mercoledì 8 maggio 2013

Antologie:"Torino Art Nouveau e Crepuscolare"


"Torino Art Nouveau e Crepuscolare. Poeti e luoghi della poesia" è l'intero titolo di un'antologia poetica curata da Roberto Rossi Precerutti e pubblicata da Crocetti Editore in Milano nel 2006. È un libro, secondo me, molto interessante perché ripropone, nella parte antologica, i testi di alcuni poeti piemontesi oggi totalmente sconosciuti, che pure ebbero una certa fama all'inizio del XX secolo, per il semplice motivo che i loro versi possedevano un fascino non comune. Erano, quelli, poeti che spesso si rifacevano alle modalità liriche di alcuni movimenti fondamentali di fine Ottocento e d'inizio Novecento: simbolismo, decadentismo, crepuscolarismo; molti di loro subirono l'influenza di grandissimi scrittori del secondo Ottocento sia italiani (Giosue Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio) sia stranieri (Charles Baudelaire, Paul Verlaine). Tutti vissero, per un certo periodo della loro esistenza, a Torino, e nel capoluogo piemontese si sviluppò il loro talento poetico, grazie all'incomparabile clima letterario che si poteva respirare, nei primissimi anni del XX secolo, in quella città. Alcuni di loro furono maestri stimati, molti altri allievi appassionati; alcuni si conobbero sui banchi dell'Università di Torino e lì strinsero amicizia. Si tratta, insomma, di una generazione di poeti che, pur nelle loro evidenti differenze, contribuirono con le loro opere scritte e pubblicate nell'arco di un trentennio, a creare quel clima un po' liberty e un po' crepuscolare, un po' simbolista e un po' decadente, che oggi appare incredibilmente unico e irripetibile. Dopo l'immagine della copertina anteriore del libro, chiude il post l'elenco dei poeti antologizzati.





Giovanni Camerana, Arturo Graf, Enrico Thovez, Ernesto Ragazzoni, Giovanni Cena, Cosimo Giorgieri Contri, Francesco Pastonchi, Massimo Bontempelli, Emanuele Sella, Giulio Gianelli, Antonio Rubino, Amalia Guglielminetti, Carlo Chiaves, Guido Gozzano, Carlo Vallini, Nino Oxilia, Giovanni Croce.   

domenica 5 maggio 2013

Poeti dimenticati: Silvio Catalano


Tommaso Silvio Catalano nacque a San Buono, in provincia di Chieti, nel 1890 e morì a Bologna nel 1966. Poeticamente esordì a venticinque anni con una raccolta che molto si accostava al frammentismo di voga nell'ambito di quegli scrittori che facevano riferimento alla rivista "La Voce". Allontanatosi da tale esperienza, rimase appartato dagli ambienti letterari più in vista, pur continuando a pubblicare poesie in libri che mostrano una tendenza all'ironia e alla fredda contemplazione degli eventi naturali.



Opere poetiche

"Cose", Libreria della Voce, Firenze 1915.
"Canzoni della discordia", Edizioni Lambda, Milano 1928.
"Sette sassi", Edizioni del Milione, Milano 1937.
"Il pescatore di lucciole", Edizioni del Taccuino, Milano 1950.
"Ruolo transitorio", Intelisano, Milano 1957.






Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 2, pp. 10-19).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 657-661).




Testi

RICHIAMO

Nel gran mare del Tempo, la campana
dei morti chiama i naufraghi alla riva,
con voce, al vento, ora grave e ora vana,
come di tomba che a un tratto riviva.

Altro non s'ode al soffio dell'inverno,
se non la voce alterna dell'Eterno,
sopra la gente che pare sotterra,
sotto un coverchio che il gelo rinserra.

Nel gran mare del Tempo, la campana
dei morti chiama i naufraghi alla riva,
con voce, al vento, ora grave e ora vana,
come di tomba che a un tratto riviva.

(Da "Canzoni della discordia")




mercoledì 1 maggio 2013

Maggio in 10 poesie di di dieci poeti italiani del XX secolo

Tra i ricordi lontani che ancora riesco a far riemergere dalla mia mente sempre più smemorata, c’è quello della recita del Santo Rosario. Era il tempo in cui frequentavo le scuole elementari, ad Ostia Antica; un anno, all’inizio di maggio, la suora-maestra consegnò a me e agli altri studenti, un rosario di colore bianco ed un involucro dove avremmo dovuto riporre quelle collanine dopo averle usate. Da quel giorno, fino alla fine del mese, ad una certa ora, in classe avremmo dovuto recitare determinate preghiere (ma più di tutte l’Ave Maria); tale recita, se non erro, durava circa un’ora. Il rosario dei tempi delle elementari è ancora in mio possesso, ma da quando terminai di frequentare quell’istituto religioso, non ne ho fatto più uso.




