martedì 9 luglio 2013

"Bruges la morta" di Georges Rodenbach




"Bruges la morta" (1892) è il titolo di un romanzo scritto da Georges Raymond Constantin Rodenbach (Tournai 1855 - Parigi 1898), letterato belga di lingua francese che divenne celebre soprattutto per le sue opere poetiche ("La bianca giovinezza" e "Il regno del silenzio" quelle più importanti) le quali, per i toni fortemente malinconici, influenzarono Guido Gozzano e i poeti crepuscolari. Non dissimile dai suoi versi questo romanzo che trasforma la città di Bruges nel luogo più decadente e sognante del mondo, colmo di atmosfere tristi, piovose, grigie che preannunciano un disfacimento lento e ineluttabile. La storia è quella di un vedovo che non riesce ad accettare la scomparsa improvvisa della sua amata compagna e, per questo motivo, va a vivere nella città fiamminga rimanendo volontariamente esiliato nelle sue vie pervase da una cupa rassegnazione. Ma un giorno, durante una delle sue rituali passeggiate, il vedovo vede una donna che somiglia in maniera incredibile alla moglie morta; da quel giorno l'uomo inizierà a seguire questa donna misteriosa in modo ossessivo, fino a cercare con decisione un approccio per instaurare un rapporto amichevole che poi si trasformerà in morbosa passione. Il romanzo, come già detto, diventò un punto di riferimento per alcuni poeti italiani del primissimo Novecento; questi furono attratti in particolare dalla città di Bruges che Rodenbach nel suo libro riesce a descrivere con parole indimenticabili. A titolo dimostrativo si leggano questi versi tratti da "Armonia in grigio et in silenzio" di Corrado Govoni: «Ma ecco che l'autunnale contagio / si propaga: e le cose più ordinarie / ne le stanze si sentono a disagio / come de le novelle pensionarie. / / I monasteri dai muri di cloro / su cui l'inverno allenta le sue chiuse / incominciano tutti ad appassire; / / e le sperse campane, da le loro / grige casucce da le porte chiuse, / fanno la propaganda di morire»; si confrontino ora con questo passo del romanzo di Rodenbach: «Un'impressione funebre emanava da quelle case serrate, dai vetri offuscati come occhi di agonizzanti, dai frontoni che ripetevano nelle acque le loro scale luttuose. [...] E dovunque, sul suo capo, un gelido gocciolìo, le piccole note salate delle campane delle chiese, gettate come un aspersorio che benedica un feretro». Anche questi altri versi di Marino Moretti sono significativi: «Lenta lenta lenta va / nei canali l'acqua verde / e coi bei cigni si perde / nella grigia immensità, / nell'eterno mezzo lutto / mentre il giunco tristemente / s'è chinato a bere il flutto / della placida corrente... / Il tintinno d'una folla / di campane fa tremare / lievemente la corolla / d'uno smorto nenufare»; e ancora un brano di "Bruges la morta": «L'influsso della città su di lui riprendeva: lezione di silenzio che gli veniva dai canali immobili, che con la loro calma meritavano di esser frequentati dai nobili cigni; esempio di rassegnazione offerto dai quais notturni; soprattutto esortazioni di pietà e di austerità che cadevano dagli alti campanili di Notre Dame e di San Salvatore, sempre emergenti dal fondo delle prospettive».
Da ricordare infine che la prima traduzione in italiano del romanzo di Rodenbach fu realizzata ad opera di Fausto Maria Martini, altro poeta crepuscolare, mentre, le citazioni presenti in questo post, provengono dalla versione di Piero Bianconi, uscita per la Rizzoli, a Milano nel 1955 (immagine in alto).

