domenica 16 marzo 2014

La primavera in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Io e Maria, questa mattina che marzo finalmente ci offre un sole caldo, siamo usciti e ci siamo addentrati in una strada di campagna. Camminavamo placidi e felici, guardando intorno a noi le piante rifiorire, i prati più verdi del solito, gli animali e le poche persone che incontravamo lungo il nostro cammino senza una meta. Non pensavo fosse tanto bello camminare spensierati, in un bel giorno di marzo, quando la primavera fa capolino. In me, oggi, improvvisamente sono rinati tanti pensieri meravigliosi, che si erano nascosti dentro la mia mente (chissà dove!); ho parlato con Maria di noi, dei bei ricordi che ci accomunano, di questa giornata della nostra vita che, probabilmente, non dimenticheremo mai più. Lei mi ha sorriso, voltandosi dalla mia parte mentre il sole illuminava il suo bel viso, e mi ha detto “sì”.




PRIMAVERA

di Alessandro Poerio (1802-1848)

Da le nubi feconde 
Primavera giù piove e rugiadosa 
Da la terra riesce, 
Sovra l’acque si posa, 
All’aure fuggitive 
Con l’alito si mesce, 
Si trascolora di volubil luce, 
E in ogni petto vive.

Eppur, mentre ogni petto 
Ne bee tanto diletto, 
Una mestizia trepida e segreta 
Profondamente induce; 
Qual giovin donna e lieta 
Che, mentre t’empie di dolcezza il core, 
Spira l’affanno donde nasce amore. 
Per questa terra d’ubertà felice, 
Che facile risponde 
All’eterea vezzosa allettatrice, 
Mio sguardo erra e soggiorna; 
Ma il pensier se ne vola 
Assai lungi e ritorna 
Ignudo e disïoso alla parola.

Forte m’invoglio ove riposta valle 
Giace, quivi gittar le stanche membra. 
La chiusa solitudine del loco 
Riposo antico e mia pace mi sembra, 
A cui non venni per girar di calle, 
Ma come augello ad inaccesso nido. 
Perché sì pieno error dura sì poco? 
Del mondo ch’io lasciai dietro le spalle 
Pur mi raggiunge il grido.

E in te, riso de l’anno, in te possente 
Ebbrezza di Natura, eterne vie 
Di futuro dolor trova la mente. 
Come fuor de la notte il sonno balza, 
E rende al sol le cose 
Cui già la nova tenebria minaccia, 
Tale dal verno primavera, ed alza 
La bellissima faccia, 
E fa intorno fiorir le piante e l’erbe; 
Vivaci, inconsapevoli di morte, 
Brevemente superbe.

(Da "Poesie", Carabba, Lanciano 1917)




PRIMAVERA
di Giovanni Prati (1814-1884)

Primavera non vien fuor che una volta 
A fiorir l'anno: e quando 
Dal canestro versò l'ultima rosa, 
La bella Giovinetta in sé raccolta 
Parte da noi, lasciando 
Un soave ricordo in ogni cosa. 
Delle rugiade il pianto 
Resta all'alba: alla siepe un fil d'odore: 
A qualche gelso un canto 
Di solingo augelletto: 
E resta all'uman petto 
Una malinconia che sembra amore. 
Poi s'imbionda la spica 
Al povero colono: 
Sotto i cocenti lampi 
Di Febo s'affatica 
Il falciator pe' campi: 
Di plaustri le callaie 
Stridono: e, misurato alle promesse, 
Ne' portici e per l'aie 
Splende l'or della messe. 
E tutto questo è dono 
Dell'olimpica Figlia, 
Che va pellegrinando 
Sotto le terre; e non so come o quando 
Dolcemente scompiglia 
I piccioletti germi e li conduce 
Fuor nella rosea luce. 
Indi s'avanza il dio 
Che aggioga al carro i pardi: 
E fiamme dagli sguardi 
Lancian Polinnia e Clio, 
Mentre il sacro licor ferve e s'affina 
Nell'anfora divina, 
E coi corimbi in testa 
Menan le Madri sul Pangèo la festa. 
Poi gialliscon le foglie 
E cadono: s'accampa 
Di fuor la buffa: e nelle interne soglie, 
Mentre luce la vampa 
Sui vasti focolari, 
Novellando si va di cose arcane. 
Ha già varcato i mari 
La rondinella: senza voi rimane 
il pecchietto alle siepi e senza grido 
La cingallegra al nido: 
Con suo mugolo roco 
S'aggomitola al foco 
Il can sull'ora bruna 
O all'uscio, per entrar, raspa e si lagna; 
Fiori di gel sui vetri 
Ricama il verno: e gli alberi alla luna 
Paiono bianchi spetri 
Per l'immensa campagna. 
Ohimè dagli occhi miei 
Per clivo per riviera 
Ove fuggita sei 
Fanciulla Primavera? 
Come attesi l'amante al tempo verde 
Attendo io te: né perde, 
Benché tu mi sia tolta, 
La sua speranza il cor. Più d'una volta, 
È ver, tu, giovinetta 
Primavera, non vieni a fiorir l'anno: 
Ma quando se ne vanno 
L'ultime nevi e spunta 
La prima violetta 
Cantan tutte le terre: «È giunta, è giunta 
La Fanciulla gioconda!» 
E il riso e il canto abbonda 
Per l'acque immense e per gl'immensi cieli, 
E in radiosi veli 
Sovra il Saturnio altare 
Sin la tacita e grande Iside appare. 

