domenica 9 marzo 2025

La poesia di Libero De Libero

 Lessi per la prima volta alcuni versi di Libero De Libero (Fondi 1903 - Roma 1981) grazie ad un paio di antologie della poesia italiana del XX secolo che, circa trent'anni fa, era facile trovare negli scaffali delle librerie romane. Più complicato fu per me rintracciare almeno una delle raccolte del poeta ciociaro nelle stesse librerie (comprese le più rifornite). Soltanto nel 2011, l'editore Bulzoni di Roma ha pubblicato un volume che contiene l'intera opera poetica di De Libero. 

Un po' tutti i critici più autorevoli inseriscono lo scrittore laziale nel ristretto ambito dell'ermetismo "meridionale", insieme a poeti come Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli e, soprattutto, Salvatore Quasimodo. Proprio Quasimodo e in parte Ungaretti, furono determinanti nella prima fase poetica di De Libero, che è anche la più importante. Ecco, a tal proposito, cosa scrisse il critico Gianni Pozzi nel famoso saggio La poesia italiana del Novecento:


  La poesia di Libero De Libero tenta di recuperare al linguaggio ermetico, ormai ridotto ad inerte rappresentazione lirico-letteraria, ad una libera ma esteriore combinazione sensibile d'immagini, la forza d'invenzione che i primi ermetici vi avevano cercato quando avevano frantumato con arbitraria risolutezza tutte le giunture sintattiche e grammaticali della lingua costituita per poter procedere più speditamente alla costruzione di un universo poetico originale.

  Certo, di fronte alle ambizioni estreme del Quasimodo di Erato e Apollion, questa poesia ha già perso di slancio e pathos cosmico. Tuttavia è ancora riconoscibile l'intenzione rigorosamente poematica che da Solstizio alle Odi a Proverbi, sovraintende alle continue costruzioni di analogie, relazioni, identità tra psiche e natura.

  Se la psiche, in una sequenza ininterrotta di metamorfosi, diventa natura e il paesaggio si scioglie continuamente in sentimento, non è soltanto perché nel clima di totalità lirica e di immediatezza sensibile dell'epigonismo raffinato del Novecento i confini tra esterno ed interno sono infranti; ma anche perché qui riescono ancora ingenuamente a sopravvivere i termini di una interpretazione naturalistica e cosmica dell'universo, che era poi quella del primo ermetismo, da Ungaretti a Quasimodo¹.


Lo stesso Pozzi si dimostra decisamente più severo, commentando la seconda fase poetica di De Libero:


[...] Sollecitata da una ispirazione ormai fuori stagione, la poesia di De Libero non raggiunge la maturità e il distacco della vera poesia. La struttura e l'intenzione poematica che potevano salvarla dalla esterna immediatezza sensistica e lirica non hanno più nemmeno lo slancio e l'abbandono al mistero della parola che giustificava, nel primo Quasimodo, la gratuità dello sforzo linguistico, la tensione orfica del canto².


La conclusione del critico ha toni nettamente negativi:


  Affidandosi ad una poetica in cui defluivano verso una ormai stanca estenuazione soprannaturale del linguaggio le premesse pstsimboliste di Ungaretti, la poesia di De Libero, ridotta a coltivare l'orticello dei residui analogici e cosmici della «parola», ritenta pateticamente in ritardo una strada che, con Quasimodo, aveva ormai concluso il suo ciclo inventivo³. 


Personalmente non sono d'accordo con quest'ultima conclusione di Pozzi, poiché leggendo i versi di De Libero appartenenti al periodo che va dall'immediato dopoguerra all'ultima raccolta pubblicata, pur riconoscendo che non possono essere equiparati a quelli antecedenti - che quindi rappresentano il miglior periodo del poeta laziale - ho trovato un cospicuo numero di liriche per nulla scadenti, anzi, ve ne sono diverse molto belle. Chiudo riportando quattro poesie di De Libero, tratte dal volume che le comprende tutte: le prime tre appartengono agli anni compresi tra il 1930 ed il 1956; l'ultima invece faceva parte della raccolta Di brace in brace, in cui il poeta radunò i versi scritti e pubblicati tra il 1956 ed il 1970. 