domenica 7 luglio 2013

Il difetto nella poesia italiana decadente e simbolista

Il "difetto" è a volte ritenuto dai poeti simbolisti un elemento positivo, che differenzia (in meglio) la persona, l'animale, la pianta, l'oggetto o il paesaggio. Non è il caso però di una poesia di Vittoria Aganoor in cui si parla di una valle apparentemente paradisiaca dove capita di trovare delle situazioni controverse e dolorose. Passando ad altri esempi, ne L'incrinatura di Guido Gozzano, il fiore morente a causa di una fenditura provocata accidentalmente al vetro di Boemia che lo racchiude è paragonato al cuore colpito, o meglio sfiorato appena da "una man superba", che per tal motivo lentamente si dissangua. Ne Il nido di Giovanni Pascoli, il difetto sta proprio in quel fondamentale rifugio per gli uccelli che risulta ormai abbandonato e cadente, circondato da un paesaggio autunnale che ne preannuncia il dissolvimento. Angiolo Orvieto invece vede nel Filo d'argento presente nella sua barba la morte che lo sta aspettando al varco e che gli manda, col pelo canuto, una sorta di avviso. In Buzzi infine, il difetto è rappresentato dalla Gabbia che impedisce al poeta di volare verso le più sfrenate fantasie e le più incontrollate libertà.



Poesie sull'argomento

Vittoria Aganoor: "Val di Sella" in "Leggenda eterna" (1900).
Ugo Betti: "I magri" in "Canzonette - La morte" (1932).
Paolo Buzzi: "La gabbia" in "Aeroplani" (1909).
Corrado Govoni: "Ascoltando un doppio" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Guido Gozzano: "L'incrinatura" in "Gazzetta del Popolo della domenica", maggio 1904.
Luigi Gualdo: "Rose appassite cui non rise il sole" in "Le Nostalgie" (1883).
Pietro Mastri: "Fuor di stagione" in "Lo specchio e la falce" (1907).
Nicola Moscardelli: "Vuoto" in "Abbeveratoio" (1915).
Angiolo Orvieto: "Filo d'argento" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Nino Oxilia: "Contraddizione" in "Gli Orti" (1918).
Giovanni Pascoli: "Il nido" in "Myricae" (1900).
Giovanni Pascoli: "Il fringuello cieco" in "Canti di Castelvecchio" (1903).
Yosto Randaccio: "Atonia" in "Poemetti della convalescenza" (1909).



Testi

CONTRADDIZIONE
di Nino Oxilia

I

Io maschio ben costrutto
per l’amore ed avvezzo agli sportivi
giochi fisici, io, l’uomo dai lascivi
impeti, l’uomo in cui l’istinto è tutto,
io sono triste.

Io fecondo animale
che non conosco il rispetto
dell’altalena sociale,
e mi compiaccio dando lo sgambetto
alle dottrine dell’intelligenza,
saltando di piè pari sopra il petto
della menzogna detta convenienza,
io sono triste.

Io che passeggio sul puritanismo
a torso nudo come un gladiatore,
che sputo su Loyola con furore
e prendo a calci l’indeterminismo,
io che il metodo aborro e il sillogismo
e il fato greco e il mistico fervore,
io che son sperma e mani e occhi e creta
ma che non son poeta,
io sono triste.

Io che ho la penna in mano e fumo e stono
come un treno diretto,
che sono tutto in marcia, testa, petto,
gambe, riso, bestemmie, urla, perdono,
io sono triste...


III

O tristezza! Tu sei la benvenuta,
o amante dei poeti simbolisti.
Noi farem l’orgia delle cose tristi
sulla coltre dell’anima svenuta.

Adàgiati che possa contemplarti.
Sei figlia del rimpianto? Od il rimedio
dell’Impotenza? Maschera del Tedio,
o la modella delle Belle Arti?

Che sei? La febbre della notte eterna,
o un principio di gastrica? La morsa
dell’attesa o il respiro della corsa?
Sei la provincia o la città moderna?

Oggi, ieri, o domani? Il magnetismo
di un occhio ignoto, a un bivio, tra gli specchi?
L’elica di un Caproni od i cernecchi
d’un postiglione del romanticismo?

(Da "Gli Orti")

venerdì 5 luglio 2013

Da "La città dell'anima" di Giorgio Vigolo

È sotto l'influsso di quei cieli opachi e vibranti come alte maree di suono, che Roma m'ha rivelato nel sonno delle pietre l'anima sua più segreta; e durante i lunghi pellegrinaggi senza mèta per le antiche vie solitarie, quasi ho creduto di vegliare una creatura addormentata che tradisse di quando in quando i suoi sogni in qualche misteriosa parola.