O Primavera, eterna 
Per l'arcana natura 
E sì breve per noi, chi ti governa 
il virgineo pensier? chi prende in cura 
Le tue sembianze belle? 
Da qual poter tu mossa 
Vieni beata e vai? Forse tu vivi 
Al di là delle stelle, 
Al di là della fossa 
E in quel campo fiorito 
A te ci attendi privi 
Di fastidio e dolor schiatta immortale? 
Che in verità non vale 
La poca ora di qua tanto infinito 
Delirar di dottrine e di speranze. 
E queste ambigue stanze 
Che per antico danno 
Abitiam colla Morte, un dì saranno 
Trasfigurate in una 
Primavera senz'ombra e mutamento, 
Ove né sol, né luna 
Né mar d'acque, né vento 
Né nulla agiterà nostro intelletto, 
Tranne il proprio diletto 
D'amar senza confine. 
Primavere divine, 
Io vi sogno sovente: e il sognar mio 
Fa che talor né invano 
Son primavera anch'io: 
E con gorgheggio arcano 
Qui nella mente il rosignol mi geme, 
Qui nella mente mi tremola il fiore, 
E una fresc'onda preme 
E una fresc'aura il core; 
E a quanto ascolto e miro 
Di grande e di gentile  
Con infinita voluttà sospiro 
Come a un eterno Aprile.

(Da "Iside", Tipografia del Senato, Roma 1878)




SPUNTA IL MATTINO E L'ALBA È SCOLORATA
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869)

Spunta il mattino e l'alba e scolorata,
Sul salice novello
Il passero dall'ale
Si scote indolenzito la brinata,
Tace la valle e tacciono gli steli,
Fischiano i venti e le recenti gemme
Stillan di pioggia al ritornar de'geli:
E intanto nel cespuglio e nel roveto
Un mesto fior si schiude,
Si schiude una viola.
La viola bruna — il fior di sepolcreto.
Oh che sì mesta fossi
Nel libro di lassù scritto non era,
O mattin di natura, o primavera!

Del quinto lustro appena
Dolorando così volo su l'ale,
E una cura profonda,
E un avido desire
Smanioso della tomba il cor mi assale.
Delle deserte stanze
Apro le imposte e miro
La soffrente natura,
E nell'appeso speglio,
Le disfatte sembianze,
Che il gelo del dolor strusse repente.
Pur gioventù mi arride e in ciel non eri
Certo così segnata
Di precoce vecchiezza,
O mattin della vita, o giovinezza!

Qual fato dunque, qual terribil fato
Ha le stabili leggi
Di natura mutato?
Stille di pioggia e gemme disseccate,
Poveri fior recisi,
Vergini volti e guancie giovinette
Di lacrime solcate...
Tale il mondo affatica e mi assecura
Di rapida rovina
Un'arcana sventura;
Né a te fu dato, a te, stagion novella,
D'intatti fiori ornarti;
Né a te di gioie assaporar l'ebbrezza,
O mattin della vita o giovinezza!

(Da "Disjecta", Zanichelli, Bologna 1879)




PRIMAVERA
di Arturo Graf (1848-1913)

Torna l’aprile e si rinnova il mondo,
E tutta un riso la natura appare:
De’ primi fiori inghirlandate, o care
Fanciulle, il crine inanellato e biondo.

Torna l’aprile ed in leggiadre gare
Apre natura il suo spirto profondo:
Sciogliete, o care vergini, a giocondo
Inno le voci armoniose e chiare.

Esultate, esultate al dolce orezzo.
Ché a voi s’addice e a vostra età fiorita,
Obblivïosa di una certa sorte:

Non a me, cui dà noja e fa ribrezzo
Questo rigoglio di novella vita
Intesa solo a preparar la morte.

(Da "Medusa", Loescher, Torino 1880)




VERE NOVO
di Corrado Ricci (1858-1934)

Tornò la primavera — anche a la gronda
del tetto mio la rondine è tornata,
pei tramiti dei monti sprigionata
corre a le valli spumeggiando l'onda.

Tornò la primavera ed ogni sponda
d'erbe e di lieti fior s'è già adornata,
come il sorriso de la donna amata
di gioia un'aura mite il cor c'innonda.

Fin da le tombe sconsolate e sole
salutano gli estinti il nuovo aprile...
sono i saluti loro erbe e viole;

e al sorriso del sole, a l' infinita
gioia de la stagion primaverile
nel mio povero cor torna la vita!

(Da "I miei canti", Zanichelli, Bologna 1880)




PRIMAVERA RITORNA 
di Paolo Emilio Castagnola (1825-1898)