MAGGIO, CHE PORTI LE SPERANZE E I FIORI
di Enrico Pea (1881-1958)

Maggio, che porti le speranze e i fiori
per fare ghirlandette alla Regina;
che porti le farfalle luminose,
che porti il pane, frutto di stagione,
mattini rugiadosi, notti chiare
perché nel cielo migrino le stelle;
Maggio, che sai le fole di mill'anni,
dimmi, conosci dove alberghi pace?

(Da "Fole", Industrie Grafiche, Pescara 1910)





CALENDIMAGGIO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio!
Ma è una selva che si svelle,
la selva che da sè si schianta!
E viene, e seco ha le procelle
che l’hanno nell’inverno affranta,
e viene e canta
                    il gonfalon selvaggio!

Ben venga con la sua grande ombra
e col grande urlo dei torrenti!
È vivo il gonfalon che ingombra
la terra e si svincola ai venti;
ed ai dormenti
                    annunzia: È Maggio! È Maggio!

Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio!
S’avanza sotto il cielo azzurro
il verde bosco che s’è mosso;
ha dentro un cupo suo sussurro,
ha dentro un rauco fiato grosso.
È rosso rosso
                    il gonfalon selvaggio!

Ben venga! È gente che sui capi
solleva il ramuscel d’ulivo;
e quel sussurro è ronzìo d’api
seguenti il ramo fuggitivo;
e il rosso vivo
                    è dei rosai di Maggio!


Ben venga Maggio
                    e il gonfalon selvaggio!

(Da "Poesie varie", Zanichelli, Bologna 1912)





DI MAGGIO
di Francesco Gaeta (1879-1927)

Sotto il pensoso, nuvoloso maggio,
un violino, giù in istrada, geme.
Oh se in quest'ora priva di coraggio
     fossimo insieme!

Per le velate case e la collina,
tenera snoda una campana il canto.
Saprò se in questa povera mattina,
     amore, hai pianto.

(Da "Poesie d'amore", Laterza, Bari 1920)





MAGGIO
di Giorgio Caproni (1912-1990)

Al bel tempo di maggio le serate
si fanno lunghe; e all'odore del fieno
che la strada, dal fondo, scalda in pieno
lume di luna, le allegre cantate
dall'osterie lontane, e le risate
dei giovani in amore, ad un sereno
spazio aprono porte e petto. Ameno
mese di maggio! e come alle folate
calde dell'erba risollevi i prati
ilari di chiarore, alle briose
tue arie, sopra i volti illuminati
a nuovo, una speranza di grandiose
notti più umane scalda i delicati
occhi, ed il sangue, alle giovani spose.

(Da "Finzioni", Istituto Grafico Tiberino, Roma 1941)





MAGGIO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Odore d'orfani odore di garofani
il fresco dei mugnai
sul carro in vetta al cielo.

D'ogni speranza la sera è vuota
nell'asino che zoccola sul selciato
grigio come la porta di bottega
che ha sui vetri il mare,
emporio dei dolci confetti di noia.

(Da "La spiaggia dei poveri", Rosa & Ballo, Milano 1944)





NELLE NOTTI PRIME DI MAGGIO
di Paolo Volponi (1924-1994)

Nelle notti prime di maggio
verginità dell'universo
io sento il lembo caldo
della tua apertura,
l'ansia schietta
del tuo largo fiato.
E dilato il mio corpo
sui boschi,
e mi tendo.

(Da "Il ramarro", Tipografia dell'Istituto d'Arte, Urbino 1948)





È VERSO LA FINE DI MAGGIO
di Michele Pierri (1899-1988)

È verso la fine di maggio
che a volte sbigottisce
e si confonde il sole
tra colore e colore
come l'unico pane tra le spighe di altri;

dolcemente così vicino sfilano
i visi, congiunzione non prevista
di questi giorni rari
tra binari e binari
abbagliando lo scambio...
oh fuggitivi baci!

(Da "De consolatione", Schwarz, Milano 1953)





PECCATO DI MAGGIO
di Luciano Folgore (1888-1966)

Come ai tempi d'Adamo il nostro amore
si svolse a piè del melo galeotto,
ma giunse quel serpente del tutore
che ci offrì il pomo, col bastone sotto.
Poiché la scena avvenne il cinque maggio
io mi perdetti tosto di coraggio,
nel sentire sul capo il colpo e il sònito
restai percosso e attonito.

