domenica 20 marzo 2016

Il futuro nella poesia italiana decadente e simbolista

Vi sono disparate e fantasiose interpretazioni del futuro: c'è chi (Chiaves e Marrone) s'immagina il post mortem e vede la propria anima che spia i beffardi e cinici comportamenti dei vivi, oppure immagina mondi paradisiaci dove vivere una seconda, più tranquilla esistenza. Graf vede la Terra ormai spopolata da qualsivoglia forma vitale; Ruberti si vede già vecchio e rassegnato, cercare di cogliere il buono della vita anche nella tarda età. La poesia della Giaconi è, in sostanza, un'esortazione a vedere ottimisticamente il futuro, mentre la Aganoor esprime un desiderio, o meglio una preghiera, perché cessi il gelo (interiore?) e giunga finalmente la bella stagione. Decisamente pessimiste sono le poesie di Camerana e di Cena; misteriosa e inquietante quella di Donati Pétteni, il quale descrive i terribili presentimenti di un bambino che riesce a percepire il futuro.   



Poesie sull'argomento

Vittoria Aganoor: "Fantasia" in "Leggenda eterna" (1900).
Giovanni Camerana: "E tu salivi la campagna bionda" in "Poesie" (1968).
Giovanni Cena: "Dopo il festino" in "Homo" (1907).
Carlo Chiaves: "Pessimismo" in "Sogno e ironia" (1910).
Gabriele D'Annunzio: "Innanzi l'alba" in "Alcyone" (1904).
Federico De Maria: "C'è qualche cosa..." in "La Ritornata" (1932).
Giuliano Donati Pétteni: "Presentimenti" in "Intimità" (1926).
Luisa Giaconi: "Il domani" in "Tebaide" (1909).
Arturo Graf: "È morta la vita" in "Medusa" (1890).
Giuseppe Lipparini: "L'inconsapevole" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Tito Marrone: "Ancora" in "Liriche" (1904).
Nino Oxilia: "Aspettando una donna" in "Gli orti" (1918).
Guido Ruberti: "L'ultimo sogno" in "Le fiaccole" (1905).



Testi

E TU SALIVI LA CAMPAGNA BIONDA
di Giovanni Camerana

E tu salivi la campagna bionda
E sulle labbra ti fioriva il canto,
Ma ti attendeva la vallea profonda,
La vallea dei fantasmi e l’ombra e il pianto...

(Da "Versi", 1907)




PESSIMISMO
di Carlo Chiaves

Vorrei provar la dolcezza
di morire, ma per un giorno,
di andarmene con la certezza
di fare pronto ritorno.

Per ascoltare, dal fondo,
pur di una cassa, una volta,
pensare e discorrere il mondo
ignaro di quegli che ascolta.

Come fino a questo momento,
sono stato un ragazzo di cuore,
avrei un accompagnamento
degno di un grande signore.

E come i fiori mi piacciono
e l'ho già detto, son certo
che ne sarebbe il mio feretro
addirittura coperto.

Dal fondo del mio segreto
non senza una qualche apprensione,
starei, attento e inquieto,
a udir la conversazione.

Verrebbero a passi uguali,
con viso di circostanza,
per dir le cose banali,
degli uomini d'importanza:

- È morto! - Già, è morto! - Si tace,
si pensa un qualche minuto.
- È morto! riposi in pace! -
Avrei, non vi pare? creduto

che in questa vita terrena
avrebbe fatto di più -
Vi accerto, ho provato gran pena...
Diamine, gli davo del tu! -

Però non sarebbero certo
tutti i discorsi così,
da uomo vissuto, esperto,
ne ho uditi tanti fin qui!

- Che bella giornata! - Peccato! -
Che strano contrasto! Ier sera
faceva caldo! - Beato!
È morto di Primavera -

Chi è quella donna? - Non vedo!
Ah! quella dal velo nero?
Carina! Possibile? - Credo!
- Che fosse tanto leggero?

- Mah! povero diavolo! - Oh! spesso
è meglio ancora: ed intanto
quando si ha molto promesso,
si lascia molto rimpianto -

- Aveva un certo carattere -
- Ha fatto qualche buon verso -
- Ingegno? No! un po' di spirito,
ma... spirito da tempo perso! -

Dal fondo del mio segreto,
non senza una qualche apprensione,
starei attento e inquieto
a udir la conversazione.

