martedì 20 marzo 2012

Prima primavera vera

La vostra primavera, o letterati,
qui sulla terra non l'ho vista mai,
con que' vostri augelletti innamorati
che stanno gorgheggiando a' dolci rai

e i fiorellini che smaltano i prati
e gli amanti che giran tra' rosai...
Io vedo campi verdi oppur vangati
con qua e là meli bianchi e letamai,

eppoi quercioli secchi e fiori gialli,
e per le strade di già polverose
merde fresche di manzi e di cavalli,

e nelle sere vagamente afose
il cucco e il chiù nemmeno a bastonalli
smetton le lor chiamate lamentose.
 

 
L'esordio poetico di Giovanni Papini avvenne nel novembre del 1912, quando pubblicò sulla rivista "La Voce", quattro componimenti in versi raggruppati sotto il titolo: "Sonetti plebei". Ciò è dichiarato dallo stesso Papini alla fine di tali pubblicazioni, nel seguente testo:

«M'induco a pubblicare i primi quattro d'una sessantina di sonetti plebei di spiriti e di forme che scrissi in campagna tre anni fa. È la prima volta in vita mia, che stampo versi e forse sarebbe stato meglio aspettar dell'altro».

Il titolo scelto da Papini, vorrebbe specificare il carattere non altissimo di questi sonetti; in effetti leggendoli è facile capirlo: trattasi infatti di composizioni giocose, ironiche e alcune volte provocatorie che possono ben rientrare nella poesia satirica. Questo discorso vale anche per i versi riportati sopra, in cui l'autore gioca a cominciare dal titolo e prosegue sullo stesso tono nel contenuto, che parla di una primavera tutt'altro che idilliaca e poetica; insomma il contrario, come afferma lui stesso nei primi due versi, della stagione descritta generalmente e banalmente dai poeti: c'è anzi un abbruttimento evidente, che coinvolge la vista (del letame e dello sterco presenti sul terreno), e l'udito (dei lamenti degli uccelli come il cuculo e l'assiuolo) di chi osserva e sente ciò che offre la natura nel tempo primaverile.
"Prima primavera vera", così come gli altri tre "Sonetti plebei" non fu più pubblicato dal Papini (e nemmeno lo furono i futuri sonetti annunciati). Lo si ritrova soltanto nel volume che comprende l'intera opera dello scrittore toscano: "Tutte le opere", edito da Mondadori alla fine degli anni '50 del XX secolo.

lunedì 19 marzo 2012

Da "Ricordi di scuola" di Giovanni Mosca

L'albero del cortile ha messo da qualche giorno le prime foglie, di quel verde tenero, fresco fresco, che si vede solo nei primissimi giorni di primavera, ed è un miracolo che dura poco, nemmeno dall'alba al tramonto, e di questo breve tempo c'è forse un'ora, e di quest'ora un minuto, un istante in cui il miracolo di quel verde raggiunge la sua pienezza. Foglioline piccole che appena ardiamo guardare, ma senza toccarle, tanto è delicato quel colore che, senza che gli occhi lo avvertano, ma il cuore, sì, già non è più quello dell'istante prima, e domani sarà già offuscato, come se un'ombra vi si fosse posata, e del fresco, tenero miracolo non rimarrà che il ricordo, il rimpianto... Foglioline che spiccano, rade, sul bruno dei rami quasi nudi ancora, e anche nell'ombra sembra che il sole le illumini.

(Da "Ricordi di scuola" di Giovanni Mosca, 31° edizione, Rizzoli, Milano 1972, p. 129)

domenica 18 marzo 2012

Marzo


Marzo ventoso
mese adolescente
marzo luminoso
marzo impenitente.

Marzo che fai tuoi giochi
con le nuvole in alto
e con l'ombra e le luci
dài mutevol risalto
alla terra stupita

alla terra intorpidita,
mentre dal seno le strappi
e le primole e le rose
e fresch'acque rigogliose
lieto fai rigorgogliare.

Ed il passero riscuoti
con la tua folle ventata
nella sua grondaia secca
nella siepe denudata.

Spazzi i portici e le calli
e la nebbia nelle valli
e la polvere degli avi
e i propositi dei savi
rompi e l'ombra delle chiese.

Ed il pavido borghese
che nell'essa porta il gelo
dell'inverno trapassato
e col corpo imbarazzato
geme il reuma ed il torpore,
che nel volto porta il velo
della noia ed il pallore
della diuturna morte,
si rinchiude frettoloso
si rinvoltola accidioso
e rincardina le porte.

Se lo scuoti e lo palesi,
marzo giovane pazzia,
la sua trista nostalgia
sogna il sonno di sei mesi.

Ei ti teme, dolce frate
marzo, terrore giocoso
ma tu passi vittorioso
sbatti gli usci e le impannate
con le tue folli ventate.

E la densa polve sveli
nel tuo raggio popolato
e sul legno affumicato
i vetusti ragnateli.

Poich'il termine al riposo
canti, marzo adolescente,
t'odia questa buona gente,
marzo luminoso.

