarmi: 
Già non avrai d'un ciottolo più senso. 

Spira l'aura del vespero; il cadente 
Raggio del sole qua e là sugli erti 
Pinacoli de' templi accende i vetri, 
E per la strada polverosa i folli 
Canti i percossi cembali lontanano. 
Entro il passato già ruina il giorno 
Il bel giorno d'autunno. Or che rimane 
Di que' fervidi balli? Ardeano i cieli 
Ardeano i campi al divin Sole, e meste 
Risplendon le lucerne alle finestre. 
Posa natura, posano i mortali: 
ha termine ogni cosa, sterminato 
É il desio. Come uccel, quando la neve 
Copre i campi, non trova ove si posi
E fuor del tempo cerca la sua vita. 

(Da "Versi di Dario Gaddi", Galeati, Imola 1871)




OCTOBER
di Olindo Guerrini (1845-1916)

Muoio. Cantan le allodole 
Ferme sull'ali nel profondo ciel, 
E il sol d' ottobre tepido 
Albeggia e rompe della nebbia il vel. 

Caldo di vita un alito 
Sale fumando dall'arato pian. 
Muoio. Cantan le allodole 
E le giovenche muggon da lontan. 

La vostra lieta porpora, 
Roselline d'inverno io non vedrò; 
Le carni mie si sfasciano... 
Domani al mio balcon non tornerò.

(Da "Postuma", Zanichelli, Bologna 1879)




OTTOBRE
di Andrea Maffei (1798-1885)

Chi v'insegnò, gentili abitatori 
Dell'aere, a ramingar di clima in clima 
Quando al soffio autunnal la neve prima 
Copre d'un vel le acute alpi maggiori? 

Vi profuse Natura i suoi favori 
Ben più che a noi. Tegnamo, è ver, la cima 
Per la poca ragion che ne sublima; 
Che pro, s'ella è ravvolta in tanti errori? 

Voi l'istinto conduce, onde sereno, 
Senza il misero don dell'inlelletto, 
Liberi pellegrini, il dì traete. 

Oh se buio ci fosse ogni altro affetto 
Fuor che l'amore, il vostro unico freno, 
Noi pur saremmo creature liete. 

(Da "Versi editi ed inediti", Le Monnier, Firenze 1858)




ALBA D'OTTOBRE
di Guido Menasci (1867-1925)

Un ciel d'autunno: un cielo di grigia pallidezza.
Il cheto Arno disegna una curva d'argento
ed i pioppi su l'argine fremono bianchi al vento.
A l'orizzonte appare il chiaror del mattino:

un chiaror freddo: lascia laggiù certe penombre.
Da la pianura tacita, leggieri come ombre
risospinti da l'alito tenue della brezza
veli di nebbia levansi d'un color cenerino.

Nel grigio smorto e pallido dell'alba autunnale
come una pace mistica de la campagna sale
e i Desiderii paiono sopirsi entro di me

e il sospiro d'amore diventa orazione;
religiosa, lontana, or l'Adorazione
raggia pura da l'anima e s'alza fino a Te.

(Da "Il libro dei ricordi", Giusti, Livorno 1895)




L'OTTOBRE
di Luigi Mercantini (1821-1872)

Fine a stagion sì dolce
É il mese dei diletti:
Chi vuol goder si affretti
            A la collina.

Per le vallee s' inchina,
Ai prati si riposa,
Ma libera e gioiosa
            É l'alma al colle.

Un'aura fresca e molle
Per greppi e ripe l'ale
Move agli olezzi e sale
            Alla mia vetta.

La lieta cascinetta
I don' dell'aura accoglie,
Mentre ogn'arbor le foglie
            Agita intorno.

Il signor del soggiorno
Ad un balcon s'affaccia,
E all'usata sua traccia
            Il guardo gira.

Prima lontano ei mira
Del mar l'azzurra lista,
E rallegra sua vista
            Al sol che nasce.

Poi suo veder si pasce
Alla foresta, al monte,
Al zampillar d un fonte
            Giù pei campi.

Talor si volge ai lampi
D'una scoppiante canna,
E vede il can che azzanna
            I morti augelli.