Ma certo sarebbe un po' amaro,
dal fondo de la mia bara,
sentire l'amico più caro
dire a l'amica più cara:

- Non piangere! riposa in pace,
sta meglio! Faremo la festa
stanotte, se non ti dispiace:
è andato, evviva chi resta!

Non te ne sei mai accorta,
che odio la finzione?
ormai passerò da la porta
invece che dal tuo balcone! -

Oh! meglio ancora qualche anno
vivere, tranquillo ed ignaro,
cullandosi nel placido inganno
che ognuno vi parli ben chiaro.

Persuasi che l'amante sicura,
non sogni più fulgidi eroi,
quando vi abbraccia e vi giura
di vivere soltanto per voi.

E, se un bel giorno bisogni
troncare ogni desiderio,
dormire, ma senza sogni,
oh! meglio dormire sul serio.

Con freddo il cuor di ogni palpito,
e di ogni lume il pensiero,
ed obliare e confondere tutto:
i fantasmi e il vero!

(Da "Sogno e ironia", 1910)




John Charles Dollman, "The Unknown"

lunedì 14 marzo 2016

Poeti dimenticati: Silvio Pagani

Nacque a Milano nel 1867. Amico di Gian Pietro Lucini, partecipò al cenacolo poetico formatosi nel capoluogo lombardo durante l'ultimo decennio del XIX secolo, che precorreva in Italia la pratica della poesia simbolista. Scrisse alcune azioni drammatiche, un romanzo e dei racconti.



Opere poetiche

"Lo specchio della dolorosa esistenza" (azione drammatica), Galli di C. Chiesa e F. Guindani, Milano 1895.
"Selve pagane" (azione drammatica), Galli, Milano 1897.
"L'anacoreta" (scherzo drammatico), Stab. Tip. Carlo Aliprandi Edit., Milano 1899.
"Asht'Avakragita, o Il canto di Asht'Avakra" (poemetto indiano), Sonzogno, Milano 1903.
"Aping il savio" (dramma allegorico), Pallestrini, Milano 1907.
"Leonardo da Vinci e Faust" (quadro scenico in versi), Casa ed. del "Pensiero Latino", Milano 1907.



Testi

A RICCARDO WAGNER

Vengono a l'alba, poi che il Re li chiama
da le selve col suon lungo del corno,
vengon gli eroi che per Wagner han fama;
salgono il monte a lo spuntar del giorno.
Così Luigi ogni anno li richiama:
Al Tegel fan gli spiriti ritorno:
ivi s'adunano in solenne ammanto
il sommo Vate a celebrar col canto.

Nell'ampia valle al chiaro sol nascente
splendono i laghi, e da l'eccelsa fonte
balza sfumando e brilla ogni torrente
giù pei declivi rapidi del monte.
Qui dove s'apre il fresco dì lucente
vien Parsifàl, che il nuovo raggio ha in fronte,
viene Tristan col fido Kurvenaldo, 
e Sigfried, che l'amor fe' ardito e baldo.

Tannhauser vien, che una devota e pia
prece ha sul labbro e tanto ardor nel seno:
ei passa e fa con dolce melodia
di novo incanto il bosco e l'aer pieno:
mistiche voci su l'alpestre via
scendono a lui dal ciel puro e sereno,
e già l'attende su l'aperta vetta
tra serafici cori Elisabetta.

E silenzioso e cupo, in bruna vesta,
vien l'Olandese, il pallido nocchiero.
Folgori e tuoni e nembi e ria tempesta
eternamente sogna il suo pensiero:
sibila il vento sovra la sua testa,
e, ancor che azzurro, è il cielo orrido e nero:
pace non sa, l'amor cerca e sospira,
l'amor che solo placherà quest'ira.

Ma da l'estremo ciel dov'è serena
più l'aria e più del suo splendor s'avviva,
in vaga conca che un bel cigno mena
vien Lohengrin con fronte alta e giuliva.
Ei canta e s'ode da lontano appena
la voce sua ch'amor scalda e ravviva:
taccion le selve a l'inusato incanto;
lento su l'aria ei s'avvicina intanto.