Libero De Libero



FRAMMENTO


Per un'estate continua

la mia ombra ricordo

avida dell'ombra tua.

A lente fiamme

portava il nostro amore

la cicala.

Su te un cielo d'occhi,

insidiosa favola.

Andava in polvere il sole

a fare nubi.


(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, p. 275)





MORTO MARE


Ascolto alberi marciare

lontano in preda alla collina

e nell'arena è prigioniero il mare,

morto mare di settembre.

In secco splendore

sabbia e luce si accoppiano,

nel cielo le nubi

imitano il morto mare

e la memoria è di sale.

Qualcuno nel bosco canta,

e me ne andrò nel bosco

a cercare chi canta il morto mare.


(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, p. 258)





TU ERI AMORE


Guarda chi sono

nel letto iroso d'insonnia.

Ero il giorno infinito allora,

e l'estate e il campo di luna,

ero l'ulivo d'agosto

quando nella voce pativa la voce.

Alla siepe dormente

tu eri amore.


(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, p. 244)





A LUME SPENTO


Non puoi contare i miei capelli,

mi carezzi il viso e tagli non vedi

né segni di cupa forbice e credi

che a schivare il tempo io continui

con salti nel vuoto e lunghi raggiri.

Al tuo piacere non voglio togliere

il caro inganno di parlarmi al buio,

e non dormire prima che sia giorno.


(da "Le poesie", Bulzoni, Roma 2011, p. 106)



NOTE

1) Da: Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento: Da Gozzano agli Ermetici, Einaudi, Torino 1989, p. 281.

2) Ibidem, p. 285.

3) Ibidem, p. 285.

domenica 2 marzo 2025

L'infanzia in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Il bambino non conosce malizia, né falsità e malevolenza: quando parla, dice ciò che sente; se sorride è perché la gioia è dentro di lui. Il bambino ha occhi limpidi, e se ti guarda con insistenza lo fa soltanto per curiosità; quando ascolta la tua voce, cerca solamente di comprendere bene cosa gli stai dicendo. Il bambino vive in una terra che non è uguale alla tua: è qualcosa di simile ad un paradiso terrestre, dove non esiste il male e tanto meno l'odio. Ma l'infanzia non dura tutta la vita, e il bambino è destinato a diventare un adolescente, quindi un ragazzo e infine un uomo. I suoi occhi e la sua anima cambieranno velocemente, e da adulto perderà tutta la purezza e tutta l'innocenza che gli apparteneva. Pure, gli rimarranno i ricordi di quel periodo favoloso e irripetibile che viene chiamato fanciullezza; penserà spesso a quei giorni meravigliosi, che gli appariranno sempre più lontani. Si chiederà, quando giungerà quasi alla fine della sua esistenza, se valga la pena vivere tanti anni inutilmente, visto che le straordinarie sensazioni provate nell'età infantile sono qualcosa d'irripetibile. 



L'INFANZIA IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO




FANCIULLEZZA

di Guido Cavani (1897-1967)


Io ricordo i giorni malandati,

i giorni ammalati

dietro grossi crepuscoli d'argento;

l'aria era pesa

d'umidità;


ed io avevo un sentore autunnale

d'erba nei panni

e croste di mota nei ginocchi,

avevo fatto i balocchi

con l'anima dei compagni.


Era d'oro il mio capo di bambino,

come la luna

lavata dalla pioggia,

che passava fra i boschi delle nubi.


Mia Madre chiamava dentro il buio

della casa ed io sazio

rispondevo al suo povero strazio

con gli echi.


(da "Poesie", Rebellato, Padova 1968, p. 17)





INFANZIA

di Ferdinando Cogni (1919-2007)


Ecco forse qual è la differenza

fra la vita di adesso e quella invece

che avevo da bambino. Allora tutto

mi appariva creato per l'eterno.