Sul margin dei ruscelli
'Ve più la frasca è stretta
Vede far la civetta
            Capolino;

E l'incauto augellino
Sopra il ramo viscoso
Del garzoncel festoso
            Intanto è colto.

Ma più fiso è il suo volto
Là presso ad un boschetto
Dove ha maggior diletto
            II cacciatore.

Questi 'n sul primo albore
Al capannel si appiatta,
Ed al bosco e alla fratta
            E al prato guarda.

E molt'ora non tarda
Ch'uno ed un altro augello
Si cala al praticello
            E intorno vola.

Ma breve è sua carola,
Perchè l'uom de l'agguato
Già la fune ha tirato
            Agli spaventi.

Gli augelli ad altro intenti
Drizzan l'ala a le fronde;
Ma è lì che si nasconde
            Ultimo inganno.

Pel capo appesi stanno
Da la non vista ragna,
Chi è preso invan si lagna
            E l'ali sbatte.

Così l'ore son tratte 
Di chi pei colli ha stanza;
E insiem col dì s'avanza
            Il godimento.

Vedi curvato e lento
Col vomer faticoso
Pei solchi ir disioso
            L'aratore.

E innanzi a lui d'amore
Cantar le zappatrici,
Tritando alle pendici
            Il duro suolo;

Mentre d'intorno a volo
Pigolando saltella
La vispa gallinella
            E ingozza il grano;

Ma lei caccia il villano
Che sparge eletta e monda
Su la terra feconda
            La semenza.

O soave potenza
Di gioie ignote a molti:
Sol chi tien con gli stolti
            Non ti prezza.

(Da "Canti", Ferrario, Milano 1885)




OTTOBRE
di Emilio Praga (1839-1875)

Un lenzuolo di nebbia avvolge il cielo,
e la pioggia minuta e lenta cade;
le colline lontane han messo il velo,
e di fango si coprono le strade. 

Piangono come vedove le biade,
e l'elegìa, battendo stelo a stelo,
addormenta le selve e i nidi invade,
i nidi pieni di piume e di gelo.

Che narrano le goccie ai bruchi erranti?
Alle buccie che dice il vento fioco?
Oh nelle tombe scheletri grondanti,

oh beltà, robustezze, a poco a poco
scioglientisi coll'acqua, e vegetanti!...
E la gente sonnecchia intorno al foco. 


(Da "Trasparenze", Casanova, Torino 1878)




OTTOBRE
di Mario Rapisardi (1844-1912)

Ride limpido il Sol dopo la piova 
Sopra gli umidi campi ridolenti 
Di nepitella, e più vicino appare 
Per lo nitido ciel l'ardua montagna 
Tutta ametiste ed òr; solo una grigia 
Lista di nebbia fuggitiva rade 
Il bruno castagneto, e su la cima 
Un'arruffata nugoleita posa. 
Biancheggian qua e là ville e capanne 
Tra gli alberi occhieggiando, e qualche ardita 
Guglia di campanile al ciel s'appunta. 
Fuma la terra nericante; luce 
D'argentei fili il fresco aere; tremola 
Un sottile vapor su' cristallini 
Sassi in rìtondi monticelli estrutti 
A ridosso alle siepi, incoronate 
Di caprifoglio; ed or cinerei or bianchi, 
Come al Sol piace e al venticello, ondeggiano 
Lungo i viali i giovinetti olivi. 
Tripudia intanto fra' pomposi tralci 
Col nuovo autunno la vendemmia, ed acri 
Fragranze e canti lascivetti avventa 
Per l'aure ricche di salute: sfilano 
Tra' racemosi pampini, al fragore 
Balzellante dei cembali, rubeste 
Gambe e femori audaci fluttuanti 
Sotto l'incarco delle colme corbe. 
Guarda con desioso occhio il seguace 
Villano, e ambigui allettamenti e prede 
Medita, e chi motteggiando s'adagia 
Con voci aspre rabbuffa, in quel che innanzi 
Il festoso mastin latra e saltella. 
Così fervon le amiche opere; canta 
Al gorgogliar degli sgorganti tini 
L'affaccendata villanella; io sento 
Penetrarmi nel sangue una divina 
Pace, e de' sogni miei penso, e sorrido. 