Primavera ritorna. A la campagna
I nuovi fiorellini in su lo stelo
Semidischiusi olezzano; amorosa
De la rugiada, l'erba ecco germoglia,
E i prati ammanta e le colline; i sassi
Ricopre il musco; su 'l nodoso tronco
Inaridito dell'antica querce
S'inerpica la vite e rigogliosa
Circonda e avvinghia l'arbore cadente;
S'intrecciano fra loro i nuovi rami
Onde è più densa la foresta, e l'ombra
Abita sempre sotto le frondose
Volte, che un soffio sussurrando muove.
Primavera ritorna. A l'armonia
Che si spande ne' campi, a la serena
Aria che scherza in fra le trecce sciolte
De le vezzose forosette e increspa
Lo specchio, ov'elle a rimirarsi stanno,
E al suon de le zampogne e al vario grido
Melodioso de' liberi augelli
La più soave voluttà s'infonde
In tutto quanto ha vita. Primavera
Coronata ritorna. Al suon dell'Ave
La villanella dal vivace sguardo
E dai bruni capei siede sul margo
D'una fontana, e il fascio ond'ella è carca
Toglie dal capo, e respira, e fa il segno
Di santa croce, e resta. E poi d'intorno
A un arbore centenne a intrecciar danze
Va con l'altre compagne al poco e incerto
Lume, onde l'aere a vespro anco rifulge.
Poi, quando l'astro de la notte imprende
il placido viaggio all'orizzonte,
rimoto al bosco l'usignolo canta
il lamento d'amore, e il garzoncello
Note anch'egli d'amor tragge al liuto.
Primavera, ecco, leggiadra ridente,
La terra e il ciel ritorna ad abbellire!
O arcana possa di natura! o degna
Opra d'Iddio sparger benigno e largo
Di tante viste lusinghiere e adorne
Questo che è pure esiglio! e dar che umile
Pianta non sia, né vermicciuol, né bianco
Lapillo e nero, né piuma o vapore,
Che nel mirabil tutto, in così varia
Catena delle cose interminata,
Non ripercuota in sé raggio di bello.

(Da "Poesie", Loescher, Roma-Torino-Firenze 1882)




SOGNO D’UNA NOTTE DI PRIMAVERA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Tu discendi con pompa orientale
giù pe’ i lucidi gradi; ed una schiera
di femmine ti segue, per la nera
scala raggiando la beltà nivale.

Verso la terra, in atto di preghiera,
tu protendi le braccia; ed a ’l segnale
da le bocche mulièbri agile sale
il cantico a la nuova primavera.

Si muovono con lento ondeggiamento
le teste a ’l ritmo, e su per l’aria aperta
in lontananza il pio cantico spira.

Odesi, poi che il gran clamore è spento,
la lunga scala d’ebano, coperta
di femmine, vibrar come una lira.

(Da "Isaotta Guttadauro ed altre poesie, La Tribuna, Roma 1886)




PRIMO VERE 
di Giosuè Carducci (1835-1907)

Ecco: di braccio al pigro verno sciogliesi 
ed ancor trema nuda al rigid'aere 
la primavera: il sol tra le sue lacrime 
limpido brilla, o Lalage. 

Da lor culle di neve i fior si svegliano 
e curïosi al ciel gli occhietti levano: 
il quelli sguardi vagola una tremula 
ombra di sogno, o Lalage. 

Nel sonno de l'inverno sotto il candido 
lenzuolo de la neve i fior sognarono; 
sognaron l'albe roride ed i tepidi 
soli e il tuo viso, o Lalage. 

Ne l'addormito spirito che sognano 
i miei pensieri? A tua bellezza candida 
perché mesta sorride tra le lacrime 
la primavera, o Lalage? 

(Da "Terze odi barbare", Zanichelli, Bologna 1889)




A L'ARRIVO DE LA PRIMAVERA
di Girolamo Ragusa Moleti (1851-1917)

Poi che la riva sacrò la reduce
Iddia d'un' orma, sentir l'imperio
Del Nume gentile le siepi,
E commossi già spuntano i fiori

Luccican l'acque fra il verde, cerulo
Sorride il cielo da l'alto e mandano
Gli augelli festanti il saluto
A la Dea che invocata ritorna.

Passano i bovi per gli alti pascoli
Lenti brucando; senton ne l'umide
Gramigne i sapori dei primi
Succhi, e leccan le grosse gengive.

Dal monte al piano discende un alito
Caldo di vita: lo sente e copresi
Di verde ogni forra; sui nidi
Provan l'ali i più giovani augelli.

Odo i nitriti gai de le libere
Cavalle al piano scorrenti; destansi
Già gli echi a canzoni giulive,
Ruba il vento profumi ove passa.

Solo un gigante cacto dei zefiri,
Che l'erba nova muovon, non curasi;
Coperto di spine non sente
De la giovine Iddia la presenza.

Le farfallucce, passando, sparlano
II mostro; i gigli più bianchi, il popolo
De l'api, i pavoni, gli augelli,
Le danzanti libellule, i rivi:

«Perchè non ami? perchè, gli dicono,
«Pur tra le fitte spine e gli aculei
«Un fiore non dai? Primavera
«Regna ovunque: gentile diventa».

Ode le voci de le libellule,
De le farfalle che sghembe volano,
Ed ode le voci dei fiori.
Non risponde, ma aspetta il bel cacto.

Aspetta un'altra Dea meno gelida
Il bel gigante; non egli è facile;
Ei mette assai tempo a fiorire,
E non ama che solo una volta.

(Da "Intermezzo barbaro", Zanichelli, Bologna 1891)




LA MUSICA SONORA
di Domenico Oliva (1860-1917)

La musica sonora
Della piova notturna
Scoppia traverso le foglie ch'esultano:
Spesso e profondo è il popolo di foglie.

Questa piova notturna
Ha un ritmo carezzevole
(Spesso e profondo è il popolo di foglie)
E al cor sen viene la canzon sonora.

È primavera: musica
Nell'aria, nelle foglie,
Nell'anime! Ed in te canzon sonora
Vaga si fonde fantasia notturna.

Oh fantasia di foglie,
Oh fantasia sonora,
Cosa divina, profonda, notturna!
Aman le donne ed i poeti sognano!