(Da "Il libro degli epigrammi", Ceschina, Milano 1955)





MAGGIO ROMANO
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Ora che lingue di fuoco ci lambiscono
(purtroppo non pentecostali)
e fiocchi di lana bigia cadendo dagli alberi
ci dispongono alla febbre da fieno;
mentre puzzano in coro le immondizie abbandonate
per le strade da spazzini scontenti,
ed attendiamo rassegnati la rinascita
delle mosche, dei cattivi pensieri e delle guerre,
verrà infine qualcuno ad annunziare
che abbiam finito di decomporci?

(Da "Terra senza orologi", Trentadue, Milano 1973)





GODI DI MAGGIO
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Godi di maggio che consuma in fretta
i giorni delle rose alla luce
spettrale delle sere, la giovinezza
non aspetta...

Ma estivo è ormai questo silenzio intorno
alla tua casa e al sonno dei vivi e dei morti se il giorno va via.

(Da "La lucertola di Casarola", Garzanti, Milano 1997)






lunedì 29 aprile 2013

Poeti dimenticati: Giorgio Umani


Giorgio Umani nacque a Cupramontana nel 1892 e morì a Falconara nel 1965. Fu avvocato e famoso entomologo, ma scrisse anche versi che pubblicò in varie raccolte. Alla radice della sua poesia sta una religiosità intensa che si estrinseca in versi semplici e, nello stesso tempo complessi, pieni di un panteismo che lo porta a trovare la presenza di Dio in ogni fatto, persona, animale o cosa.



Opere poetiche

"Parabole gnostiche" La lucerna, Ancona 1926.
"Il volto nemico", La lucerna, Ancona 1928.
"A segno di stella", La lucerna, Ancona 1930.
"Il libro scarlatto", L'Eroica, Milano 1933.
"L'ineffabile orgasmo", Kursaal, Fienze 1953.
"L'ora degli ultimi", Il Gauguin, Firenze 1962.







Presenze in antologie

"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 364-369).
"Antologia della Poesia Italiana Cattolica del Novecento", a cura di Mario Nanteli, UPSCI, Roma 1959 (pp. 224-226).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 3, pp. 278-279.).




Testi

PRESENTIMENTO

Lassù dove serpeggia quel sentiero
che dalla spiaggia sale alla montagna,
aveva nido una lucertoletta
innamorata come me del Sole,
malata, come me, di Cielo e Mare.
La vedevo ogni giorno: dalla tana
guardava il mondo immobile e rapita
così che non pareva s'avvedesse
di chi, passando, quasi la sfiorava.
Ed io pensavo, proseguendo innanzi,
come attristato da un presentimento:
Dove potrà condurci il nostro amore
di ciò ch'è inafferrabile?
Son tornato stamane e l'ho trovata
schiacciata sotto un sasso
morta sotto il ciglione della via.
Dal fianco aperto fuoriusciva il cuore
che si tendeva ancora verso il Sole.

(Da "Parabole gnostiche")

giovedì 25 aprile 2013

Due brani letterari in occasione del 25 aprile


In occasione del 25 aprile, giorno in cui in Italia si ricorda l'anniversario della liberazione dal nazifascismo, vorrei porre l'attenzione su due frammenti di letteratura italiana del dopoguerra che trattano il tema della Resistenza. Il primo è di Mario Tobino (1910 - 1991), scrittore e psichiatra toscano che ebbe successo con alcuni romanzi sul tema della follia (fu direttore per anni di un ospedale psichiatrico) come Le libere donne di Magliano (1953) e Per le antiche scale (1972). Tobino partecipò anche alla lotta partigiana e compose dei versi che testimoniano il periodo della Resistenza o "periodo clandestino" come recita il titolo di una sua poesia; la lirica di cui riporto il testo s'intitola Il Pasi ed è dedicata a Mario Pasi (1913 - 1945), medico e partigiano italiano che fu ucciso barbaramente dai nazisti. Il componimento poetico, scritto con parole semplicissime, ben riflette i sinceri ed intensi sentimenti di Tobino nei confronti del compagno, il quale viene ricordato con grande nostalgia e con una percepibile commozione da chi ha vissuto con lui un periodo eroico eppur dolorosissimo:


IL PASI

Il Pasi era un giovanotto
veniva dalla Romagna,
insieme eravamo giovani,
si camminava muovendo le spalle,
le donne avean per noi debolezza.
Lui lo impiccarono i tedeschi
dopo sevizie che non ho piacere si sappiano,
io ho un cappotto di anni,
ma, o Pasi, sei stato
il più bell'italiano di mezzo secolo.