Candido e lieve il cigno innanzi viene,
dietro si trae la navicella, lento,
e dove passa alto silenzio tiene
il bosco, il monte, il prato e cade il vento,
si schiara il ciel, si fan l'aure serene,
piove letizia e celestial contento:
vengono intorno al biondo cavaliero
stupore, ardor, pietà, pace e mistero.

Lorica e scudo ei lbell'elmo d'argento
tutto risplende più che diamante:
ritto egli sta con nobil portamento,
certo ripensa in cor l'incauta amante,
il casto bacio, il rio tradimento
e la fiorita spiaggia del Barbante,
dove al popol raccolto e ai cavalieri
palesi fe' del Graal gli alti misteri.

Per vie diverse, con diversa fronte
all'erta rupe ognun così s'appressa,
e poi che tutti omai li accoglie il monte
ogni rumor, ogni bisbiglio cessa:
levasi un nembo allor da l'orizzonte
e a l'occhio uman la cima fa inaccessa,
ché in vel di nebbie denso e di vapori
gli alti culmini avvolge ed i cantori.

Or sulle vette ondeggia il nembo e sibili
fan cavalcando ed urli, per le cime,
sfrenate le Walkirie, in tra gli orribili
tuoni levando al ciel l'inno sublime.
Treman le roccie; l'aria di terribili
fuochi s'accende e tutto intorno opprime,
tutto sconvolge turbinosa e nera,
sui gioghi solitarii la bufera.

Allor dal cielo un vivo raggio scende
e fra le rotte nubi il monte attinge.
Ogni cimier, ogni corazza splende;
del lume suo divin tutto si tinge.
Comincia un coro allor di sì stupende
note che l'alma in pio fervor costringe:
cantan gli eroi, solenne vola il canto
alto per l'aria e del Poeta il vanto.

(Dalla rivista «Cronaca d'arte», novembre 1891)

Poeti dimenticati: Tullio Ortolani

Nacque nel 1869, fu prosatore, poeta e critico letterario. Collaborò a varie riviste tra cui il "Marzocco". Le sue opere in versi mostrano uno stile decisamente ottocentesco e classicista, più raramente si riscontrano suggestioni decadenti.



Opere poetiche

"Vox in deserto", Tip. Castaldi, Feltre 1895.
"Canti della bontà", Tip. dell'Umbria, Spoleto 1897.
"in solitudine", Tip. Mancini, Macerata 1899.

Frontespizio del volume poetico di Tullio Ortolani: "Vox in deserto", Premiata Tipografia Castaldi, Feltre 1895



Testi

DOLCEZZA

Venga l'universal dolcezza ai cuori,
ché troppo il male strinse ormai la mano,
troppo sofferse l'Anima dolori!

Né più fiorisca primavera in vano,
né l'autunno maturi in vano i frutti,
ma il bene sia vicino e sia lontano.

L'Anima si dimentichi de' lutti
ch'ella, ch'ella medesima construsse.
Scenda l'universal dolcezza in tutti.

Chi al pianto disperato ci condusse?
chi la bocca fraterna alle parole
tristi dell'odio e del livore indusse?

S'aprano le dolenti celle al sole,
anche il delitto la dolcezza tocchi.
Sappiamo ciò che in fondo ai cuori duole?

Sappiamo ciò che brucia in fondo agli occhi?
Noi vedremo dall'alte ferriate
volgersi alcuno, flettere i ginocchi.

Vedremo dalle case scellerate
per la vergogna donne in pianto uscire.
O buoni, perdonate, perdonate:

l'ultimo pianto passa sovra l'ire!
Sia la dolcezza farmaco divino,
ella sia che le mani faccia aprire

del ricco a carità sul peregrino;
ella sia che lenisca ogni altro male,
e sia il bene lontano e sia il vicino.

Ella sia, la dolcezza universale.