(Da "La città dell'anima" di Giorgio Vigolo, Greco & Greco, Roma 1994)




Le città dell’anima è la prima opera letteraria di Giorgio Vigolo (Roma 1894 – ivi 1983). Fu pubblicata per la prima volta nel 1923, dallo Studio Editoriale Romano. Una ristampa dell’opera prima di Vigolo, è uscita grazie all’editore Greco & Greco di Roma nel 1994. Da quest’ultima (vedi foto sopra) ho trascritto un frammento che a me sembra significativo, poiché qui, come in tutto il libro, la protagonista è la città di Roma (lo sarà, spesso, anche nel resto dei versi e delle prose di Vigolo), vista dal poeta come se fosse un essere vivente. Naturalmente, consiglio a tutti di leggere queste prose dedicate alla bellezza della capitale italiana.


mercoledì 3 luglio 2013

Antologie: "Poeti minori dell'Ottocento italiano"

Circa quindici anni dopo la pubblicazione di Antologia della lirica italiana dell'Ottocento, Ferruccio Ulivi (1912-2002), insigne critico italiano, tornò ad occuparsi di poesia ottocentesca dando alle stampe una ulteriore e fondamentale antologia: Poeti minori dell'Ottocento italiano (Vallardi, Milano 1963). Un'opera quest'ultima, di ben 850 pagine, in cui Ulivi volle perfettamente classificare e antologizzare 95 poeti italiani cosiddetti "minori" compresi nei cento anni del XIX secolo. Il libro, assai diverso da quello precedente (che fu curato anche da Giorgio Petrocchi), è molto generoso nella selezione dei poeti, e comprende anche alcuni nomi quasi totalmente ignorati dalle precedenti antologie settoriali; per fare due soli nomi, si trovano qui quelli di Antonio Della Porta e di Emilio Girardini: poeti validi e anche originali, del tutto "riscoperti" da Ulivi. L'antologia è strutturata in sei sezioni, precedute da una introduzione che illustra il motivo di tale scelta. Si nota una netta predominanza di poeti del secondo Ottocento, e a mio parere la ragione sta nel fatto che tra il 1850 e il 1900 furono assai di più i poeti di talento rispetto al mezzo secolo precedente. Ecco allora, per terminare, l'elenco dei poeti presenti in questa antologia che ritengo sia tra le migliori dedicate a questo specifico settore.  





POETI MINORI DELL'OTTOCENTO ITALIANO

I
Diodata Saluzzo, Gabriele Rossetti, Giovanni Berchet, Jacopo Sanvitale, Silvio Pellico, Giovanni Marchetti, Tommaso Grossi, Giovita Scalvini, Andrea Maffei, Luigi Carrer, Niccolò Tommaseo, Alessandro Poerio, Giunio Bazzoni, Cesare Betteloni, Paolo Emilio Imbriani, Francesco Dall'Ongaro, Giuseppe Giusti, Agostino Cagnoli, Pietro Paolo Parzanese, Giulio Carcano, Giuseppe Revere, carlo Tenca, Arnaldo Fusinato, Vincenzo Padula, Luigi Mercantini, Goffredo Mameli, Ippolito Nievo, Erminia Fuà Fusinato. 

II
Giulio Uberti, Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Giacomo Zanella, Giovanni Raffaelli. 

III
Paolo Emilio Castagnola, Costantino Nigra, Pietro Cossa, Giambattista Maccari, Augusto Caroselli, Giuseppe Maccari, Vincenzo Riccardi di Lantosca, Emilio Praga, Bernardino Zendrini, Vittorio Betteloni, Vittorio Imbriani, Iginio Ugo Tarchetti, Arrigo Boito, Felice Cavallotti, Mario Rapisardi, Giovanni Camerana, Arturo Graf, Remigio Zena, Contessa Lara, Olindo Guerrini, Corrado Corradino.