(da "L'asso di picche. Veleno e amore secondo", Mondadori, Milano 1974, p. 106).






Il secondo estratto proviene dal romanzo Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (1922 - 1963); pubblicato postumo nel 1968, è probabilmente il migliore tra quelli italiani che trattano il tema della Resistenza; la storia è quella del giovane studente Johnny che, a seguito dell'otto settembre 1943, decide di unirsi ai partigiani per combattere l'invasore nazifascista. Nel romanzo di Fenoglio emerge tutta la durezza del periodo di lotta che Johnny ed i suoi compagni si trovarono ad affrontare. Il frammento che segue descrive un momento di piacevole rilassamento che vive Johnny proprio dopo le molte sofferenze che ha provato a causa di una vita particolarmente difficile, come era quella dei partigiani al tempo della seconda guerra mondiale. Le allettanti proposte che gli vengono presentate, mentre lui sta mangiando dopo un lungo periodo di digiuno un piatto di minestra, fanno balenare nella mente di Johnny la possibilità di scendere a compromessi per interrompere l'ardua lotta densa di difficoltà e oltretutto assai rischiosa:


«Johnny era in assoluta vacuità mentale, praticamente sordo, tutto stemperato in quell’alta temperatura e nell’aroma di quella ricca minestra. "Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo.E tu, Johnny, sei l’ultimo passero su questi nostri rami, non è vero? Tu stesso ammetti d’aver avuto fortuna sino ad oggi ma la fortuna si consuma, e sarà certamente consumata avanti il 31 gennaio. Perché dunque stare ancora in giro, in divisa e con le armi, digiunando e battendo i denti? Sembrerebbe che tu lo voglia, che tu ti ci prepari a quel loro colpo di caccia ". Giunse compostamente le sue potenti mani. " Da’ retta a me, Johnny. La tua parte l’hai fatta e la tua coscienza è senz’altro a posto. Dunque smetti tutto e scendi in pianura. Non per consegnarti, Dio vieti, e poi è troppo tardi. Ma scendi e un ragazzo come te avrà certamente parenti e amici che lo nascondano. Un nascondiglio dove stare fino a guerra finita, soltanto mangiare e dormire e godersi il calduccio e... — ridacchiò e abbassò la voce: — e ricevere la visita ogni tanto di qualche tua amica di fiducia, l’unica a conoscere il tuo indirizzo".»


Ma Johnny è un ragazzo che, oltre ad avere un coraggio da leoni, possiede ideali libertari ben saldi e radicati in lui e sa che la lotta in cui si è gettato senza indugi è, seppur difficilissima, sacrosanta, quindi, a costo di rimanere l'ultimo "passero sul ramo", decide stoicamente di continuarla e conseguentemente di rifiutare ogni lusinghevole offerta:


«Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir sì" "No che non lo è!" — gridò il mugnaio. "Lo è, lo è una maniera di dir di sì."
[...] Un vento polare dai rittani di sinistra spazzava la sua strada, obbligandolo a resistere con ogni sua forza per non essere rovesciato nel fosso a destra. Tutto, anche la morsa del freddo, la furia del vento e la voragine della notte, tutto concorse ad affondarlo in un sonoro orgoglio. –Io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’unico passero!»

(da "Il partigiano Johnny", Einaudi, Torino 1994, pp. 459-460)




lunedì 22 aprile 2013

"Canto fermo" di Giorgio Vigolo




"Canto fermo" che uscì nel 1931, è il secondo libro di prose di Giorgio Vigolo. Si tratta di un libro notevole, dove lo scrittore romano dimostra, già agli inizi, tutto il suo talento manifestando la sua evidente propensione alla visionarietà e alla contemplazione estasiata della natura; è più che mai evidente poi tutto il suo immenso amore per la città di Roma, che è anche la sua città, e della quale ha scritto pagine indimenticabili sia in prosa che in versi.
Già alla prima pagina di Canto fermo si nota una passo degno di nota che parla delle nuvole:

«La bellezza delle nuvole sorge oggi silenziosa e ispirata sulla terra come una lucente famiglia di dei. Di dietro le scure masse dei monti salgono quasi danzando queste improvvise immagini dell'ignoto e tutte gonfie di luce sospendono sul cielo delle città gli emblemi dei miti e della poesia perduta». (Da Nuvole e pietre, p. 23)

Oppure si può apprezzare in quest'altro frammento la percepibile nostalgia dell'infanzia che Vigolo esprime dissertando delle luci che illuminano la sera della città:

«Con quanto diversa discrezione si accendevano i fanali a olio nelle sere della mia infanzia sul finire dell'ottocento! Questi stessi viali, queste medesime strade avevano da poco preso il posto degli orti e delle vigne...» (Da Te lucis ante, p. 26)