Spento il lume, in notturna
Precipitati tenebra,
Sognare e amare! Musica di foglie
I nostri baci accompagni sonora:

E dal popol di foglie
Profondo e spesso vengano
Saluti, inviti, sorrisi, sonora
E volitante pleiade notturna.

Piova, piova notturna,
Piova, piova, sonora;
Ridi, piangi, sospira, ilare e mistica!
Spesso e profondo è il popolo di foglie.

(Da "Il ritorno", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1895)

giovedì 13 marzo 2014

"Eros" di Gina D'Arco




Nel 1896, presso l'editore Forzani di Roma, uscì un volumetto di versi intitolato Eros, la cui autrice risultava essere tale Gina D'Arco: poetessa sconosciuta a tutti anche perché inesistente. Dietro tale nome infatti si celava il più famoso poeta romano Domenico Gnoli (1838-1915), che già allora aveva pubblicato alcune importanti opere poetiche come Odi tiberine (1879) e Nuove odi tiberine (1885), ma al suo esordio nella letteratura, quando diede alle stampe un libro di Versi (1871), si era nascosto dietro lo pseudonimo di Dario Gaddi. Vi era quindi una recidività da parte dello Gnoli all'uso di nomi falsi per la pubblicazione delle sue poesie; tale usanza si sarebbe ripetuta clamorosamente anche nel 1903: in occasione dell'uscita del famoso volume Fra terra ed astri, che fu ritenuta un'opera in versi nuova e rivoluzionaria, il cui autore, seppur misterioso, sembrava essere un giovane esordiente di cognome Orsini e di nome Giulio. Sorprendente e nello stesso tempo deludente fu la scoperta che dietro allo pseudonimo di Giulio Orsini, ancora una volta si celava proprio lui: Domenico Gnoli, che, già ultrasessantenne, di fatto aprì la nuova strada della poesia italiana del XX secolo. Non soddisfatto, Gnoli continuò a firmarsi Giulio Orsini anche nella sua successiva opera: Jacovella (1905), ma ormai la sua identità era stata ampiamente scoperta.
Ritornando ad Eros, trattasi di un volumetto di 26 pagine che contiene in tutto 10 poesie precedute da una breve prefazione intitolata: Al lettore in cui l'autrice spiega il motivo per cui ha deciso di pubblicare le sue "poesiole".
Eros fu ripubblicato con varianti da Domenico Gnoli nel suo volume riepilogativo Poesie edite e inedite (1907), presentandolo con la seguente indicazione:

Dal volumetto Eros di Gina D'Arco (Roma, Forzani 1896) e da periodici.

Delle 10 poesie presenti nel libriccino originale si rileggono: Vita nova (col titolo Vita nuova), Tivoli, Veglia, Abissi e Tristezze. Scompaiono invece le altre, ovvero: A te solo, Aprile, Voliamo, Sempre e Malìa. Vengono aggiunte infine: Il vecchio, La scala e Il lamento d'una mummia.
riporto di seguito, per concludere, una delle più belle poesie di Eros.



VEGLIA

Saliva dai tetti, recinta di pallido nimbo,
con tacito passo la luna,
con passo di madre che mova a spiare se il bimbo
riposi a la tepida cuna.

Ed io sul balcone vegliavo, che il sonno da' stanchi
miei occhi è bandito :i pensieri
novelli d'amor senza posa l'inseguono a' fianchi,
qual muta d'alati levrieri.

Un'alta fenestra, sui tetti, splendeva lontano
lontano. Chi veglia a quest'ora?
È forse una povera madre cui stanca la mano
si piega sui lini, e lavora

lavora pel pane de' figli? È un convegno d'amanti?
Là dentro è un infermo? un morente?
Si trama là dentro un delitto? son risa? son pianti?
Ascolto, ma nulla si sente.

Sui tetti dormenti, recinta d'un nimbo leggero,
la pallida luna salìa:
confuso vegliava de l'alta fenestra il mistero
con quello de l'anima mia.


