Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
sabato 4 febbraio 2012
L'acqua nella poesia decadente e simbolista italiana
Poesie sull'argomento
Paolo Buzzi: "Getti d'acqua sulle montagne" in "Aeroplani" (1909).
Paolo Buzzi: "Dramma d'acque" in "Bel canto" (1916).
Enrico Cavacchioli: "Ballata delle acque" in "L'Incubo Velato" (1906).
Guelfo Civinini: "La grazia" in "L'urna" (1900).
Sergio Corazzini: "Acque lombarde" in "Dolcezze" (1904).
Marcus De Rubris: "I ruscelli i torrenti e le fiumane" in "Anima nova" (1906).
Luigi Donati. "L'acqua" in "Le Ballate d'Amore e di Dolore" (1897).
Luisa Giaconi: "Il laghetto" in "Tebaide" (1909).
Corrado Govoni: "L'acqua" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "Acqua chiara" in "Medusa" (1880).
Giovanni Pascoli: "La guazza" in "Canti di Castelvecchio" (1903).
Giovanni Pascoli: "Il naufrago" in "Nuovi poemetti" (1909).
Raffaele Salustri: "La musica delle acque" in "Poesie" (1891).
Alice Schanzer: "Incantesimo" in "Motivi e canti" (1901).
Emanuele Sella: "Trittico dell'allegoria dell'acqua" in "Monteluce" (1909).
Testi
INCANTESIMO
Me tiene l'incantesimo
de l' acque. Per i diafani
veli, più bianchi appaiono
delle ninfee i calici.
Basso gli alcioni volano
sulla corrente fulgida,
Scherzan del sole i tremuli
chiarori, e 'l verde fluido.
Le nubiformi tornano
nel desiderio, immagini
muliebri. Fra le mitiche
fonti vorrei, Castalie,
fra le silvane, gelide,
seguir fuggenti najadi;
mirar le chiome cèrule
dell'ondine germaniche.
Vorrei del Sen Cumanico
tuffarmi a' vivi zaffiri,
o dove aperti Liguri
flutti sonori infrangonsi.
Tra palafitte e gondole
fender canali taciti;
vogar, silente, al fremito
dell'onda Ciparissia.
Memore di Sakùntala
trar l'acque al sacro, ondifero
Gange. A carezze glauche
l'ignote valli attraggonmi.
Me attraggon dolci numeri
della fluente, ritmica
bellezza: e inebria l'algida
onda nel verso celere.
(Alice Schanzer)
Antologie: Poesia italiana contemporanea 1909-1959
Da "I puri di cuore" di Marino Moretti
venerdì 3 febbraio 2012
Da "Peter Camenzind" di Hermann Hesse
L'uomo primitivo tra di noi
Molto frequentemente, se discuti di politica (anche se lui ha un'idea della politica decisamente particolare), scopri che è un nostalgico del fascismo, o, comunque, di destra, e ce l'ha con tutti gli extracomunitari e gli zingari a cui darebbe fuoco così come fece Nerone coi romani.
Non è fantasia questa, ma triste realtà di tutti i giorni, e mi chiedo come mai il progresso, la cultura e la civiltà che avrebbero dovuto portare dei miglioramenti sempre più marcati e visibili nei comportamenti umani abbiano fallito, almeno in Italia, così miseramente.
Chi chiude il conto
Sì, la vita gli arrise nei primi anni di vita (quei tempi!...) Ma ora sono seppelliti, anche se gli rimangono i ricordi, che valgono quel che valgono.
Pure è bello per chi non ha più nulla oltre a quelli, tornare con la mente ai tempi andati; ripensare a quei giorni incredibili, ai giochi, al mondo fantastico che non esisteva ma che era possibile creare, era vero perchè la mente diceva così.
La fantasia dei bambini è una cosa imparagonabile, è nell'infanzia che nascono questi mondi impossibili, bellissimi, reali, che si sgretolano a poco a poco mentre si cresce, fino a scomparire completamente con l'arrivo della piena maturità.
Ci si accorge che gli occhi di oggi non sono più quelli di ieri; infatti non solo il corpo si deteriora col tempo, ma anche la fantasia e la purezza, la meraviglia e la scoperta. Ci si ritrova vuoti, qualunque spettacolo, perfino quelli della natura, lasciano gli occhi quasi indifferenti, alla ricerca di quelle emozioni provate tanto tempo addietro, che ora sono impraticabili: è la completa aridità, spirituale e materiale.
Chi chiude il conto sa che non si può aspettare nulla dal futuro, che quello che è stato è perso per sempre, che quello che è non vale nulla.
L'entusiasmo è una delle prime cose che se ne vanno, ed è anche la prima tappa verso la completa aridità. Non si è più attratti da alcuna cosa, anche ciò che era semplice, banale e magari insignificante, una volta scatenava nella mente mille attrattive, era la forza della vita che dentro lavorava per dirci: «Guarda quante cose belle! Quanti anni hai ancora davanti a te, quante sorperese la tua esistenza ti presenterà, vivere è una cosa stupenda!». Ora le cose non stanno più così.
Chi chiude il conto ha la netta sensazione che ormai la vita non possa riservare nulla di buono, anzi, che soltanto la morte può risolvere tutti i problemi accumulatisi col tempo. Si finisce per attendere soltanto la chiusura del conto.
Pure l'adolescenza, fase della vita transitoria e problematica, ha le sue attrattive; ancora è possibile sognare, come nell'infanzia, è possibile immaginare che l'amore esista veramente, che sia un sentimento sincero, puro e divino; è ancora troppo presto per le disillusioni, ma già si ha la percezione di aver perso qualche cosa d'importante, che non tornerà mai più, ed è la fantasia del bambino.