Ma se t'odiano addormiti
nelle coltri riscaldate
ed i passeri impauriti
nelle siepi denudate,
t'ama il falco su nell'aria
che più agile si libra
nella tua ventata varia
e la sente in ogni fibra
lieto nella tua procella,
ché per lei si fa più bella
ché per lei si fa più pura
ai suoi occhi la natura.

Marzo mese luminoso
marzo adolescente
marzo mese irriverente
marzo ventoso.

1° marzo 1910
 


 
Questa poesia fu probabilmente scritta di primo impulso dal filosofo Carlo Michelstaedter dopo un'escursione sul San Valentin, nel Friuli, uno dei luoghi da lui più frequentati e amati. Come le altre poesie del filosofo friulano, fu pubblicata soltanto dopo la morte dello stesso, avvenuta per suicidio nel 1910: durante il medesimo anno in cui furono composti i versi sopra riportati. Molto bella mi pare questa rappresentazione di marzo che viene descritto come un mese assai movimentato, portatore di veloci mutamenti del clima e delle condizioni atmosferiche, ma anche di venti forti, fastidiosi a tal punto che il borghese, temendoli, si rinchiude in casa. Ma se marzo non è amato dalla maggior parte degli uomini e degli uccelli, lo è dal falco, che si fa trasportare nel suo volo dal vento, che sente nelle fibre e nelle membra tutta la forza e l'energia vitale trasmessi da questo mese straordinario, e sa apprezzare anche le immagini nuove e bellissime offerte dalla natura in questo periodo dell'anno.

sabato 17 marzo 2012

Fiorita di marzo

La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.

Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo — e al tuo passar l'erba germoglia
o Primavera, o gioja de' miei occhi.

Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell'orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,

essi, ne' loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l'aria densa di languori;

e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di Marzo, o Giovinezza!...


 
È questa di Ada Negri, una delle poesie che fanno parte della raccolta "Dal profondo", uscita nel 1910. Segna un passaggio decisivo, da parte della poetessa lodigiana, verso toni marcatamente più contemplativi e, nello stesso tempo, meditativi. È così anche in "Fiorita di marzo", dove la Negri osservando lo spettacolo dei bellissimi, minuti e fragili fiori che compaiono verso la metà del terzo mese dell'anno sui rami di alcuni alberi da frutta, si rende conto di quanto essi siano simili al periodo della vita umana che coincide con la gioventù; periodo meraviglioso ma di brevissima durata, così breve che, una volta passato si ha l'impressione di aver vissuto in un sogno e non nella realtà. Quando scrisse questi versi Ada Negri si apprestava a raggiungere la soglia dei quarant'anni, che per una donna spesso voleva dire l'inizio della vecchiaia (si parla di un secolo fa naturalmente), ecco il motivo di tale e tanta amarezza provocata nell'animo della scrittrice dal vedere l'imparagonabile rappresentazione della rinascita vitale che si manifesta, in primavera, principalmente con la nuova fioritura delle piante.

venerdì 16 marzo 2012

Poeti dimenticati: Giuseppe Cesare Molineri

Giuseppe Cesare Molineri nacque a Pinerolo nel 1847 e morì a Torino nel 1912. Dopo la laurea in Lettere, insegnò all'università di Torino; partecipò alla terza guerra d'indipendenza (1866) nel reparto dei garibaldini; fondò anche una rivista che si occupava di teatro e di letteratura: «Serate italiane (letture per famiglie)». Narratore, autore e critico teatrale, fu anche poeta, come dimostrano due volumi di versi: "All'aperto" (1876) ed il postumo e ricapitolativo: "Poesie (1865-1906)". Nella sua raccolta uscita tre anni dopo la sua morte si evidenziano chiari elementi che lo avvicinano alla Scapigliatura, in particolare al suo corregionale Igino Ugo Tarchetti.
 
 
Opere poetiche
"Al'aperto", Casanova, Torino 1876.
"Poesie (1865-1906)", Lattes, Torino 1915.
 
 
Presenze in antologie
"Lirici della Scapigliatura", seconda edizione aggiornata a cura di Gilberto Finzi, Mondadori, Milano 1997 (pp. 245-250).
"La poesia scapigliata", a cura di Roberto Carnero, Rizzoli, Milano 2007 (pp. 435-440).

mercoledì 14 marzo 2012

Antologie: "Poeti minori del secondo Ottocento italiano"