Ora su tutto vedo trasalire

un'ombra che m'attesta della fine.


(da "Motivi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1957, p. 10)





LA FANCIULLEZZA

di Giuseppe Cosmi (1913-1937)


Molti già fummo amici;

ora non più.

Lungo le foci, nei tramonti,

nudi trasparimmo:

piccole costole palesi

i nostri petti,

gioco di luci

il battito del cuore.

Tingeva i rami

il rosato della sera

in cui nidificava il nostro gioco.

La caduta ci rapiva

un grido, leggeri

uccelli in fuga.

A fior d'erba

pasturammo coll'alba

le rugiade, lungo le prode

ombrose ove fiorivano

le nostre mani

come pallidi gigli.

Il tempo era senza misura:

finché, riottosi, al giogo

d'una triste sorte avvinti

cercammo ad occhi sbarrati

la fuga delle ore.

Celammo entro le brevi

vesti ricche di strappi

la nuda felicità

delle folli corse

premiate di cadute.

Ci crollarono le spiche

dell'estate sulle strette spalle

e ci punsero il collo

d'un vivo desiderio.


      11 Gennaio 1934-XII


(da "Liriche", Amazon Italia Logistica, Torrazza Piemonte 2023, pp. 26-27)





UN PO' DI FANCIULLEZZA PER TUTTI

di Luciano Folgore (Omero Vecchi, 1888-1966)


Un orso di stoffa bianca

con un lungo nastro di seta,

e un bimbo vestito di velluto rosso

che strascina il suo giuocattolo

sui marciapiedi dell'inverno dolce.


Tutti gli occhi guardano,

tutte le età dei passanti

si sporgono su questa

indifferenza dorata di bimbo,

che cammina

seguito da un piccolo tesoro di pezza.

       E nell'aria

fili di malinconia

per l'infanzia perduta

da molti anni

nei minuti più densi,

nelle spirali concentriche del pensiero

desideroso d'un vertice

che non esiste.


Ma perché tanta tristezza?

E le nostre carrozze?

e le nostre donne belle?

e i fiori le piste le giostre

gli amori tra i sogni e i crepuscoli?

Bambole,

divertimenti,

giuocattoli.

Niente altro che questo.


Dunque avanti ancora,

per sempre,

con l'indifferenza dorata

del bimbo vestito di rosso,

che si trascina l'orso di pezza

per i lunghi marciapiedi della vita.


(da "Città veloce", La Voce, Roma 1919, pp. 70-71)





INFANZIA

di Alfonso Gatto (1909-1976)


Il bambino sorpreso alla finestra

della sera tranquilla, odorava

la leggerezza tepida dei fiori

sollevati nell’aria celeste.

Inquietamente raccoglieva il volto

in un silenzio scolorito

e calmo la sua vergogna ridonava

all’impalpabile sera

assiepata dall’erbe e dai tetti.

Sognava: nella piazzetta antica

la chiesa era un piccolo chiosco

con la bandierina allegra:

alla cupola di maiolica

s’illuminavano gli scarabei

sulle lastre d’acqua verdina.

Il silenzio dell’umido erboso

acquetava le scale,

i balconcini coi tralci, le stive

dei fondaci colmi di frutta.

Così s’accendeva il fanale,

a poco a poco aggregato dall’acque,

sulla laguna invernale.

Affondavano le case

in lontananze distrutte,

sgretolate senza rumore:

trasaliva il bambino invecchiato

intirizzito all’ombrello.


Andava a trovare i suoi morti

rinchiusi in armadi sconnessi:

traboccava allegra pioggia

sul piccolo porto di legno,

ed una gioia strana

lo flagellava col vento

in un presagio del mare.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2005, pp. 14-15)





FANCIULLEZZA NOSTRA E DELLE COSE

di Mario Luzi (1914-2005)


Smarrivamo la traccia dei destini

né profondi volti degli uomini sconosciuti,

il frutto delle stagioni

nel soffio che dà vani colori

ai capelli delle mamme, ai fiori;

la forza d'ignote passioni

nelle voci come fonti

inaridite, la morte

vicina alle palpebre assopite.