domenica 9 marzo 2014

"Arie paesane" di Sandro Baganzani



Pochissime persone probabilmente oggi sanno chi era Sandro Baganzani (Verona 1889 - ivi 1950), poeta italiano che trovò il suo breve e circoscritto periodo di gloria tra il 1920 ed il 1924, quando cioè uscirono i suoi libri più importanti: Arie paesane (1920) e Senzanome (1924). Baganzani esordì con liriche dialettali (si ricordano i volumi Ciari e scuri, 1907 e Da l'album de Nina, 1911) ma fu apprezzato di più per i suoi versi in lingua che denotano una chiara derivazione dalla poesia pascoliana e crepuscolare. Analizzando brevemente il primo dei due volumi sopra citati, Arie paesane uscì presso l'editore Taddei di Ferrara: è un libro di 116 pagine che contiene 41 poesie le quali, a parte la prima (intitolata Prologo) e l'ultima (Allegro ma non troppo), sono raggruppate nelle seguenti sezioni: NOSTALGICHE - ALPINE - PAESANE - VAGABONDE. Leggendo la prima sezione si nota subito la prima lirica: Impressione invernale, che descrive un paesaggio freddo e senza vita: «Branchi di corvi / indolenti / spiegano allora il volo stanco / come uno sgorbio nero / nella sinfonia / del bianco. / / E non si senton cantare / campane: anima viva / non si vede camminare. / È il villaggio della Morte?». Accorata è piena di una inconsolabile, solitaria malinconia che il poeta e la sua moglie avvertono con intensità per la prematura scomparsa di una figlioletta, la poesia descrive gli umori della famiglia di Baganzani in una sera rigida d'inverno trascorsa in casa: «Tutta la casa è piena / dell'Assente. / Hai acceso la lampada / per la bambina morta? / Davanti il piccolo altare / i fior di calicanto / spandono quella loro / sottile fragranza / d'inverno di freddo». Tre rose evidenzia riferimenti alla poesia dei crepuscolari e, soprattutto, di Corrado Govoni: «Le monache passano / sotto i viali / con le loro bianche cornette / come uno sbattere d'ali. / Le chiesine di campagna / parate / come per una sagra? / I rondoni che riempiono i silenzi / dei cortili solitari? / Le stelle piccoline / come i chicchi dei rosari? / Chi canta?». Poesia agreste è invece Ottobrina: «I bovi dal passo sbilenco / ora vanno in cadenza / dietro un canto vendemmiale. / Cigola il carro greve dei tini / per lo stradale. / I passeri frullano / tra i robini selvatici».
La seconda sezione contiene alcune poesie dedicate al corpo militare degli alpini, di cui il poeta stesso aveva fatto parte. Qui i versi migliori di Baganzani nascono dalle rare ed estasianti sensazioni provate grazie agli spettacoli della natura, seppure in un contesto "duro" com'è quello della vita di trincea: «Oh incanti / di albe di sere! / siepi lontane / con l'orto di dalie / di girasoli! / Campi ondanti di grano: / velluto di prati: / casette tra il verde: / campane campane campane!» (da Un cantore).
La terza sezione è decisamente la più intima del libro, vi sono racchiusi versi piuttosto malinconici che riflettono le "piccole cose" presenti nel paesino dove il poeta viveva, a tal riguardo mi sembra che anche alcuni titoli delle poesie Chiesetta di Santo Nicola, Pozzetto in abbandono, Passeggiata minima, Alberghi di campagna) siano significativi; ecco alcuni versi di Mistica: «Un convento. / Un altro convento. / Un chierico violetto / si perde / dietro un portichetto oscuro. / Pende da un muro / un lampadario d'oro. / Negli stalli del coro / vi sono dei monaci / con gli occhiali / a leggere gialli messali? / o una monachina / in un orto / morto / coglie nelle aiuole / l'ultime rose, al sole?». Si differenziano dalle altre, le ultime due poesie che assumono toni fortemente drammatici e commoventi nel ricordare i lutti gravissimi che colpirono la famiglia di Baganzani, il quale perdette due figli ancora in età infantile; particolarmente commovente è la seconda, intitolata Le scarpine: «Ci ài lasciate le tue scarpine: / ànno un granellino di ghiaia / sotto la suola. / Non camminano più. / sono morte come sei tu. / Sono come due alucce / che non battono più. / Il tuo piedino nudo / che non à bisogno delle scarpine / per le stradine del paradiso!...».
L'ultima sezione di Arie paesane è composta da poesie di vario genere; alcune descrivono semplici paesaggi, altre parlano delle 'piccole cose' già rese celebri dai poeti crepuscolari circa un decennio prima: «Quante cose belle, quante / cose brutte / nel magazzino del cuore, / ammucchiate tutte come / balle di mercanzia / con sopra una etichetta uguale: / Malinconia! / Roba che non si svende» (da Vagabondari), altre ancora sono evidentemente ispirate dai versi di poeti che Baganzani sicuramente stimava come Corrado Govoni: «Tornano le vacche / dai campi, / i camini non fumano più, / sulle porte i contadini parlano / delle stagioni, / le stelle filanti cominciano a cascare, / nell'aria è un odore di unghie bruciate / di foglie passate, di stalla: / il maniscalco à chiuso bottega, / il lume rosso della farmacia / è come un occhio di magia, / e un pianoforte suona / "il Viandante" / in fondo un giardino oscuro» (da Belmonte) e Diego Valeri: «Nulla ti voglio dire: / tu non dirmi nulla. / Guardiamo in silenzio calare / la luna sul borgo che tace (da Serenità); a volte si respira un'atmosfera di tristezza e di malinconia disperata, come in Lungo l'argine: «Perchè / quando stassera sarà buio / nessuno mi accenderà il lumino: / nessuno mi si farà vicino: / io sarò più meschino / del venditore che vanta / le leccornie di zucchero: / e avrò certo paura / di vedermi guardare nello specchio / da un altro / ormai vecchio / e solo!». Chiude la raccolta Allegro ma non troppo nei cui versi iniziali Baganzani, a conferma della sua vicinanza alla poetica crepuscolare, dichiara, scrivendolo a mo' di epitaffio: «Qui giace / in pace / il cuore mattoide d'un poeta / da niente».


lunedì 24 febbraio 2014

La domenica nella poesia italiana simbolista e decadente

La domenica è sempre stato il dì del riposo che arriva dopo una settimana di lavoro, è quindi il giorno adatto a svagarsi, a divertirsi se possibile e a dimenticare tutti i problemi e gli affanni, sia dei giorni precedenti che di quelli seguenti. Ma la domenica dei poeti simbolisti (in questo caso anche e soprattutto crepuscolari) diviene un giorno estremamente noioso, spesso piovoso e in ogni caso portatore di tristi pensieri. La vita, proprio quando dovrebbe esprimersi con entusiasmo ed energia, si rivela quindi inutile e insensata. I poeti che parlano delle loro domeniche in sostanza parlano dell'esistenza senza significato, poiché gli altri giorni della settimana sono dedicati al lavoro (spessissimo fonte di fatica e di tribolazione) e l'unico giorno libero si rivela completamente privo di ogni spinta vitale. Diviene in questo modo il simbolo della inutilità dell'esistenza, la rappresentazione del vuoto e della noia.