(Da "Versi", Lombardi, Milano 1888)



Santiago Rusiñol Prats, "Otoñal"

giovedì 22 settembre 2016

Antologie: "Secondo Ottocento" a cura di Luigi Baldacci

In precedenza mi sono già occupato di molte antologie poetiche dedicate all'Ottocento italiano; tra di esse vi era inclusa Poeti minori dell'Ottocento, uscita, per quel che riguarda il primo volume, nel 1958, e curata dall'illustre critico letterario Luigi Baldacci. Lo stesso curatore, ha dato alle stampe un secondo volume intitolato Secondo Ottocento, in cui viene presa in considerazione la letteratura italiana della seconda parte del XIX secolo (1850-1900). In verità, questa non è una vera e propria antologia poetica, visto che vi risultano inclusi testi di critica letteraria e di prosa. L'intento di Baldacci, in questo volume, è quello di porre in risalto tre eminenti scrittori che si misero in luce nella seconda metà dell'Ottocento: Francesco De Santis, Ippolito Nievo e Giosue Carducci; ovvero un critico, un prosatore che fu anche poeta ed un poeta che fu anche critico. La seconda parte del medesimo volume è invece dedicata ai poeti minori dell'Ottocento, che però, come fa notare Baldacci in una nota, subiscono una selezione più severa (da qui le molte mancanze rispetto all'altra antologia) e, quasi sempre, sono presentati e commentati pedissequamente seguendo l'antologia già pubblicata dallo stesso nel 1958. Da notare che il libro qui descritto, pubblicato dall'editore Zanichelli nel 1969, avrebbe dovuto essere seguito almeno da un secondo, probabilmente curato sempre da Baldacci, in modo da completare, nel modo più esauriente possibile, l'analisi sulla letteratura italiana di questo preciso cinquantennio. Fatto sta che l'unico volume uscito è codesto. Chiudo riportando (coerentemente al discorso da me fin qui portato avanti, parlando di antologie poetiche) i nomi dei soli poeti presenti in Secondo Ottocento.


Frontespizio dell'antologia "Secondo Ottocento"



SECONDO OTTOCENTO


Ippolito Nievo, Giosue Carducci, Giambattista Maccari, Giuseppe Maccari, Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Giacomo Zanella, Mario Rapisardi, Olindo Guerrini, Giuseppe Aurelio Costanzo, Emilio Praga, Igino Ugo Tarchetti, Arrigo Boito, Giovanni Camerana, Vincenzo Riccardi di Lantosca, Pompeo Bettini, Enrico Nencioni, Severino Ferrari, Remigio Zena, Contessa Lara, Arturo Graf, Vittoria Aganoor Pompilj, Domenico Gnoli, Adolfo De Bosis.

sabato 17 settembre 2016

La presenza poetica nella prima fase della rivista "Novissima"

La rivista Novissima. Albo d'Arti e Lettere, negli anni che vanno dal 1901 al 1910, ovvero dalla sua nascita alla fine della sua prima fase di pubblicazioni, ha rappresentato uno dei momenti più sublimi per quel che concerne l'arte liberty mondiale. Ciò va riferito esclusivamente alle arti figurative; distinzione obbligatoria, visto che Novissima nacque come rivista artistica a tutto tondo, che includeva, nelle sue eleganti e preziose pagine, oltre a disegni e dipinti, anche prose, poesie e perfino partiture musicali. Quello che m'interessa approfondire in questo post, relativo a questa prestigiosa rivista, è soltanto la presenza della poesia. Edoardo de Fonseca (1867-1936), ideatore e curatore di Novissima, volendo rappresentare il meglio della letteratura italiana, si rivolse anche ad alcuni tra i più noti esponenti della poesia italica di quel preciso periodo, invitandoli a pubblicare versi sulla sua nuova rivista. Vi fu chi rispose positivamente, e infatti, già a partire dai primi anni dalla sua nascita, Novissima presenta poesie di Gabriele D'Annunzio e di Giovanni Pascoli (tanto per fare due nomi illustrissimi). Eppure, se si analizzano complessivamente gli autori e le poesie pubblicate da Novissima in questi dieci anni, certamente si rimane un po' delusi, sia per il valore che per l'importanza dei versi presenti. Anche i due vati della poesia italiana non fecero certo uscire, in anteprima sulla rivista, alcuni tra i loro migliori versi. Se poi si vanno a vedere le firme degli altri poeti italiani qui presenti, si noterà che sono, spesso, nomi allora famosi, con discrete qualità poetiche, ma tutt'altro che giovani. Volendo citarne alcuni, vi figurano: Antonio Cippico, Arturo Colautti, Guglielmo Felice Damiani, Augusto Ferrero, Virgilio La Scola, Giuseppe Lipparini, Giovanni Marradi, Pietro Mastri, Ettore Moschino, Angiolo Silvio Novaro, Enrico Panzacchi, Francesco Pastonchi ecc.
Chiudo questa breve dissertazione, riportando, tratte dalla rivista in questione, tre poesie di tre poeti italiani che a quei tempi non potevano definirsi giovanissimi (avevano superato da un pezzo la trentina), ma che, comunque, rappresentavano le nuove leve: quelle che avrebbero dovuto rinnovare e prolungare il prestigio della poesia nostrana dopo i fasti pascoliani e dannunzaini: promesse di un domani che non divenne mai oggi.