Vibrano leggere lune nelle notti straniere

e l'azzurra profondità dei venti sussurra

un'immensa maternità

pel tutto che è vivo, è distrutto.


Oh tanta fanciullezza è nelle cose

dolorose, tanta bramosia d'una mamma forte

che in seno come un caldo latte

d'amore sprema per ognuno la morte.

Dai borghi oscuri alle porte

le mogli guardano i dolci ritorni serali

nei pendii delle vigne autunnali e un giorno

un corpo pallido

affondar nella terra il seno inadorno.


(da "Poesie ritrovate", Garzanti, Milano 2003, p. 65)





INFANZIA

di Tito Marrone (Sebastiano Amedeo Marrone, 1882-1967)


Mi dono l'infanzia. La vivo

come non era, velata

fra tele di ragno, più ferme

dei vincoli d'una prigione.

Sento un arcobaleno

dal cielo alla terra. Chi canta?

Mia madre s'indora

nel sole che nasce.


Eternità della mia vita vera,

fiammante dentro mondi

sereni, ti raggiungo.

Ora, io vivo l'infanzia.


(da "Esilio della mia vita", Edizioni «Pagine Nuove», Roma 1950, p. 145)





INFANZIA

di Arturo Onofri (1885-1928)


Intreccio d'ombre e di rami

tutta una cosa col cielo!

Tre cornacchie che hanno il nido in un pino

strillano d'allegria per così poco.

C'è un sospiro d'aria appena,

una dolce calma di sole calato,

e nel cielo liscio una stella

che ammicca a un barchetto dorato.

Ecco la navicella

che scivola a fil di cielo

portando nell'aria serena

i sogni dei bambini

che intanto stanno a cena.

Che odore d'infanzia e di favole!

Misteri che sveglia la notte

venuta a sedersi sul mucchio di breccia...

Un calabrone in ritardo

traversa il viale come una freccia

e fila via pel cancello

verso i lumi che nascono là nel paesello

tra le campane allibite di paura

per non svegliar le civette

nei cipressi affacciati alle mura.

Zitti! La notte s'è sdraiata sul prato...

Con un dito nella boccuccia di rosa

mio figlio s'è addormentato.


(da "Orchestrine. Arioso", Neri Pozza, Venezia 1959, p. 105)





INFANZIA

di Sergio Ortolani (1896-1949)


Sei tu. Dall’ombra ancora a me ti attiro,

sfioro le trecce, gli occhi avidi, grandi.

Tu ti raccogli stretta al mio sospiro;

lagrimi, perché baci io ti domandi.


E ribeviamo in noi le acute voci

dell’infanzia, le risa della veglia,

le preci, i pianti timidi e precoci,

i primi canti al cuor che si risveglia.


Così amore ci avvolge e ci raddorme;

ma quando affranto io risalisco il giorno,

mi rubo in fretta alle tue dure forme,

e ti prego l’addio, non il ritorno.


Roma 1924-Napoli 1941


(da "Poesie 1914-1948", Mondadori, Milano 1957, p. 155)





INFANZIA

di Antonia Pozzi (1912-1938)


Il mare

alle finestre

cadeva.

Onde verdi infrante

tinnivano sui vetri.

Era antica

la casa.

A piedi scalzi

tu correvi gli scogli:

ti tuffavi

per rubare le vongole gettate

dai pescatori.

A mezzogiorno

dal balcone del palazzo

una campana chiamava a riva

la tua gioia assolata

di bambino.


3 marzo 1935


(da "Parole", Garzanti, Milano 1998, p. 236)



Seymour Joseph Guy, "Who Is It?"
(da questa pagina web)



sabato 22 febbraio 2025

Cane randagio

 

Chinar la testa che vale?

e che val nova fermezza?