IV
Biagio Miraglia, Giuseppe Chiarini, Enrico Nencioni, Giuseppe Cesare Abba, Tommaso Cannizzaro, Enrico Panzacchi, Luigi Pinelli, Domenico Milelli, Antonio Fogazzaro, Maria Alinda Bonacci Brunamonti, Giuseppe Aurelio Costanzo, Giuseppe Manni, Luigi Morandi, Edmondo De Amicis, Emilio De Marchi, Giovanni Marradi, Ulisse Tanganelli, Mercurino Sappa, Vittoria Aganoor Pompilj, Severino Ferrari, Guido Biagi, Emilio Girardini, Giuseppe Picciola, Guido Mazzoni, Giacinto Ricci Signorini.

V
Domenico Gnoli, Raffaele Salustri, Ugo Fleres, Nicola Marchese, Giovanni Alfredo Cesareo, Giulio Salvadori, Pompeo Bettini, Adolfo De Bosis, Antonio Della Porta, Enrichetta Capecelatro.

VI
Sebastiano Satta, Giovanni Bertacchi, Giovanni Cena, Ada Negri. 

lunedì 1 luglio 2013

Luglio in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

AFA DI LUGLIO. IL CANTO CHE NON VARIA
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

Afa di luglio. Il canto che non varia 
delle cicale; il ciel tutto turchino; 
intorno a me, nel gran prato supino, 
due fili d'erba immobili nell'aria. 

Un sopor dolce, una straordinaria 
calma m'allenta i muscoli. Persino 
dimentico di vivere. Mi chino 
coi labbri ad una bocca immaginaria...

E sento come divenute enormi
le membra. Nel torpore che lo lega,
mi pare che il mio corpo si trasformi.

Forse in macigno. Rido. Poi mi butto
bocconi. Nell'immensa afa s'annega
con me la mia miseria, il mondo, tutto.

(Da "Resine", Caimo, Genova 1911)





O LUGLIO, TU SEI COME UN GIOVINETTO
di Federigo Tozzi (1883-1920)

O luglio, tu sei come un giovinetto 
ch'abbia le chiome molli e succolente 
come frutta mature; e per diletto 
tu porti ai contadini le semente. 

Onde le floride aie sono il letto 
dove pieghi i ginocchi sorridente 
e stanco. Ma il tuo biancheggiante petto 
pieno è di sole come sangue ardente.

E pare che la luna sia più gonfia
nel cielo, dove perde tutto il latte;
e gli alberi si toccano le foglie.

Ma, la mattina, il gallo canta e tronfia
se le galline gli si metton chiatte,
per soddisfare tutte le sue voglie.

(Da "La zampogna verde", Puccini, Ancona 1911)





DI LUGLIO
di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

Quando su ci si butta lei,
Si fa d'un triste colore di rosa
Il bel fogliame.

Strugge forre, beve fiumi, 
Macina scogli, splende,
È furia che s'ostina, è l'implacabile,
Sparge spazio, acceca mete,
È l'estate e nei secoli
Con i suoi occhi calcinanti
Va della terra spogliando lo scheletro.

(Da "Sentimento del Tempo", Vallecchi, Firenze 1933)





UN GIORNO DI LUGLIO
di Adolfo Jenni (1911-1997)

Parla alto l'uomo, strepita il gallo,
ogni fiore è bandiera.
La donna ch'è sola si dispera,
azzurre le notti se il giorno ora è giallo.

Lungo i torrenti che l'afa dispoglia
canta, folletto, lo spirito;
così divaga la vipera,
tòrnea così al pioppo la foglia.

Questo è il soverchio giorno che il santo
pensa, invidiando, l'angelo:
di morte strana languido,
s'aprono i suoi gesti ad acanto.

Succo di pesca è la saliva,
profumo di accalmati orienti;
rilucono i denti
in giovinezza fuggitiva.

(Da "Le bandiere di carta", Collana di Lugano, Lugano 1943)





ORA CHE DOMINA LUGLIO
di Rocco Scotellaro (1923-1953)

Ancora non mi palpita una fede: 
per questo mi viene la luce 
e non me la sento il mattino 
e so il mio giorno rapito
in un vortice inane.
Se fossi zolla!
M’avrebbe rimossa la vanga, 
darei erbe e frutti
a questa stagiona che sorvola.
E sono sorgente seccata 
che mi scansano le greggi 
ora che domina luglio.