(Dalla rivista «Il Marzocco», luglio 1896)

lunedì 15 febbraio 2016

Il fuoco nella poesia italiana decadente e simbolista

In molti casi il fuoco si esplicita tramite un rogo che sempre ha il compito di distruggere cose, pensieri, illusioni e persino gli autori dei versi, i quali tramite il fuoco che tutto brucia intendono liberarsi di ciò che li fa soffrire, fosse anche la loro esistenza. In altri casi il fuoco ha una funzione magica (ad esempio nella poesia di Betti) e serve ad evidenziare una pulsione (probabilmente sessuale) o, comunque, una forte passione. Altrove (Giorgieri Contri) il fuoco del tramonto fa rinascere le "vampe" di un amore morto; Arturo Graf vede nei fuochi fatui dei cimiteri la propria anima che precocemente si spegne nell'infinità. Esistono infine casi di descrizioni di luoghi fantastici dove il fuoco (custodito, invadente, onnipresente) può rappresentare vari, misteriosi simboli.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Pomeriggio di decembre ai Monti Parioli" in "La città di Vita" (1896).
Alfredo Baccelli: "Il rogo" e "Ultime veglie" in "Fiamme e tenebre" (1910).
Ugo Betti: "Il fuoco" in "Il Re pensieroso" (1922).
Giovanni Camerana: "Il rogo" in "Poesie" (1968).
Carlo Chiaves: "Distruzione inutile" in "Sogno e ironia" (1910).
Guelfo Civinini, "La vana lotta", in "L'urna" (1900).
Lionello Fiumi: "Fiamma di candela" in "Polline" (1914).
Aldo Fumagalli: "Per rinascere" in "Arcate" (1913).
Cosimo Giorgieri Contri: "Foco non spento" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).
Arturo Graf: "Fuochi fatui" in "Morgana" (1901).
Arturo Graf: "Alla fiamma" in "Le Rime della Selva" (1906).
Remo Mannoni: "Il rogo" in «Il Trionfo d'Amore», maggio 1903.
Nicola Marchese: "Ballata della notte, 5" in "Le Liriche" (1911).
Marino Marin: "I genii nei silenti penetrali" in "Sonetti secolari" (1896).
Arturo Onofri: "Potenze d'aria crollano..." in "Terrestrità del sole" (1927).
Nino Oxilia: "Fuoco superbo che dall'ombra enorme" in "Canti brevi" (1909).
Aldo Palazzeschi: "Palazzo Mirena" in "Lanterna" (1907).
Giuseppe Zucca: "Le fiaccole" in "Io" (1921).



Testi

POMERIGGIO DI DECEMBRE AI MONTI PARIOLI
di Diego Angeli

Dentro la selva brilla ancora un fuoco.

Bacche vermiglie stanno in cima ai rami
degli agrifogli sul colle selvoso;
i tordi dentro i lecci hanno richiami,
nel plumbeo tramonto accidioso.
Ondeggia un bianco fumo tortuoso
da un focolare ove non è più fuoco.

Chi accese mai quel rogo moribondo?
Forse quelli che vennero a tagliare
gli agrifogli che debbono il giocondo
albero di Natale inghirlandare?
L'albero luminoso nelle chiare
stanze allietate da un immenso fuoco.

L'ultime luci e l'ultimo bagliore
del triste focolare semispento:
s'agita a poco a poco nel mio cuore
il bel sogno infantile di un momento.
Stasera ascolterò gemere il vento
leggendo un vecchio libro a canto al fuoco.


(Da "La città di vita")



Arnold Böcklin, "Heiliger Hain"

venerdì 29 gennaio 2016

Le fontane nella poesia italiana decadente e simbolista

Le fontane nella quasi totalità dei casi simboleggiano la vita nelle sue più importanti espressioni: fecondità, giovinezza, rinnovamento. I versi di tantissimi poeti orbitanti intorno alla corrente simbolista-decadente-crepuscolare si popolarono di fonti, fontanelle e fontane, delle volte anche in modo parodico (si legga ad esempio "La fontana malata" di Aldo Palazzeschi); in queste composizioni, assai spesso, le fontane si trovano in giardini o parchi pieni di muffe, foglie morte ed erbe infestanti, e sono disseccate; il significato di questo contesto, ovviamente, riflette uno stato di profondo malessere e di un'accentuata depressione malinconica: i poeti mostrano in questo modo di non aver più alcuno slancio vitale e di essere immersi in una desolante tristezza senza via d'uscita.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "A una fonte" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Umberto Bottone: "A una fontana" in "Lumi d'argento" (1906).
Giuliano Donati Pétteni: "Similitudine" in "Intimità" (1926).
Alfredo Galletti: "Fonte montana" in "Odi ed elegie" (1903).
Corrado Govoni: "La fontana" in "Le Fiale" (1903).
Arturo Graf: "La fontana di gioventù" in "Medusa" (1990).
Arturo Graf: "Picciola fonte" in "Morgana" (1901).
Arturo Graf: "Fonte romantico" in "Le Danaidi" (1905).
Giuseppe Lipparini: "Sonetto alla ottava" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "Di «Una Fontana»" in "Le Antitesi e le Perversità" (1971).
Pietro Mastri: "Le acacie della fonte" in "L'arcobaleno" (1900).
Arturo Onofri: "Le fontane" in "Poemi tragici" (1908).
Angiolo Orvieto: "La fonte" in "La primavera della cornamusa" (1925).
Aldo Palazzeschi: "La fonte del bene" in "I cavalli bianchi" (1905).
Guido Vitali: "Fontana solitaria" in "Voci di cose e d'uomini" (1906).