Io sento in me la tristezza

del giorno domenicale,

 

lentamente camminando

per la città sconosciuta

dove nessuno mi saluta

fuor che un cane a quando a quando.

 

nessuno pensa ch'io posso

essere il triste mendico

che chiede, invece che un tozzo

di pane, un palpito amico;

 

nessuno sa ch'io mi lagno

e vago senza perché,

nessuno fuorché

tu, mio raccolto compagno.

 

Tu che hai sul ciglio due buone

lacrime ancor da seccare,

tu che pur cerchi un padrone

come io cerco un focolare;

 

tu che mi segui sperando

ch'io possa darti l'avanzo

d'un malinconico pranzo

o una carezza o un comando;

 

tu che hai l'aspetto burlone

d'un tale che mi ammonì

e fosti tu il mite Leone

o fosti il molle Joli;

 

tu che avesti per amico

l'organo di Barberia

che dona al cuore mendico

un soldo di nostalgia;

 

tu che dimeni la coda

alle mie lorde calcagna

quasi ch'io fossi una cagna,

una cagnetta alla moda;

 

tu che cerchi d'annusare

le mie scarpe tratto tratto

perché vuoi lor dimandare

quanti chilometri han fatto.

 




COMMENTO

Ecco una "classica" poesia di Marino Moretti (Cesenatico 1885 - ivi 1979), ovvero del poeta crepuscolare per antonomasia. Comparve per la prima volta, col titolo La domenica dei cani randagi, nel volume di versi più famoso del poeta romagnolo: Poesie scritte col lapis (1910); qui si trovava all'interno della sezione Le domeniche, che conteneva una serie di poesie "domenicali", dove Moretti metteva in primo piano tutta una serie di atmosfere, pensieri, personaggi e situazioni che caratterizzavano la noiosa vita di provincia all'inizio del XX secolo. Col titolo e con il testo che ho riportato, la medesima poesia si trova in un altro volume intitolato Poesie scritte col lapis, pubblicato da Mondadori nel 1970; qui Cane randagio rientra nella sezione che porta lo stesso titolo del libro, il quale raccoglie i versi più significativi, rielaborati e modificati dall'autore, della prima parte dell'opera poetica di Moretti.

Per quanto riguarda il contenuto, si parla di una domenica trascorsa dal poeta annoiato e triste, vagabondando per la sua cittadina, in cerca di qualcosa e di qualcuno che non riesce a trovare; l'unico essere vivente che lo avvicina è un cane randagio, col quale l'uomo si ritrova a dialogare (un dialogo fatto di sguardi e, forse, di carezze); così, la solitudine del poeta si rispecchia con quella dello sventurato animale, e si crea una sorta di simbiosi tra i due, divenuti compagni di strada in quel giorno festivo. Difficile interpretare alcuni versi che parlano di un "mite leone", che potrebbe essere quello famigerato comparso a San Marco secondo una leggenda; oppure il "molle Joli" del verso successivo (joli, in francese significa carino, ma non mi risulta alcun personaggio storico o letterario con questo nome). In un altro verso si cita, infine, un oggetto che potremmo definire emblematico o simbolico dell'intero movimento crepuscolare: l'organo di Barberia, ovvero l'organetto a manovella molto in voga nella seconda metà del XIX secolo, usato soprattutto dai suonatori ambulanti e reso celebre prima da alcuni poeti francesi (fra i quali Paul Verlaine), e poi dai nostri crepuscolari.

domenica 16 febbraio 2025

Riviste: "La Brigata"

 La Brigata è il titolo di una rivista letteraria che uscì a Bologna tra il giugno del 1916 e lo stesso mese del 1919. La sua nascita si deve a Bino Binazzi (1878-1930) e a Francesco Meriano (1896-1934): due scrittori che già si erano fatti notare con qualche opera in versi e con pubblicazioni su altre riviste prestigiose dello stesso periodo, come Lacerba e La Diana. La Brigata si distinse per delle posizioni ben precise, riguardo avanguardie letterarie altamente sperimentali come il Futurismo; gli intellettuali della rivista bolognese vollero, in tal senso, fare un passo indietro, avendo ancora come punto di riferimento principale i grandi poeti italiani della tradizione più recente: Carducci, Pascoli e D'Annunzio; tuttavia non abbandonarono del tutto uno sperimentalismo che si limitò all'adozione del verso libero e del frammento in prosa o in versi, caro all'ambiente dei "vociani". Ecco infine tre poesie che furono pubblicate nelle pagine de La Brigata. 