Poesie sull'argomento

Sandro Baganzani: "La mia triste vita" in "Arie paesane" (1920).
Sergio Corazzini: "Sera della domenica" in "Libro per la sera della domenica" (1906).
Lionello Fiumi: "Sera di domenica in carnevale" in "Polline" (1914).
Corrado Govoni: "La domenica è intenta nel comporsi", "La domenica nel convento" e "Lo specchio della domenica" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Le domeniche", "Le cose che fanno la domenica" e "Domenica" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Domenica" in "Poesie elettriche" (1911).
Fausto Maria Martini, "Domenica d'ospedale" in «Nuova Antologia», novembre-dicembre 1917.
Tito Marrone: "Domenica d'inverno" in «Rivista di Roma», dicembre 1904.
Marino Moretti: l'intera sezione "Le domeniche" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Guido Ruberti: "Domenica" in "Le Evocazioni" (1909).




Testi

LA DOMENICA
di Marino Moretti

Chinar la testa che vale?
e che val nova fermezza?
Io sento in me la stanchezza
del giorno domenicale;

del giorno in cui non si ha nulla
fuorché il triste cuore sperso,
e in cima alla mente un verso
troppo noto che ci culla;

del giorno in cui, spento ogni
rumore, la casa è vuota,
in cui la pupilla immota
non intravede più sogni.

Chinar la testa che vale ?
Vive meglio col suo niente
il buon uomo che si sente
di non poter fare il male,

e non sente l'infinita
ampiezza dell'irreale,
e vive senza ideale
come un servo della vita!

La suora che nel convento
perdoni e salvezze implora
pensa alla vita d'allora
con improvviso sgomento;

la madre che ha lungi il figlio
e che non sa dove sia,
lo vede già su la via
del male, senza giaciglio;

l'amante, pieno di ardore,
che attese presso una chiesa
si logorò nell'attesa
tutto il suo giovane cuore;

ma quegli a cui fu concesso
di scendere nel cortile,
sente che l'autunno è aprile,
si consola da sé stesso;

il malato a cui è tanto
caro l'umile fil d'erba
ed a cui l'autunno serba
un primaverile incanto,

una dolcezza novella
fatta di gialle corolle,
una soavità molle,
un'indistinta favella...

Chinar la testa che vale?
e che val nova fermezza?
Io sento in me la tristezza
del giorno domenicale,

che declina in un vapore
grigio nella lontananza
senza che alcuna speranza
doni al mio povero cuore.

(Da "Poesie 1905-1914")





venerdì 21 febbraio 2014

Il carnevale in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

DIALOGO DI GIOVEDÌ GRASSO
di Tito Marrone (1882-1967)

- Marchesa, permettete?
Forse è incomoda l'ora...
- Ma come? Siete
voi, caro abate?
Coraggio: avanti.
- Mi perdonate,
se mi presento senza
parrucca e senza guanti?
- Oh, confidiamo ancora
nella vostra clemenza!
Ma venite in cattivo punto. - In cattivo punto?
- Prendetevi una sedia.
- Grazie. La cerco...
- ...senza trovarla. Quel maledettissimo
padron di casa è un pezzo che gioca la commedia
di lasciarmi così. - Rimango in piedi,
dal mattino alla sera, dalla sera al mattino,
adorator perpetuo della vostra bellezza!
- Voi siete la fenice degli abati galanti
- Per carità, marchesa:
senza la mia parrucca e senza i guanti...
- Oh, non è nulla! Io stessa
sono fuori di me,
caro abate, perché...
Ma, prima:
vi ricordate l'abito
pompadour, che di Francia
mi recò mio marito
centotrent'anni fa,
che indossai l'ultima
volta al ballo dogale? - Mi ricordo
che quella sera volli baciarvi sulla guancia
(tanto eravate bella!)
e fui percosso dal ventaglino di madreperla.
- Ricordate anche troppo.
Or quella veste e quel ventaglio miniato
quando per economia
venni ad abitar qui, li lasciai nella mia
dimora, alla Ca' d'oro,
chiusi dentro un armadio intarsiato,
accanto a' bei gioielli
lasciatimi in eredità dai Loredano...
Poco fa, prima
che voi foste venuto,
colpita dallo strano
rumore della via,
schiudo la gelosia,
mi affaccio... e vedo
una maschera a braccetto
d'un abatino buffo e svenevole,
vestita con la bella mia veste pompadour!
- Marchesa, l'avventura
non è molto piacevole;
ma se vi dicessi che quell'abatino
portava la mia bella parrucca incipriata?
- Davvero? - Certo. La riconobbi
quando mi urtò, passandomi vicino
con la sua goffa dama imbellettata...
Oggi le maschere
vanno a spasso:
mi dicono che sia giovedì grasso.
I vivi si divertono, e i morti si dan pace.
- Abate mio... - Marchesa?
- Non m'offrite una presa
del vostro buon tabacco d'un tempo? - Mi dispiace,
ma ho dato via
la tabacchiera. Faccio economia...