Testi

A UNA FONTE
di Diego Angeli

Fontana muta nel misterioso
bosco di questa gran villa che appare
chiusa nell'imminente albor lunare
come la viva immagin del riposo.

Tu vedesti il suo bel volto pensoso
su te piegarsi in atto di ascoltare
se mai dal fondo di tue linfe chiare
giungesse l'eco d'un singulto ascoso.

Non mai credo Aretusa un più profondo
dolore espresse, allor che tra la verde
erba svanì del dolce amante in traccia!

Ma io chino su te, cerco nel fondo
bacino ove l'opaca ombra si perde
se ancor vi arrida la sua bianca faccia.

(Da "L'Oratorio d'Amore", 1904)





A UNA FONTANA
di Umberto Bottone (Auro d'Alba)

Sempre la stessa, eterna litania,
sempre le gemme d'auro e d'argento
rutilanti una vecchia melodia.

O fontana di perla, o incantamento
di linfe piorne di tra bianche spume
ne l'alveo dolcemente sonnolento.

Nel mio piccolo cuor piange ogni lume
di vita, io vado sotto la carezza
del ciel: mi porta non so più qual fiume...

Fontanella di rose, o tenerezza
notturna, che il mio cuore imparadisa,
che non si muore, dimmi, di tristezza?

Oh, morir fra le tue perlucce, in guisa
d'esser baciato da le cristalline
onde che in cielo ogni diamante fisa!

Morire fra le braccia de le ondine
voluttuosamente, in una sera
di maggio, fra ghirlande turchesine,

e sognare una morta primavera;
gloria d'un cielo che ora invano agogno,
al lume incerto di pallente cera:
nato pel sogno, morto per il sogno!


(Da "Lumi d'argento", 1906)


Arnold Böcklin, "Nymph by the fountain"

lunedì 26 ottobre 2015

Le foglie nella poesia italiana decadente e simbolista

Le foglie, quasi sempre caduche, cadute, gialle e morte rappresentano la precarietà dell'esistenza; in questo senso fece scuola una poesia di Paul Verlaine: "Chanson d'automne", nei versi: «Et je m'en vais / au vent mauvais / qui m'emporte / deçà, delà / pareil à la / feuille morte». Fu quindi Giuseppe Ungaretti, nei versi di guerra de "Il porto sepolto", che, per indicare in modo netto la situazione incerta dei soldati sul fronte scrisse: «Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie». Pochissime sono le eccezioni, una di esse è "Mormorio di foglie" di Paolo Buzzi: qui le foglie degli alberi, smosse dal vento, producono un rumore piacevole, simile ad uno strumento musicale capace di creare un'armonia paradisiaca, fuori dal tempo; sono perciò simbolo dell'ultraterreno. Altra eccezione è quella della poesia di Giuseppe Altomonte: "Sono povere foglie", in cui il poeta paragona i suoi versi alle foglie cadute, seguendo un discorso, pienamente crepuscolare, di smitizzazione della poesia. 