Prima pagina del numero 1 della rivista "La Brigata"
(da questa pagina web)



VELENO

di Francesco Meriano (1896-1934)


  O mia giornata sorta tra il fumo delle locomotive e gli urli vinosi dei soldati, fiore velenoso dal putrido terreno d'un cimitero abbandonato. Guanciali flosci di albergo dove tante teste si posarono e tanti tormentosi pensieri non ebbero pace. L'ireos volgarissimo dell'attrice nella stanza attigua è l'odore della prima donna che mi ebbe. Il tanfo dei ricordi mi assale. Momenti vissuti aggrovigliati, canapo scorsoio che mozza il respiro. Partiremo tra breve, mattino annoiato che lentissimamente si svolge, accanto al fiume sanioso che stagna in pallidi laghi la sua stanca mestizia. Ciuffi malvagi di verde, strade inutili e solitarie. La terra è malata. 

  Non c'è che questo treno che rotola, nel mondo, e un uomo che mi guarda stupito.

  Ma se nell'aria inerte freschissimo vola il pensiero di te, come un'onda di profumi deliranti, ecco, so ancor sopportare, nella contemplazione della tua pura bellezza, la mia vagabonda empietà.


(da «La Brigata», agosto/settembre 1916)





MATTINO

di Diego Valeri (1887-1976)


                                                                         a Elena Fambri

Batte il mattino al ferrigno bastione

dei nuvoloni notturni: repente

s'apre una lunga fessura lucente,

scoppia uno squarcio di fiamma più su.


Un razzo d'oro: e un sussulto, un tremore

d'oro per l'ombre: oro a rivoli, a onde...

Più in alto: spiaggie di nuvole bionde,

calme e profonde lagune di blu.


(in treno - Milano-Bologna - 1917).


(da «La Brigata», ottobre/novembre 1917)





MA SÌ, SEMPRE

di Sibilla Aleramo (Marta Felicina Faccio, 1876-1960)


Sento che sorrido,

intenerita,

vi è grazia vi è quasi pudore

in questo che m'investe,

sola,

puerile tremore,

oh luce tra le rame fiorate,

sera che avvicini la primavera,

sento che sorrido,

intenerita,

così tersa così lieve e presente

la vita,

con un suo senso anch'essa di casto bene

ridente,

di un'ora che torna, torna, ma sì, sempre,

di un'ora sospesa…


(da «La Brigata», marzo/aprile 1918)

domenica 9 febbraio 2025

Le risa nella poesia italiana decadente e simbolista

 In questo post ho voluto riunire le poesie - non molte in verità - in cui i poeti italiani decadenti e simbolisti mettono al centro delle loro dissertazioni poetiche la risata, lo sghignazzo, ma anche il semplice sorriso o la malevola derisione. L'argomento, quindi, presenta diversi aspetti ed evidenzia nette contrapposizioni. Il riso ed il sorriso femminile, qui rappresentato dalle poesie di Orvieto, Mastri e Chiaves, vuole simboleggiare qualcosa di estremamente positivo: un invito alla vita, una dimostrazione di simpatia o d'amore. C'è poi il riso "forzato", ovvero quello che si fa per nascondere tutt'altro stato d'animo, e diventa, quindi, una maschera più o meno volontaria (ne fanno testo la seconda poesia di Mastri e quelle di Adobati e Tecchio). Quindi c'è il riso inconscio, della propria anima, che si manifesta anche quando quest'ultima ha vissuto situazioni sfavorevoli e deprimenti (si legga, a tal proposito, la poesia di Oxilia). La derisione è qui rappresentata dalla lirica di Govoni intitolata Ai vili: il poeta si rivolge a chi lo beffa, mostrando tutto il suo rancore, perché costoro sono inconsapevoli della sofferenza interiore provata da chi, ingiustamente, viene giudicato soltanto per degli aspetti superficiali. Infine non si può tralasciare, nei versi di Sinadinò, quel riso frenetico che fa da tramite all’assunzione al “furore della Festa”, leggibile in una delle prime pagine del volume poetico altamente rivoluzionario ed ermetico del poeta forse più rappresentativo del simbolismo nostrano.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Insegnamento del riso" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Giuseppe Casalinuovo: "Corro nelle campagne moribonde" in "Dall'ombra" (1907).