Chi chiude il conto medita sulle tappe della sua vita, e si rende conto che gli anni passati somigliano ad un fiumiciattolo le cui acque, scorrendo, diminuiscono sempre più, fino a che il corso d'acqua si estingue e rimane solo un solco arido. Sì, il percorso della vita è sempre in perdita graduale.
Tristi anni della gioventù, eppure anche quegli anni, seppur grami, nei ricordi sembrano belli, probabilmente perchè nutriti ancora di speranze, visto che la vita si immagina ancora lunga e un ottimismo inconscio spinge a pensare che il futuro sarà migliore. Così non è stato.
Chi chiude il conto non ha grandi rimpianti per la giovinezza, il periodo che spesso l'umanità rimpiange maggiormente, quello del grande amore, dei grandi ideali e del vigore e della forza alla sua massima espansione. Addio gioventù, non sei esistita mai e mai esisterai più.
Si arriva alla mezza età e ancora, magari, si spera in chissà cosa, ma ora è evidente che la vita non potrà riservare più sorprese inimmaginabili; quello che doveva accadere è accaduto, non altro ci sarà di sconvolgente; semmai, se si analizza la situazione, si comincia a provare un dolore profondo, perchè le perdite divengono pesantissime: la morte si è portata via persone care che non torneranno mai più!
Chi chiude il conto non spera di ritrovare gli affetti perduti, non crede che potrà vivere in un ipotetico al di là; queste speranze sono già cadute da molto tempo, il periodo delle favole è finito: davanti agli occhi c'è solo la cruda, dura e triste realtà. Dopo la morte non c'è nulla.
Ma la morte è un pensiero ricorrente in chi, superata la mezza età, vede appropinquarsi la vecchiaia. Spesso capita di pensare: «meglio morire prima di diventare vecchi». Il fatto è che noi siamo stati programmati per vivere e non per morire, per questo si va avanti, si prosegue una strada già tracciata, che hanno già percorso quelli che ci hanno preceduto, e tutti (escluso nessuno), alla fine della strada si sono trovati davanti ad un burrone; anche se preferivano tornare indietro hanno dovuto proseguire...
Chi chiude il conto non vuole giungere al burrone, pensa che non ci sia alcuna ragione per arrivare fino a lì. Stanco ormai del percorso già fatto, non spende altre forze per andare avanti. Chiude il conto.
giovedì 2 febbraio 2012
Da "Disjecta" di Igino Ugo Tarchetti
Dove mi trasporti o incanto misterioso della fantasia? Io riveggo le antiche muraglie del tempio della foresta: inni ardenti di fede, canzoni d'amore eccheggiate sotto le sue volte, di voi non mi è rimasto che una memoria. Nelle tenebre della notte si versano le lacrime della natura: nel segreto della mia anima, io piango gli anni felici della mia giovinezza.
Oh ripide colline della mia valle! Oh consolanti reminiscenze della mia giovane vita! intendo la voce misteriosa delle vostre memorie. Agile cacciatore della montagna, chi potea togliermi la mia felicità? Ohimè! io non aveva peranco conosciuto l'amore. Oh lasciate che tornino al mio cuore queste memorie. Soave è il pensiero della felicità negli anni della sventura. Io sogno l'esistenza di quindici anni...
Oh lasciate, lasciate dunque che io sogni.
Più dolce del canto dell' usignuolo, più ardente dell'occhio della gazzella, erano la tua voce, e le tue pupille, o Malvina. Oh perchè non mi affatico io di dimenticarle? Cento notti trascorsero dall'ora della nostra separazione. Io benedico la notte, perocché dessa sia compagna della mia solitudine. Sola conobbe la nostra felicità, sola conosce la nostra sventura; splende il patetico raggio della luna, anche sull'infelice... Volgono ora nella mia anima tristi pensieri di morte, abbandonatemi al mio dolore... una morte io debbo piangere, ed è quella della mia giovinezza.
Come trascorrono le acque del fiume sotto la superficie gelata, così passano ignorati fra le lacrime, e velati da un sorriso menzognero i giorni della mia vita; il mio destino li ha numerati e il mio destino è governato dall'amore. E perchè dovrò io vivere senza di esso?... Voi non tornerete, o tiepide primavere, che per gli amanti felici... Cadono appassiti i vostri fiori dalle mani di un giovine sventurato. Benedetto il tempio, e le valli, e l'amore della mia fanciulla: essi passarono come la mia felicità: ma chi potrà rapirmene la memoria ? Essi verranno meco nella tomba della mia giovinezza.
(Igino Ugo Tarchetti, "Disjecta", Zanichelli , Bologna 1879, pp. 69-72)
I Canti del cuore di Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969) rappresentano qualcosa di straordinario nell’ambito della poesia italiana del XIX secolo; purtroppo, lo scrittore piemontese non li pubblicò mai in volume, anche a causa della sua prematura morte; perciò uscirono nel 1879, all’interno della raccolta postuma intitolata Disjecta, che comprendeva tutte le poesie di Tarchetti, già pubblicate in svariate riviste del secondo Ottocento. La straordinarietà dei Canti del cuore risiede nel fatto che sono delle prose poetiche, e furono scritte in tempi in cui tale forma letteraria era praticamente assente in Italia; soltanto in Francia, grazie a immensi poeti come Charles Baudelaire ed Arthur Rimbaud, la poesia in prosa si era già diffusa, ottenendo un notevole consenso di pubblico. Nel frammento che ho riportato, è facile riscontrare l’enorme talento di Tarchetti: un poeta a metà tra romanticismo e scapigliatura, che, almeno nelle prose dei Canti del cuore, mostra chiari influssi dalla poesia leopardiana.