Chinar la testa
che vale?
e che val nova
fermezza?
Io sento in me la
tristezza
del giorno
domenicale,
lentamente
camminando
per la città
sconosciuta
dove nessuno mi
saluta
fuor che un cane
a quando a quando.
nessuno pensa
ch'io posso
essere il triste
mendico
che chiede,
invece che un tozzo
di pane, un
palpito amico;
nessuno sa ch'io
mi lagno
e vago senza
perché,
nessuno fuorché
tu, mio raccolto
compagno.
Tu che hai sul
ciglio due buone
lacrime ancor da
seccare,
tu che pur cerchi
un padrone
come io cerco un
focolare;
tu che mi segui
sperando
ch'io possa darti
l'avanzo
d'un malinconico
pranzo
o una carezza o
un comando;
tu che hai
l'aspetto burlone
d'un tale che mi
ammonì
e fosti tu il
mite Leone
o fosti il molle
Joli;
tu che avesti per
amico
l'organo di
Barberia
che dona al cuore
mendico
un soldo di
nostalgia;
tu che dimeni la
coda
alle mie lorde
calcagna
quasi ch'io fossi
una cagna,
una cagnetta alla
moda;
tu che cerchi
d'annusare
le mie scarpe
tratto tratto
perché vuoi lor
dimandare
quanti chilometri
han fatto.
Ecco una
"classica" poesia di Marino Moretti (Cesenatico 1885 - ivi 1979), ovvero del poeta crepuscolare
per antonomasia. Comparve per la prima volta, col titolo La domenica dei cani randagi, nel volume di versi più famoso del
poeta romagnolo: Poesie scritte col lapis
(1910); qui si trovava all'interno della sezione Le domeniche, che conteneva una serie di poesie
"domenicali", dove Moretti metteva in primo piano tutta una serie di
atmosfere, pensieri, personaggi e situazioni che caratterizzavano la noiosa vita
di provincia all'inizio del XX secolo. Col titolo e con il testo che ho
riportato, la medesima poesia si trova in un altro volume intitolato Poesie scritte col lapis, pubblicato da
Mondadori nel 1970; qui Cane randagio
rientra nella sezione che porta lo stesso titolo del libro, il quale raccoglie
i versi più significativi, rielaborati e modificati dall'autore, della prima
parte dell'opera poetica di Moretti.
Per quanto
riguarda il contenuto, si parla di una domenica trascorsa dal poeta annoiato e
triste, vagabondando per la sua cittadina, in cerca di qualcosa e di qualcuno
che non riesce a trovare; l'unico essere vivente che lo avvicina è un cane
randagio, col quale l'uomo si ritrova a dialogare (un dialogo fatto di sguardi
e, forse, di carezze); così, la solitudine del poeta si rispecchia con quella
dello sventurato animale, e si crea una sorta di simbiosi tra i due, divenuti
compagni di strada in quel giorno festivo. Difficile interpretare alcuni versi
che parlano di un "mite leone", che potrebbe essere quello famigerato
comparso a San Marco secondo una leggenda; oppure il "molle Joli" del
verso successivo (joli, in francese
significa carino, ma non mi risulta
alcun personaggio storico o letterario con questo nome). In un altro verso si
cita, infine, un oggetto che potremmo definire emblematico o simbolico
dell'intero movimento crepuscolare: l'organo di Barberia, ovvero l'organetto a
manovella molto in voga nella seconda metà del XIX secolo, usato soprattutto
dai suonatori ambulanti e reso celebre prima da alcuni poeti francesi (fra i
quali Paul Verlaine), e poi dai nostri crepuscolari.
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