Francesco Cazzamini Mussi: "Ozio" in "Le amare voluttà" (1910).

Carlo Chiaves: "Invocazione" in "Sogno e ironia" (1910).

Guelfo Civinini: "Un riso nell'alba" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Sergio Corazzini: "Il dubbio" in «Marforio», gennaio 1903.

Corrado Govoni: "Ai vili" in "Le Fiale" (1903).

Corrado Govoni: "Il riso" e "Il tuo sorriso" in "Gli aborti" (1907).

Arturo Graf: "Il riso" in "Le Rime della Selva" (1906).

Pietro Mastri: "Sorriso" in "L'arcobaleno" (1900).

Pietro Mastri: "L'uomo che ride sempre" in "La fronda oscillante" (1923).

Angiolo Orvieto: "Il sorriso" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Nino Oxilia: "Perchè?" in "Gli orti" (1918).

Agostino John Sinadinò: "- Ora sono assunto al furore della Festa -" in "La Festa" (1900).

Giovanni Tecchio: "A un sognatore" in "Canti" (1931).

Giuseppe Villaroel: "Vibrazione" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).

 

 

 

 

Testi

 

 

IL DUBBIO

di Sergio Corazzini (1886-1907)

 

Ieri lo vidi: è bello, è bello ancora

come tanti anni or sono! m’ha guardato,

e ha sorriso di sprezzo, io l’ho chiamato...

 

Forse non mi sentì...forse dell’ora

tremenda ei già se n’è dimenticato

e mi schiva, mi odia, o egli ignora

che v’è un’anima al mondo che l’adora

 

e che lo sogna come un dí lo ha amato!

Ma no, ma no non esser tanto umile

anima mia che mendichi un amico,

 

che atroce sprezzo ti gettò sul viso!

Va', sorridi anche tu, anima vile

di sprezzo verso lui! Sorrido e dico:

almen come il suo riso è il mio sorriso!

 

(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1992, p. 232)

 

 

 

 

ORA, SONO ASSUNTO AL FURORE DELLA FESTA

di Agostino John Sinadinò (1876-1956)

 

- Ora, sono assunto al furore della Festa -

 

      Per questo riso, per questo riso frene-

tico che m'assale e che mi scuote come

un turbine l'albero sacro, perché doni

alla terra i suoi frutti,

                         sono assunto al furore della Festa.

 

 

- Una torrida luce m'invade -

 

      Chi mi ascolta, di tra la febbre e i clamori,

chi mi ascolta, - me, centrale -, nel raggio

di questo mondo maraviglioso mio, di

questo universo ammansato soggetto obbediente?

Ma chi m'ascolta, in terra?

 

      - Susciterò una orchestra di bronzi

limpida e d'ori;

                clamerà verticale alle stelle:

     

      Sono assunto al furore della FESTA.

 

Ma chi m'ascolta in terra?

 

    Ora sono assunto al furore della Festa.