Copertina della rivista "Novissima" del 1903
(da http://www.italianways.com/novissima-dieci-magnifici-anni-di-arte-e-cultura-in-stile-liberty/ )




REFRIGERIO
di Virgilio La Scola

Quando, accesa da l'amore,
Tutta avvolta nel mistero de la sera
Per i campi via trapassi,
La tua traccia candescente
Lambe ed arde gli alti gigli
Che s'apposero ai tuoi passi.

Ma dal fonte dei miei baci,
Sazia, fresca, sonnolenta riedi all'alba...
E al nitore de le stelle
Brilli adorna di rugiada;
Han bagliori le tue sete,
Ha candori la tua pelle;

Desta un canto ogni tuo passo...
A ogni stilla che abbandoni sul cammino,
Da la traccia inaridita,
Uno spento niveo giglio
Esilmente rigermoglia
A la bianca alba infinita.


Refrigerio, del poeta siciliano Virgilio La Scola (Palermo 1869 - ivi 1927), uscì nella rivista Novissima del 1901. In seguito La Scola la inserì nel suo volume La placida fonte, Zanichelli, Bologna 1907, alle pagine 125-126, con lievi varianti (soprattutto di punteggiatura). In questi versi viene descritta una vaga e affascinante figura femminile che molto somiglia ad una dea, la quale, appena giunta la sera, si allontana dal poeta per avviarsi verso campi pieni di gigli che al suo passare vengono arsi dal calore emanato dalla dea accesa da l'amore. Ma ecco che all'alba la donna ricompare in tutt'altra guisa: splendente, rugiadosa, candida... e le gocce di rugiada che fa cadere passando per gli stessi campi cha aveva attraversato la sera precedente, fanno rigermogliare i gigli. Si respira, in questa poesia, un'aria mistica e vi compaiono anche molti elementi misteriosi (relativi ovviamente alla figura femminile descritta) che a mio avviso indicano un celato simbolismo. D'altronde La Scola fu, lungo la sua carriera poetica che si svolse soprattutto nei primi dieci anni del XX secolo, poeta mistico e, in parte, simbolista. 





IL PESCATORE
di Angiolo Silvio Novaro

Quando la Notte nella sua bisaccia
le mani pone, e trae suoi chicchi d'oro
che poi ne' campi su de' cieli caccia,

il pescatore, che non sa ristoro,
si leva, e monta sopra la sua barca
remando, con in mente un suo tesoro,

che gliela faccia nel ritorno carca:
un tesoro lucente a cui la luna
stessa, mirando, le sue ciglia inarca.

Così, sognando quella sua fortuna,
scioglie ei la lenza, e spia se qualche argento
vivo risplenda in grembo all'acqua bruna.