(Da "È fatto giorno", Mondadori, Milano 1954)





14 LUGLIO
di Cesare Vivaldi (1925-1999)

Questo mese è una data nella storia
dell'Italia: quattordici di luglio
del millenovecentoquarantotto.

Un'immagine sola alla memoria
ritorna: il Policlinico, nel mùglio
del popolo crescente, ininterrotto.

(Da "Il cuore di una volta", Sciascia, Caltanissetta 1956)





MATTINA DI LUGLIO
di Franco Fortini (1917-1994)

Nulla flette al largo la riga vergine
della mattina e nulla nell'aria trema
se non fili o la timida vertigine

delle fogliuzze dei salici. Chi rema
va in un medio placido sulla voragine.
I primi gridi si isolano.

Noi ci siamo venduti alla paura,
a vizi inavvertiti, alla speranza,
alla pietà.

(Da "Una volta per sempre", Mondadori, Milano 1963)





I PRIMI DI LUGLIO
di Eugenio Montale (1896-1980)

Siamo ai primi di luglio e già il pensiero
è entrato in moratoria.
Drammi non se ne vedono,
se mai disfunzioni.
Che il ritmo della mente si dislenti,
questo inspiegabilmente crea serie preoccupazioni.
Meglio si affronta il tempo quando è folto,
mezza giornata basta a sbaraccarlo.
Ma ora ai primi di luglio ogni secondo sgoccia
e l’idraulico è in ferie.

(Da "Diario del '71 e del '72", Mondadori, Milano 1972)





SERA DI LUGLIO IN GIARDINO
di Agostino Richelmy (1900-1991)

Si rompe il cielo al rozzo 
e remoto frastuono dei decrepiti 
motori e degli aerei supersonici. 
Timida olezza l’aria 
e nella grigia luce 
vedo gl’immacolati gelsomini. 
Pie corolle nel chiostro 
dei loro steli attorcigliati stretti 
al graticcio murale 
sono sorprese or ora 
dal taciturno arrivo 
dei volatili insetti. 
Imenotteri bruni 
testé nati dalla marcida palude 
sembrano modellini 
di novelli elicotteri. 
Sotto la luna tronca e semispenta 
nel nuvolone rotto 
me li figuro, mostri 
pelosi che natura 
mutua d’esca e diletico 
pone, ganzi o lenoni, 
sulle corolle intemerate 
degli efebici gelsomini.

(Da "La lettrice di Isasca", Garzanti, Milano 1986)





25 LUGLIO '67
di Ferruccio Benzoni (1949-1997)

Stentorea
in un visibilio di luce
che pare scolpita
la voce, 
il lembo di un prendisole...
È quanto di lei rimane
tra il paesaggio marino e me
immobili nel ricordo.
(Si sollevasse una brezza
un alito
e un poco di verde tremasse
cautamente
dalla cima delle piante alla punta
delle mie dita)

(Da "Fedi nuziali", Scheiwiller, Milano 1995)

sabato 29 giugno 2013

"Murmuri ed echi" di Mario Novaro

Vi fu un sito in ma' mai lontan lontano
dove fioriva
nel giardin della nonna
il melograno.

(Da "Murmuri ed echi" di Mario Novaro)