Poesie sull'argomento

Giuseppe Altomonte: "Le foglie" in «Marforio», dicembre 1903.
Giuseppe Altomonte: "Sono povere foglie!" in "Canzoniere minuscolo" (1906).
Diego Angeli: "Orto botanico" in "La città di Vita" (1896).
Paolo Buzzi: "Mormorio di foglie" in "Aeroplani" (1909).
Ugo Fiore: "Foglie erranti" in «La Settimana», novembre 1903.
Aldo Fumagalli: "I nove tocchi" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio: "Una foglia si stacca..." in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Ugo Ghiron: "Foglie" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Emilio Girardini: "Foglia secca" in "Liriche varie" (1908).
Alessandro Giribaldi: "Messaggio doloroso" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Domenico Gnoli: "Nel viale" in "Jacovella", Treves, Milano 1905.
Arturo Graf: "Ultime foglie" in "Morgana" (1901).
Achille Leto: "Foglie d'autunno" in "Piccole ali" (1914).
Mattia Limoncelli: "Torpore" in "Faro senza luce", Treves, Milano 1922.
Giuseppe Lipparini: "Le foglie" in "I canti di Mèlitta", Puccini, Ancona 1910.
Nicola Marchese: "Ballata d'autunno, 4" e "Ballata grigia" in "Le Liriche" (1911).
Marino Moretti: "Hortus incultus" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Domenico Oliva: "La musica sonora" in "Il ritorno", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1895.
Giovanni Pascoli: "Foglie morte" in "Canti di Castelvecchio" (1903).
Francesco Pastonchi: "Ballo a Villa d'Este" in "I versetti" (1930).
Francesco ed Emilio Scaglione: "Cadon le foglie..." in "Limen" (1910).
Luigi Siciliani: "Come foglie" in "Modes", Roma 1906.
Diego Valeri: "Foglie, giù foglie!..." in "Umana" (1916).
Mario Venditti, "La raffica" in "Il terzetto" (1911).
Guido Vitali: "Ultime foglie" in "Voci di cose e d'uomini" (1906).




Testi

I NOVE TOCCHI
di Aldo Fumagalli

Lugubri nella notte... nel silenzio
Cadon le foglie su le vecchie foglie
Senza rumore, e il vento non bisbiglia
Una voce fra i rami di betulla.
Cadon lenti da l'alto i nove tocchi,
Lenti e lugubri ad annunciar la Morte.
Cadon le foglie, cadon le vite
Ne l'abisso infinito e sconosciuto.
Taccion i boschi come riverenti
Al passare de l'anime, al dolore
Che sale da le spoglie inanimate!

(Da "Arcate")




FOGLIA SECCA
di Emilio Girardini

Spinta a vortici dal vento,
che a novembre i tralci spoglia,
con un esile lamento
mi perseguita una foglia.

Se talora anco s'arretra,
nuova raffica mi porta
sul cammin la vista tetra
de la foglia arida e morta;

de la foglia che m'insegue
e mi crepita alle spalle
mano a mano, a brevi tregue,
pel sentier che mena a valle.

Sotto grigia aria di neve
e tra strida aspre di corvi,
mentre l'ora da la pieve
batte e ascende i cieli torvi,

va la foglia, mi spaura,
mi rincorre su la traccia
ed un gel di sepoltura,
tutto brividi, mi agghiaccia.


(Da "Liriche varie")



Lucien Levy Dhurmer, "The gust of wind"

giovedì 15 ottobre 2015

I fiumi nella poesia italiana decadente e simbolista

Avevo già dedicato un post alle "acque correnti", in cui, oltre a specificare che, col loro movimento continuo, esse simboleggiavano una situazione in divenire, elencavo una serie di poesie dedicate a ruscelli, canali, torrenti e cascate. Per i fiumi è giusto fare un discorso a parte perché, pur essendo anch'essi corsi d'acqua, la loro mole è incomparabile; quindi, nei versi dei poeti simbolisti e decadenti, possono rappresentare anche qualcosa di differente rispetto agli altri. Per esempio, leggendo alcune poesie, si nota l'importanza della sacralità di alcuni fiumi (il Gange e il Giordano per esempio, o, nell'ambito del fantastico, l'Acheronte) che indirizza il tutto verso un discorso prettamente mistico, attinente alla purificazione, soprattutto se qualcuno si bagna nelle acque di un fiume ritenuto sacro. Al contrario, seppure in rari casi, il fiume può divenire una specie di cloaca, che raccoglie tutta una serie di negatività cittadine; è questo il caso di "Contro il Tevere" di Auro d'Alba, in cui il poeta, dopo aver elencato tutte le nefandezze che si scaricano sulle acque del fiume, si scaglia in modo netto contro il Tevere, dichiarando tutto il suo livore in codesti versi: «T'odio, maestro di necrofilia! / per il fascino vischioso della tua melma / gialla - / per il fetore di stalla / che da' tuoi gorghi sale: / - odor di funerale acre basilicale / bava bava bava - / per il grido convulso di chi ti bevve / sino a vuotarsi l'anima» [...] Il fiume inoltre, proprio perché trascina con sé una enorme quantità d'acqua, spesso ha attinenza con la vita, che scorre in modo continuo, fino a giungere alla foce (ovvero la morte).  