(Da «L'Italia moderna», aprile 1905)





CARNEVALE IN MONTAGNA
di Luigi Grilli (1858-1939)

Qua su non manda il pazzo carnevale
le sue voci di chiasso e d'allegria;
non echeggian qua su fulgide sale
di lieti canti e suoni all'armonia.

Tutto è silenzio, e nevica. Sull' ale
io migro intanto della fantasia
verso altri luoghi; e impreco a questa uguale
vita di tedio e di malinconia.

Picchiano forte all' uscio. Apro. Oh gradita
sorpresa! Alzando le manine a festa,
ingenua sulla soglia ed impalata,

si presenta la mia piccola Anita
con il cappello della madre in testa:
al babbo viene a far la mascherata.

(Da "Lauri e mirti", Giusti, Livorno 1908)





IL VEGLIONE
di Vittorio Emanuele Bravetta (1889-1965)

No: non vado al veglione, amici — basta
a me la veglia che il pensier m'impone;
eterna veglia che il mio cuore guasta
e che, stanotte, diverrà veglione.

Ecco: già la Quaresima sovrasta
a l'agonia del Carneval buffone,
che ne l'ultima notte il viso impasta
di farina e di gioia a le persone.

Ecco, e la veglia mia veglion diventa:
a contendersi il prezzo del mio cuore
mille buffoni l'Allegria presenta;

e mentre il Carnevale ilare muore,
scopre la faccia e fiero il cuor m'addenta
quel che vinse e più buffo era: il Dolore.

(Da "Odi e canzoni", Libreria G. B. Petrini, Torino 1910)





GESTO DI CARNEVALE
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Dove corri, o Maschera?
Non è quella la via del Veglione!
Dall'altra parte!
Sei giovane e snella. Oh le caviglie divine
sulle scarpette bianche! Una rosea,
l'altra azzurra. Battono in tempo d'ali di farfalla.
Dove corri? Là nel fondo
è l'abisso difeso da un muricciuolo.
La rupe salta quattrocento piedi sul mare.
Non odi le musiche celeri allegre,
dall'altra parte? Non odi le risate e gli schiamazzi
del Carnevale?
Dove corri? Chi sei, Domino Iride?
Voglio inseguirti, assai meglio vedere
se tu sia l'efèbo o la donna.
Qualcosa, davanti, t'impaccia. Tu cederai
prima del muricciuolo. Non cedi. Sei giunta.
(Ho paura.) Ascolta le musiche
dall'altra parte! Non il mare che mangia la roccia!
(Si getta? Che fa?) Si slaccia il seno.
Un vagito che sale ad orrore.
(In gelo per sempre l'udrò.) Bene vidi.

La Maschera ha gittato il suo bimbo di là.

(Da "Versi liberi", Treves, Milano 1913)





SERA DI DOMENICA IN CARNEVALE
di Lionello Fiumi (1894-1973)

Ma questa pace bianca !... Le strade imbiaccate di neve:
imbottite d'ombra greve:
deserte. È sera di domenica. Si beve
nelle osterie.
Cupo io cammino per le cancherose vie
del sobborgo. Mi sbruffa diaccia
la neve sulla faccia.
Il romore del mio passo, lieve,
s'ovatta.
Passo davanti a una taverna dalla cortina scarlatta
proietta
una zona sanguigna che imbelletta
la neve.
Per uno sdrùcio della cortina
intravedo, dentro, al grasso lume
bianco dell'acetilene,
il giallume
d'una polenta paffuta:
un riflesso arrubina
una fiasca panciuta :
sui bruni tavolacci lordi,
ghigne oscene
d'uomini scabri,
puttane frolle pitturate di cinabri:
pàcchiano, trincano: ingordi.
Escono fuori all'aria gelida zaffate
di pingui risate,
accordi
folli e fini
di mandolini,
pizzicate
bizzarre
di chitarre.

Io passo cupo avviluppato nella mia tristezza;
.... pizzicate
bizzarre
di chitarre....
e nell'anima s'aggruma l'amarezza.

Perchè non posso anch'io essere un bruto
come loro? Loro godono! Avvinghiato dal pensiero, io. Muto.
Ah! esser nato di plebaglia come loro! e non pensare !
e non cariare i nervi sui volumi ! e non pensare!
e non queste finezze amare
di sentimento!
O almen poter, quando lo strazio è più violento,
bere! soffocarlo, il pensiero, nel rosso velluto
dell'ebrezza!
Invece? Cammino colla mente lucidissima; e mi straccia
l'anima, il dolore! Diaccia
mi sbruffa la neve sulla faccia.
Davanti, la strada imbiaccata: deserta: senza una traccia.
Fanali verdigni
che profilano intrichi ferrigni
di magri
alberi arcigni.

Qualche maschera briaca,
con una voce ormai opaca.
Di lontano, per l'aria nevosa, brandelli di canti agri.

(Da "Pòlline", Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914)





NOTICINA DI CARNEVALE
di Giovanni Bertacchi (1869-1942)

La mascherina nera foggiata da cupa gitana,
irruppe nella sala, s'abbattè sui ginocchi:
girò la mano a tondo, ridisse una favola strana,
e, sprigionando un lampo fascinator dagli occhi,
scrisse sul pavimento con punta di molle carbone:
- Uomo, sii pronto a cogliere il fior dell'occasione. -

(Da "A fior di silenzio", Baldini & Castoldi, Milano 1920)





CANZONE DEL MORTO MASCHERATO
di Ugo Betti (1892-1953)

L'ultima notte di carnevale
Una burla è stata fatta.
Hanno vestito di nero un morto,
Con una maschera scarlatta.
Il morto faceva di no colla testa.
Ma, tenendolo di qua e di là,
L'hanno portato in una gran festa.

