sabato 17 settembre 2016

La presenza poetica nella prima fase della rivista "Novissima"

La rivista Novissima. Albo d'Arti e Lettere, negli anni che vanno dal 1901 al 1910, ovvero dalla sua nascita alla fine della sua prima fase di pubblicazioni, ha rappresentato uno dei momenti più sublimi per quel che concerne l'arte liberty mondiale. Ciò va riferito esclusivamente alle arti figurative; distinzione obbligatoria, visto che Novissima nacque come rivista artistica a tutto tondo, che includeva, nelle sue eleganti e preziose pagine, oltre a disegni e dipinti, anche prose, poesie e perfino partiture musicali. Quello che m'interessa approfondire in questo post, relativo a questa prestigiosa rivista, è soltanto la presenza della poesia. Edoardo de Fonseca (1867-1936), ideatore e curatore di Novissima, volendo rappresentare il meglio della letteratura italiana, si rivolse anche ad alcuni tra i più noti esponenti della poesia italica di quel preciso periodo, invitandoli a pubblicare versi sulla sua nuova rivista. Vi fu chi rispose positivamente, e infatti, già a partire dai primi anni dalla sua nascita, Novissima presenta poesie di Gabriele D'Annunzio e di Giovanni Pascoli (tanto per fare due nomi illustrissimi). Eppure, se si analizzano complessivamente gli autori e le poesie pubblicate da Novissima in questi dieci anni, certamente si rimane un po' delusi, sia per il valore che per l'importanza dei versi presenti. Anche i due vati della poesia italiana non fecero certo uscire, in anteprima sulla rivista, alcuni tra i loro migliori versi. Se poi si vanno a vedere le firme degli altri poeti italiani qui presenti, si noterà che sono, spesso, nomi allora famosi, con discrete qualità poetiche, ma tutt'altro che giovani. Volendo citarne alcuni, vi figurano: Antonio Cippico, Arturo Colautti, Guglielmo Felice Damiani, Augusto Ferrero, Virgilio La Scola, Giuseppe Lipparini, Giovanni Marradi, Pietro Mastri, Ettore Moschino, Angiolo Silvio Novaro, Enrico Panzacchi, Francesco Pastonchi ecc.
Chiudo questa breve dissertazione, riportando, tratte dalla rivista in questione, tre poesie di tre poeti italiani che a quei tempi non potevano definirsi giovanissimi (avevano superato da un pezzo la trentina), ma che, comunque, rappresentavano le nuove leve: quelle che avrebbero dovuto rinnovare e prolungare il prestigio della poesia nostrana dopo i fasti pascoliani e dannunzaini: promesse di un domani che non divenne mai oggi.





Copertina della rivista "Novissima" del 1903
(da http://www.italianways.com/novissima-dieci-magnifici-anni-di-arte-e-cultura-in-stile-liberty/ )




REFRIGERIO
di Virgilio La Scola

Quando, accesa da l'amore,
Tutta avvolta nel mistero de la sera
Per i campi via trapassi,
La tua traccia candescente
Lambe ed arde gli alti gigli
Che s'apposero ai tuoi passi.

Ma dal fonte dei miei baci,
Sazia, fresca, sonnolenta riedi all'alba...
E al nitore de le stelle
Brilli adorna di rugiada;
Han bagliori le tue sete,
Ha candori la tua pelle;

Desta un canto ogni tuo passo...
A ogni stilla che abbandoni sul cammino,
Da la traccia inaridita,
Uno spento niveo giglio
Esilmente rigermoglia
A la bianca alba infinita.


Refrigerio, del poeta siciliano Virgilio La Scola (Palermo 1869 - ivi 1927), uscì nella rivista Novissima del 1901. In seguito La Scola la inserì nel suo volume La placida fonte, Zanichelli, Bologna 1907, alle pagine 125-126, con lievi varianti (soprattutto di punteggiatura). In questi versi viene descritta una vaga e affascinante figura femminile che molto somiglia ad una dea, la quale, appena giunta la sera, si allontana dal poeta per avviarsi verso campi pieni di gigli che al suo passare vengono arsi dal calore emanato dalla dea accesa da l'amore. Ma ecco che all'alba la donna ricompare in tutt'altra guisa: splendente, rugiadosa, candida... e le gocce di rugiada che fa cadere passando per gli stessi campi cha aveva attraversato la sera precedente, fanno rigermogliare i gigli. Si respira, in questa poesia, un'aria mistica e vi compaiono anche molti elementi misteriosi (relativi ovviamente alla figura femminile descritta) che a mio avviso indicano un celato simbolismo. D'altronde La Scola fu, lungo la sua carriera poetica che si svolse soprattutto nei primi dieci anni del XX secolo, poeta mistico e, in parte, simbolista. 