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano" è il titolo di un'antologia poetica curata da Angelo Romanò e pubblicata nel 1955 dall'editore Guanda in Bologna. Il volume di 420 pagine comprende una selezione dei versi di 55 poeti attivi tra il 1850 e i primissimi anni del XX secolo. Il poeta più anziano, con cui inizia l'antologia, è Niccolò Tommaseo, mentre quello più giovane è Giovanni Bertacchi. L'opera è una delle molte che, tra il 1947 ed il 1968, furono dedicate ai poeti italiani cosiddetti "minori" del secolo XIX. Questa di Romanò restringe l'attenzione sulla seconda metà dell'Ottocento, cercando di essere, come avverte lo stesso curatore nella postilla: «ampia nei limiti del buon gusto e del possibile». In effetti non si può dire che la selezione abbia trascurato dei nomi meritevoli, anzi, compaiono qui dei poeti che potrebbero definirsi, più che minori, "minimi". Semmai si può discutere sullo spazio attribuito a ciascun poeta: qui mi pare che risultino sminuiti o non considerati abbastanza, poeti di un certo spessore come Enrico Panzacchi e Domenico Milelli. C'è poi, come ammette anche Romanò, la scelta discutibile dell'ordine cronologico degli autori selezionati, che pone dei poeti (Domenico Gnoli e Arturo Graf su tutti) i quali ebbero meriti non trascurabili nel rinnovamento della poesia italiana a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, in una posizione sicuramente distante rispetto a quel fin de siècle in cui avrebbero avuto un posto ed un valore più adeguati. A parte questi piccoli difetti, tutto sommato non rilevanti, si può affermare che l'antologia di Romanò sia ben fatta e aiuti a comprendere in modo dettagliato il panorama poetico italiano del secondo Ottocento, così determinante per la nascita della prima fase rinnovativa della poesia novecentesca nazionale, rappresentata, in sostanza, dal crepuscolarismo. Ecco, di seguito, l'elenco degli autori presenti nel volume.
 
Niccolò Tommaseo, Giulio Uberti, Francesco Dall'Ongaro, Aleardo Aleardi, Giulio Carcano, Giovanni Prati, Biagio Miraglia, Paolo Emilio Castagnola, Costantino Nigra, Vincenzo Riccardi di Lantosca, Giambattista Maccari, Enrico Nencioni, Giuseppe Cesare Abba, Tommaso Cannizzaro, Giulio Orsini (Domenico Gnoli), Bernardino Zendrini, Emilio Praga, Giuseppe Maccari, Enrico Panzacchi, Vittorio Betteloni, Luigi Pinelli, Iginio Ugo Tarchetti, Domenico Milelli, Felice Cavallotti, Arrigo Boito, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Aurelio Costanzo, Mario Rapisardi, Luigi Morandi, Giulio Pinchetti, Giovanni Camerana, Olindo Guerrini (Lorenzo Stecchetti), Edmondo De Amicis, Giuseppe Giacosa, Arturo Graf, Gaspare Invrea (Remigio Zena), Emilio De Marchi, Corrado Corradino, Giovanni Marradi, Ulisse Tanganelli, Vittoria Aganoor Pompilj, Guido Biagi, Severino Ferrari, Ugo Fleres, Evelina Cattermole Mancini (Contessa Lara), Giuseppe Picciola, Guido Mazzoni, Edoardo Scarfoglio, Giacinto Ricci-Signorini, Giovanni Alfredo Cesareo, Giulio Salvadori, Pompeo Bettini, Giovanni Bertacchi, Mercurino Sappa, Carmelo Errico.

domenica 11 marzo 2012

Da "Il taglio del bosco" di Carlo Cassola

Precipitare nel buio del sonno era quanto di meglio gli restava. Quando Guglielmo sentiva il sonno venire, era contento, perché per qualche ora sarebbe stato liberato da ogni pensiero, e perché un altro giorno era passato. A uno a uno i giorni passavano, e i mesi e gli anni restavano dietro le spalle. Aveva trentott'anni; non era lontano il traguardo dei quaranta, passato il quale sarebbe stato un uomo maturo, quasi una persona anziana.






Il taglio del bosco è il titolo di un racconto lungo scritto da Carlo Cassola (Roma 1917 – Montecarlo 1987). Uscì per la prima volta sulla rivista Paragone, nel dicembre del 1950. Cassola poi lo inserì, a partire dal 1954, in edizioni che comprendevano anche altri suoi racconti. Il frammento che ho trascritto – per me significativo – l’ho estratto dal libro omonimo (vi si legge tale racconto insieme a Rosa Gagliardi e Le amiche), pubblicato dalla Rizzoli di Milano nel 1980.

Prima di leggere il libro, vidi, in replica su un canale della Rai, un film per la televisione assai bello, ispirato proprio al racconto; la regia è di Vittorio Cottafavi, mentre il protagonista principale: Guglielmo, è interpretato da Gian Maria Volontè.

Ciò che maggiormente mi colpì, sia guardando il film che leggendo il libro, fu il malessere esistenziale di Guglielmo - vedovo da poco tempo e padre di due bambine - che praticamente rinuncia alla vita a causa del forte dolore non mai superato completamente. Guglielmo è un uomo solo e avvilito, che continua a vivere soltanto perché deve farlo, ovvero perché ha il dovere di crescere nel miglior modo possibile le due piccole figlie. Non vuole più ricominciare, né sperare in una nuova vita sentimentale; per questo motivo vorrebbe che il tempo passasse velocemente, e che le figlie fossero già grandi e lui vecchio; in tal modo avrebbe ancora poco tempo da vivere, e la sofferenza, insieme alla sua morte, finalmente svanirebbe.