E in una festa s'è veduto
Un convitato sconosciuto.
Sedeva, con le mani sui ginocchi.
Ubriaco, pareva!
Due buchi neri aveva per occhi,
Ma la sua bocca rideva.
Gli versarono un bicchiere.
Ma quel convitato non voleva bere.

— Nel mezzo del bicchiere trema un lume!
Bevi! Giù per le vene buie e torte
Questo vino corre, e canta forte!
Ogni vena diventa un fiume!
Il cuore, come un oscuro molino,
Macina, gonfio di sangue e di vino. —
Ma quello sete non aveva,
Guardava il bicchiere splendente, e rideva.

— Su, stanotte s'ha da bere
E da cantare in allegria!
Donne belle come pantere
Ti daremo per compagnia!
Hanno collane per guinzagli!
E sono bianche.... son come svenate
Sotto i diademi ed i fermagli! —
Ma quel convitato balli non voleva,
Né bicchieri, né canti. Rideva.

— Se non vuoi ballare, se non vuoi bere,
Con una ghirlanda ti coroneremo
E re della baldoria ti faremo!
Questa sonata ti pare bizzarra?
È il demonio che tocca la chitarra.
Ognuno ride con la faccia smorta,
E il ballo del demonio se lo porta!

Il morto ascoltava quella musica matta..
E gli buttarono un bicchiere
Sulla maschera scarlatta....
Rideva, e gli colava il vino bianco
A stilla a stilla, come un pianto!
All'alba, con una ghirlanda sulla testa,
Hanno trovato un morto in una festa.

(Da "Il re pensieroso", Treves, Milano 1922)





CARNEVALE DI GERTI
di Eugenio Montale (1896-1981)

Se la ruota si impiglia nel groviglio
delle stelle filanti ed il cavallo
s'impenna tra la calca, se ti nevica
sui capelli e le mani un lungo brivido
d'iridi trascorrenti o alzano i bimbi
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume,
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d'aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia - hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l'anno tranquillo senza spari.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro
fa spogli i suoni
e ne deriva i sorridenti ed acri
fumi che ti compongono il domani:
ora chiedi il paese dove gli onagri
mordano quadri di zucchero dalle tue mani
e i tozzi alberi spuntino germogli
miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh , il tuo Carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio , fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani:l'urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l'ora
che il Gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È Carnevale
o il Dicembre s'indugia ancora? Penso
che se muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori...)

E il natale verrà e il giorno dell'Anno
che sfolla le caserme e ti riporta
gli amici spersi, e questo Carnevale
pur esso tornerà che ora ci sfugge
tra i muri che si fendono già. Chiedi
tu di fermare il tempo sul paese
che attorno si dilata? Le grandi ali
screziate ti sfiorano, le logge
sospingono all'aperto esili bambole
bionde, vive, le pale dei mulini
rotano fisse sulle pozze garrule.
Chiedi di trattenere le campane
d'argento sopra il borgo e il suono rauco
delle colombe? Chiedi tu i mattini
trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile
come tutto è impossibile , tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse in questi
disguidi del possibile. Ritorna
là fra i morti balocchi ove è negato
pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all'esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s'aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco,
quella che mi additò un piombo raggelato
alle mie , alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.

(Da "Le occasioni", Einaudi, Torino 1939)





NOTTE DI FESTA
di Antonia Pozzi (1912-1938)

Sgrana gli occhi, soldato alpino,
stringi più forte la tua ragazza:
sono venute le signorine
a ballare nella tua osteria.

Che belle rose di carta gialla
alle pareti di legno d'abete.
Chi suona
con le trombette di carnevale?
Vino.
E frittelle unte.
Una stella filante verdolina
lega i tuoi chiodi
alle mie scarpe
d'argento.
Chi strilla
con le trombette di carnevale?

Oggi sotto al Cristallo
è caduta la valanga.

Non bestemmiare, soldato alpino:
batti gli occhi nell'aperta notte.

Le signorine ballano ancora.
Come sono strane
queste mie spalle nude:
chi cercava
le mascherette di cartapesta?
io canto
un sonnolento ritornello.
E già sui vetri illividisce e intesse
gelate fioriture l'alba:
segna
palpebre viola,
pallide labbra nella stanza spenta.
In alto
tu fra i mortali blocchi
erri solo:
scavano ferree le tue mani rosse.

Vuota sotto una croda
nella prima
aurora
la slitta attende
coi suoi rami verdi
in croce.

(Da "Parole", Garzanti, Milano 1989)





CARNEVALE A PRATO
di Giorgio Orelli (1921- 2013)

É questa la Domenica Disfatta,
senza un grido nè un volo dagli strani
squarci del cielo.
                                Ma le lepri
sui prati nevicati sono corse
invisibili, restano dell'orgia
silenziosa i discreti disegni.

I ragazzi nascosti nei vecchi
che hanno teste pesanti e lievi gobbe
entrano taciturni nelle case
dopocena; salutano con gesti
rassegnati.
            Li seguo di lontano,
mentre affondano dolci nella neve.


(Da "Poesie", Ed. della Meridiana, Milano 1953)