Il pescatore di Angiolo Silvio Novaro (Diano Marina 1866 - Oneglia 1938) fu pubblicata in Novissima nel 1902. Quando, nel 1905, lo scrittore ligure pubblicò presso l'editore Treves di Milano, il suo primo libro di poesie intitolato La casa del Signore, inserì col medesimo titolo i versi qui riportati, seguiti da altri, alle pagine 39-41. La nuova poesia, molto più lunga, è la prima delle tre comprese nella sezione La notte del pescatore dell'amante e del poeta. Nei versi qui riportati si ritrova in pieno la poetica che sempre caratterizzò la carriera artistica di Novaro: romanticismo, semplicità e, se si vuole, un pizzico di ingenuità. Le immagini della Notte che, in forma umana di contadino, semina il cielo di stelle (chicchi d'oro); del pescatore che si sveglia pensando al suo tesoro (argento vivo), ovvero ad una pesca abbondante e, infine, quella della luna che osserva curiosa l'uomo che si avvia al suo lavoro, molto somigliano a tutte le altre immagini che Novaro saprà inventare con rarissima fantasia nella sua opera poetica più famosa, dedicata al pubblico infantile: Il Cestello (Treves, Milano 1910).





L'ALBERO INSONNE
di Pietro Mastri

Un lampione è là, dal vespro all'alba;
che allunga in giro le sue fredde lame,
che infiltra la sua scialba
luce fin dentro dentro al tuo fogliame.

Albero, e tu frattanto
non dormi più. Ben tutta la natura
dorme: tu vegli... Oh quella fiamma accanto!
Com'è la notte, oltre il suo cerchio, oscura!

Fiso ed assorto omai nella molesta
luce è il tuo spirto anelo;
né più vedi ondeggiar sulla tua testa
le trasparenti immense ombre del cielo;

né vedi tremolar lo sparso lume
de le stelle, - sì dolce e mite e pio
lume, onde sgorga nella notte il fiume
tacito dell'oblio.

Ora invano per te lento vapora
il sonno della notte, e più non cade
sulle tue fronde, ancora
trepide al vento e molli di rugiade.

Nessun uccello più - sogno sereno
in cor pacato -, quando l'ombra cala,
vien ora ad annidarsi nel tuo seno
col capo sotto l'ala.

Ma neri obliqui vipistrelli e sciami
di strani insetti, cui la fiamma attira,
svolazzan fra' tuoi rami,
quasi fantasmi intorno a chi delira...

Albero insonne, passan le tue notti
così: torbide e lente.
E quando a giorno ecco che a rosei fiotti
rompe la pura luce d'oriente,

oh, non più la profonda
gioia di risvegliarsi, la divina
gioia di risentire acre e feconda
fluir la vita al sol della mattina!


L'albero insonne di Pietro Mastri (Firenze 1868 - ivi 1932) fu pubblicata sulla rivista Novissima nel 1902. Fu poi inclusa (con alcune modifiche) nel volume poetico di Mastri: Lo specchio e la falce, Treves, Milano 1907, alle pagine 99-103. Questa poesia parla di un albero che, disturbato dalla recente presenza, nei suoi pressi, di un lampione, quando arriva la notte non riesce più ad addormentarsi a causa della potente luce emanata dall'intruso, che ha un'intensità tale da penetrare anche attraverso il fogliame del vegetale. E allora, il povero albero è costretto a vegliare per tutte le ore notturne, infastidito anche dalla presenza di pipistrelli e insetti; quando poi giunge l'alba e quindi il mattino, troppo logorato dalla veglia notturna, non ritrova più la gioia di svegliarsi e di godersi il sole della nuova giornata. Molto probabilmente, Mastri, in questi versi volle esporre la sua critica nei confronti della modernità: mentre i poeti futuristi si apprestavano a celebrare il progresso tecnologico ed industriale creando versi che inneggiavano alle macchine, all'elettricità, alle fabbriche e perfino ai lampioni (si leggano le poesie di Luciano Folgore: Fiamma a gas e di Paolo Buzzi: Primi lampioni), il poeta toscano va in tutt'altra direzione, affermando poeticamente come possa essere deleterio l'uso di certi oggetti "moderni" per l'equilibrio naturale della terra: l'albero che soffre a causa del lampione non è altro che la natura agonizzante a causa dell'inquinamento. Si può quindi dire che Mastri abbia avuto la precisa percezione di ciò che, di lì ad alcuni anni, sarebbe accaduto a causa del poco rispetto dell'uomo nei confronti della natura e degli altri esseri viventi presenti sul pianeta.