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "Il tedio sul fiume" e "Il fiume della tristezza" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Diego Angeli: "Il bagno" e "Verso la foce" in "La città di Vita" (1896).
Antonino Anile: "Il vecchio" in "Poesie" (1921).
Gustavo Brigante-Colonna: "Il fiume" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).
Giovanni Camerana: "Augustal Reno, vasto e lento Reno" in "Poesie" (1968).
Giovanni Cena: "Il gorgo" in "Homo" (1907).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Il fiume" in "I canti di Pan" (1920).
Sergio Corazzini: "Ballata del fiume e delle stelle" in "L'amaro calice" (1905).
Auro D'Alba: "Contro il Tevere" in "Baionette" (1915).
Gabriele D'Annunzio: "La visione" in "Poema paradisiaco" (1893).
Guido Da Verona: "Poesia" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).
Luigi Fallacara: "Nel fiume di vita" in "Illuminazioni" (1925).
Diego Garoglio: "Il fiume eterno" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Corrado Govoni: "Crepuscolo sul Tevere" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni "I fiumi e il mare" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "O sacro Gange" e "L'iride" in "Le Danaidi" (1905).
Gian Pietro Lucini: "Ancora il fiume" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).
Gian Pietro Lucini: "Barcarola sul Reno" in "Le antitesi e le perversità" (1970).
Remo Mannoni: "Notte sul Tevere" in "Rime dell'Urbe e del Suburbio" (1907).
Marino Marin: "Da tutte parti traggono..." in "Sonetti secolari" (1896).
Tito Marrone: "Acheronte" in "Liriche" (1904).
Arturo Onofri: "Il fiume" in "Poemi tragici" (1908).
Angiolo Orvieto: "Fantasia" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Nino Oxilia: "O triste fiume dall'onda sonora" in "Canti brevi" (1909).
Aldo Palazzeschi: "Lo specchio delle civette" in "I cavalli bianchi" (1905).
Enrico Panzacchi: "Su la riva tranquilla" in "Poesie" (1908).
Giovanni Pascoli: "Il ponte" in "Myricae" (1900).
Giovanni Tecchio: "Il fiume" in "Canti" (1931).
Domenico Tumiati: "Fiume" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Remigio Zena: "Sul Nilo" in "Le Pellegrine" (1894).



Testi

IL FIUME
di Giovanni Alfredo Cesareo

Spesso l'anima mia risale il fiume
Rapido de' ricordi, che bruisce
Fioco, tra lunghe strisce
D'ombra, nel fuggitivo occiduo lume;
Ed io discerno, su le tenui spume,
Ora un morto sorriso, ora una fronda
Secca, ora il reo bitume
D'un odio, ora una rosa vagabonda,

E altro e altro. E vo più sempre in dietro,
D'anno in anno, all'infanzia, a' giochi ignari,
A' rapimenti chiari
Del senso più diafano che vetro;
E poi con tutto sforzo anco m'arretro
Per ficcar gli occhi oltre il potere umano;
Ma, nel silenzio tetro,
Geme un sospiro, (da che parte?): In vano!

Opaca nebbia fumiga dal nero
Gorgo, ove l'acqua balenando sorge,
E altro non iscorge,
Se bene aguzzo e teso, il mio pensiero,
Che, giunto su la soglia del mistero,
Non può varcarla, e in due si sente scisso:
Ciò ch'egli ha di più vero
È rimasto laggiù, nel muto abisso.


(Da "I Canti di Pan")


Ferdinand Keller, "Brasilianische Flusslandschaft"