 

 

                         (...profferisce l'Orchestra)

 

(da "Solennità: La Festa", Tessin-Touriste, Lugano 1901, p. 11)

 


Pierre-Auguste Renoir, "Lady Smiling, Portrait of Alphonsine Fournaise"




domenica 2 febbraio 2025

Antologie: "Quarta generazione"

 Quarta generazione è il titolo di un'antologia poetica realizzata dal Piero Chiara (1913-1986) e Luciano Erba (1922-2010), e pubblicata dall'editore Magenta di Varese nel 1954. Più precisamente, si tratta di un'antologia settoriale, che vuole prendere in considerazione - come precisa il sottotitolo - la giovane poesia italiana che si sviluppò nel decennio successivo alla fine della 2° Guerra Mondiale. Questa è una delle tante opere antologiche del primo decennio del secondo Novecento, dedicate alle nuove generazioni di poeti italiani; tra le altre si ricordano Poeti nuovi (1950 e 1958) a cura di Ugo Fasolo, Linea lombarda (1952) a cura di Luciano Anceschi e La giovane poesia (1956 e 1957) a cura di Enrico Falqui. Prendendo spunto da un saggio di Lucio Vetri, che è l'appendice della ristampa di un famosissimo volume di Luciano Anceschi: Le poetiche del Novecento in Italia (Marsilio, Venezia 1990), risulta evidente che la poesia italiana del secondo dopoguerra si sviluppò in tre ben delineate tendenze: quella "neorealista", quella "lombarda" e quella "sperimentalista". Leggendo i versi presenti in quest'antologia, risulta chiaro che i curatori hanno privilegiato la seconda tendenza, già paventata da Anceschi nella citata opera del 1952. Ciò è chiaro non solo per il fatto che, dei 33 poeti qui selezionati, ben 13 sono nati in Lombardia, ma anche perché sono ampiamente trascurate (se non ignorate) le altre due tendenze di cui ho parlato. Sempre rifacendomi al saggio di Vetri, si deduce che i due curatori abbiano voluto porre l'attenzione su un tipo di scrittura in versi avente come punto di riferimento un poeta che allora si poteva definire ancora giovane: Vittorio Sereni, e, per suo tramite, il già consacrato Eugenio Montale; inoltre, si notano dei collegamenti più o meno palesi con i temi cari alla tradizione poetica lombarda dell'illuminismo (Parini e Manzoni); infine, si possono identificare delle tracce che riconducono a certa poesia anglosassone (Pound e Eliot in particolare). C'è poi una non celata intenzione di superare la fase ermetica che aveva caratterizzato la poesia italiana negli anni prima della guerra (all'incirca dal 1930 al 1940). Per quanto riguarda le due tendenze poco rappresentate, si può notare che siano stati salvati soltanto pochi poeti; tra di essi Vittorio Bodini, David Maria Turoldo, Bartolo Cattafi, Pier Paolo Pasolini, Elio Filippo Accrocca, Rocco Scotellaro e Paolo Volponi. Con la definizione di "quarta generazione", Chiara ed Erba probabilmente intendevano raggruppare quei poeti ancora giovani, che nell'anno di uscita dell'antologia avessero al massimo trent'anni; fa eccezione il solo Michele Pierri, nato nel 1899; è pur vero che tale poeta si rivelò al pubblico nei primi anni '50 del XX secolo con alcune raccolte memorabili, ben degne di figurare nell'opera antologica in questione. Ecco, infine, i nomi dei poeti presenti in Quarta generazione.




QUARTA GENERAZIONE


Umberto Bellintani, Vittorio Bodini, Margherita Guidacci, Pier Paolo Pasolini, Bartolo Cattafi, David Maria Turoldo, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani, Paolo Volponi, Giorgio Orelli, Luciano Budigna, Rocco Scotellaro, Alda Merini, Nelo Risi, Luigi Capelli, Federico Almansi, Elio Filippo Accrocca, Michele Pierri, Giorgio Soavi, Biagia Marniti, Renzo Modesti, Gian Carlo Artoni, Gian Piero Bona, Romeo Lucchese, Gaio Fratini, Luciano Erba, Marco Visconti, Luciana Guatelli, Giuliano Gramigna, Giorgio Simonotti Manacorda, Giacomo Campiotti, Alberico Sala, Bruno Conti.