IL PESCATORE
di Angiolo Silvio Novaro

Quando la Notte nella sua bisaccia
le mani pone, e trae suoi chicchi d'oro
che poi ne' campi su de' cieli caccia,

il pescatore, che non sa ristoro,
si leva, e monta sopra la sua barca
remando, con in mente un suo tesoro,

che gliela faccia nel ritorno carca:
un tesoro lucente a cui la luna
stessa, mirando, le sue ciglia inarca.

Così, sognando quella sua fortuna,
scioglie ei la lenza, e spia se qualche argento
vivo risplenda in grembo all'acqua bruna.


Il pescatore di Angiolo Silvio Novaro (Diano Marina 1866 - Oneglia 1938) fu pubblicata in Novissima nel 1902. Quando, nel 1905, lo scrittore ligure pubblicò presso l'editore Treves di Milano, il suo primo libro di poesie intitolato La casa del Signore, inserì col medesimo titolo i versi qui riportati, seguiti da altri, alle pagine 39-41. La nuova poesia, molto più lunga, è la prima delle tre comprese nella sezione La notte del pescatore dell'amante e del poeta. Nei versi qui riportati si ritrova in pieno la poetica che sempre caratterizzò la carriera artistica di Novaro: romanticismo, semplicità e, se si vuole, un pizzico di ingenuità. Le immagini della Notte che, in forma umana di contadino, semina il cielo di stelle (chicchi d'oro); del pescatore che si sveglia pensando al suo tesoro (argento vivo), ovvero ad una pesca abbondante e, infine, quella della luna che osserva curiosa l'uomo che si avvia al suo lavoro, molto somigliano a tutte le altre immagini che Novaro saprà inventare con rarissima fantasia nella sua opera poetica più famosa, dedicata al pubblico infantile: Il Cestello (Treves, Milano 1910).





L'ALBERO INSONNE
di Pietro Mastri

Un lampione è là, dal vespro all'alba;
che allunga in giro le sue fredde lame,
che infiltra la sua scialba
luce fin dentro dentro al tuo fogliame.

Albero, e tu frattanto
non dormi più. Ben tutta la natura
dorme: tu vegli... Oh quella fiamma accanto!
Com'è la notte, oltre il suo cerchio, oscura!

Fiso ed assorto omai nella molesta
luce è il tuo spirto anelo;
né più vedi ondeggiar sulla tua testa
le trasparenti immense ombre del cielo;

né vedi tremolar lo sparso lume
de le stelle, - sì dolce e mite e pio
lume, onde sgorga nella notte il fiume
tacito dell'oblio.

Ora invano per te lento vapora
il sonno della notte, e più non cade
sulle tue fronde, ancora
trepide al vento e molli di rugiade.

Nessun uccello più - sogno sereno
in cor pacato -, quando l'ombra cala,
vien ora ad annidarsi nel tuo seno
col capo sotto l'ala.

Ma neri obliqui vipistrelli e sciami
di strani insetti, cui la fiamma attira,
svolazzan fra' tuoi rami,
quasi fantasmi intorno a chi delira...

Albero insonne, passan le tue notti
così: torbide e lente.
E quando a giorno ecco che a rosei fiotti
rompe la pura luce d'oriente,

oh, non più la profonda
gioia di risvegliarsi, la divina
gioia di risentire acre e feconda
fluir la vita al sol della mattina!


L'albero insonne di Pietro Mastri (Firenze 1868 - ivi 1932) fu pubblicata sulla rivista Novissima nel 1902. Fu poi inclusa (con alcune modifiche) nel volume poetico di Mastri: Lo specchio e la falce, Treves, Milano 1907, alle pagine 99-103. Questa poesia parla di un albero che, disturbato dalla recente presenza, nei suoi pressi, di un lampione, quando arriva la notte non riesce più ad addormentarsi a causa della potente luce emanata dall'intruso, che ha un'intensità tale da penetrare anche attraverso il fogliame del vegetale. E allora, il povero albero è costretto a vegliare per tutte le ore notturne, infastidito anche dalla presenza di pipistrelli e insetti; quando poi giunge l'alba e quindi il mattino, troppo logorato dalla veglia notturna, non ritrova più la gioia di svegliarsi e di godersi il sole della nuova giornata. Molto probabilmente, Mastri, in questi versi volle esporre la sua critica nei confronti della modernità: mentre i poeti futuristi si apprestavano a celebrare il progresso tecnologico ed industriale creando versi che inneggiavano alle macchine, all'elettricità, alle fabbriche e perfino ai lampioni (si leggano le poesie di Luciano Folgore: Fiamma a gas e di Paolo Buzzi: Primi lampioni), il poeta toscano va in tutt'altra direzione, affermando poeticamente come possa essere deleterio l'uso di certi oggetti "moderni" per l'equilibrio naturale della terra: l'albero che soffre a causa del lampione non è altro che la natura agonizzante a causa dell'inquinamento. Si può quindi dire che Mastri abbia avuto la precisa percezione di ciò che, di lì ad alcuni anni, sarebbe accaduto a causa del poco rispetto dell'uomo nei confronti della natura e degli altri esseri viventi presenti sul pianeta.

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