La recente ristampa del libro Murmuri ed echi di Mario Novaro (San Marco dei Giustiniani, Genova 2011), mi dà l'occasione per parlare di questa opera in versi del poeta-filosofo di Diano Marina, che per molti anni diresse la famosa rivista letteraria Riviera Ligure, dove pubblicarono cose importanti scrittori che di lì a breve avrebbero conquistato fama meritata come Luigi Pirandello, Guido Gozzano e Giuseppe Ungaretti. Murmuri ed echi è l'unico volume di poesie di Novaro, la cui prima edizione risale al 1912; ma è anche un libro che, durante gli anni, subì molte modifiche ed aggiunte, infatti l'autore, dopo la prima uscita di cui ho detto, ne fece stampare altre quattro¹, mentre la definitiva², curata da Giuseppe Cassinelli, è del 1975. I versi di Novaro, molto vicini alla filosofia, si contraddistinguono per una tensione vitalistica e una individuazione dei profondi misteri della vita che il poeta (e fors'anche il filosofo) va a cercare negli elementi più semplici e attraenti della natura. Queste peculiarità a mio avviso molto lo avvicinano agli scrittori della Voce (alcuni dei quali sono presenti coi loro scritti nella Riviera Ligure), questo è confermato dall'uso da parte di Novaro, sia della prosa poetica (si legga Sui monti e una parte di Vita nostra), sia del frammento (come si nota nella poesia che dà il titolo al libro, ma anche in Fioretti e in Nuovi fioretti). Per il resto non si può negare che Novaro subì, come molti altri scrittori della sua epoca, l'influenza delle "tre corone": Carducci, Pascoli e D'Annunzio; è da ricordare poi il suo inserimento, da parte di alcuni critici, nella cosiddetta Linea ligure che va da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi a Eugenio Montale e che si palesa in una particolare attenzione al paesaggio ligure e (utilizzando un famoso verso di Montale) nell'uso di un linguaggio "scabro ed essenziale". Concludo raccomandando, a chi non lo avesse ancora fatto, la lettura di questo volume così originale e prezioso, oggi disponibile in una nuova, elegante edizione.


NOTE
1) Le cinque edizioni di Murmuri ed echi così si succedettero: Ricciardi, Napoli 1912; ivi, 1914; Vallecchi, Firenze 1919; Ricciardi, Napoli 1938; ivi, 1941. 
2) L'edizione definitiva uscì per la Scheiwiller di Milano nel 1975, una seconda edizione (vedi immagine in alto) fu pubblicata nel 1994.





mercoledì 26 giugno 2013

Poeti dimenticati: Luigi Pirandello

Luigi Pirandello nacque ad Agrigento nel 1867 e morì a Roma nel 1936. Sarebbe qui inutile parlare del Pirandello grandissimo drammaturgo e ottimo prosatore; meno conosciuta è certamente la sua poesia, che pure riveste un ruolo tutt'altro che marginale nell'arte dello scrittore siciliano. Pirandello infatti si dedicò alla stesura di versi fin dai suoi esordi letterari, pubblicando varie raccolte che, inizialmente mostrano un adeguamento alla lirica tradizionale, mentre, nelle opere più mature (leggi Fuori di chiave), emergono elementi che preannunciano i migliori esiti della sua attività teatrale.




Opere poetiche

"Mal Giocondo", Clausen, Palermo 1889.
"Pasqua di Gea", Galli, Milano 1891.
"Elegie renane", Tip. Unione Cooperativa, Roma 1895.
"Zampogna", Dante Alighieri, Roma 1901.
"Fuori di chiave", Formiggini, Genova 1912.
"Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1982.







Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 334-336).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (p. 435).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 6, pp. 140-155).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 127-129).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 209-210).
"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 447-451).
"L'altro Novecento, Volume V", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi, Foggia 1999 (pp. 55-58).
"Sicilia, poesia dei mille anni", a cura di Aldo Gerbino, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001 (354-357).




Testi

ATTESA

Io sono come l’albero che aspetta
la sua stagione e morto intanto pare.
Vien qualche vispa cincia a dimandare:
«Albero, ancora? Bada, è tempo: getta!»
Ma alle cince non dà l’albero retta:
muto ed assorto, rimane a sognare.

Sogna i freschi rampolli, e che tra i rami
verrà per grazia a raccogliere il volo,
ospite prezioso, un rosignuolo.
Piú d’altri uccelli non s’udran richiami.
In ciel, la luna; e magici ricami
d’ombra le frondi stamperan sul suolo.

Sogna e sogna... Ma già forse è passata
la sua stagione, e ad aspettarla sta
l’albero, invano, o forse non verrà
per lui giammai... Se questa, albero, è stata
l’ultima nostra gelida vernata,
che bei sogni la scure abbatterà!

(Da "Zampogna")