E sempre a proposito di città e in particolare di Roma si possono leggere le bellissime prose intitolate Chiese d'estateIl viso d'argento e Il macello; di quest'ultima ecco un breve estratto che descrive un suggestivo e mistico luogo che presenta alcune particolarità antitetiche e sinistre:

«È un macello, ancora con la luce dentro a quest'ora; non ha imposte, ma un grosso cancello di ferro che lascia intravedere l'interno della bottega dove arde una lampada davanti alla Madonna. La fiammella guizza di continuo, facendo scattare da tutti gli angoli grosse ombre che salgono e scendono sui quarti vermigli delle carni appese». (Da Il macello, p. 35)

Spesso, in queste prose di Vigolo, c'è una ricerca della solitudine, che premette allo scrittore romano una immedesimazione nella natura più segreta e affascinante. Questa caratteristica è possibile rintracciarla in Prisma, in Invisibile amico, in La notte dei tempi e soprattutto in Adamo o della solitudine, da cui estraggo questo frammento che ben riflette la voglia di provare, da parte dello scrittore romano, sensazioni primordiali, di riscoprire mondi intatti, incantati e celati chissà dove:

«È perfetto silenzio: io solo, sperso in fondo all'imbuto, sento il mio piccolo cuore che batte nel centro di questa scena immensa e silenziosa.
Solamente due note di flauto oscillano di quando in quando nell'aria come un lungo pendolo che, nella chiusa valle, divide il silenzio in due nette battute.
È un cuculo, lassù.
...
Io non ho più un'idea, un moto, un ricordo. Questa chiostra ha per lago l'anima mia e non vi si riflette che lo scroscio silenzioso del verde e la fiumana pallida del cielo».

Si è già accennato alla visionarietà come elemento portante delle prose di questo libro, ebbene c'è un brano che appartiene a Invisibile amico in cui Vigolo spiega magistralmente la straordinarietà di quei momenti in cui gli occhi divengono la parte più importante del nostro corpo, permettendoci di provare emozioni uniche e irripetibili:

«Felici della più limpida felicità terrena posson dirsi quei momenti nei quali, dimentichi del corpo, noi non siamo che occhi e tutto il nostro vivere si riduce a un puro vedere. Di tutti gli organi del corpo i meno soggetti al male, quelli che pur nella delicatissima complessione loro meno conoscono il dolore, che meno partecipano della comune miseria delle membra, che più si emancipano dalla radice penosa dell'esistenza: gli occhi».

Di una bellezza rara, molto vicina alla migliore poesia di sempre, sono gli incipit di alcune prose. Ecco alcuni esempi:

«Le città d'inferno in agosto. Nelle pianure basse senz'aria, questi forni di pietra, dove la carne accasciata degli uomini si deprava nel calore». ( Da Chiese d'estate, p. 29)
«I rossi ruderi, le arcate degli acquedotti son qui d'attorno come scogli irruginiti: fermi, tetragoni - basati sull'eternità». (Da Banchi di corallo, p. 62)
«Un immenso idolo ingombra il cielo annottato, come una massiccia basilica; e il capo gli s'impiglia fra gli spini delle stelle». (Da L'idolo, p. 87)
«In una sera d'autunno - non so più se della mia infanzia o di un sogno di ieri - mi ritrovai, senza famiglia, senza ricordi e senza nome - a mezzacosta di un monte che tra le fiamme del vespro già scolpiva i suoi blocchi di carbone violetto» (Da Serale, p. 105)

Chiudono il libro, in appendice, diciassette poesie che Vigolo in parte trasferirà quattro anni dopo nella sua prima raccolta poetica: Conclave dei sogni; tra di esse ve ne sono alcune molto belle come la sognante Il ritorno di seraL'impronta (che nasce da un indizio comprovante il passaggio di una presenza ultraterrena) e Notturnale, in cui Vigolo, ancora una volta, ritorna a parlare della sua Roma notturna, così onirica, misteriosa e inquietante.

venerdì 19 aprile 2013

Il crisantemo nella poesia italiana decadente e simbolista


Il crisantemo in genere ha una simbologia simile a quella del cipresso, legata all'aldilà, all'eternità ed all'ascensione dell'anima verso il cielo; come il cipresso è diffusamente presente nei cimiteri e in particolare sopra le tombe, da ciò l'associazione diretta di tale fiore ai morti ed al mese in cui si celebra il giorno dei defunti: novembre, nonché della stagione in cui i crisantemi fioriscono: l'autunno.




Poesie sull'argomento

Rosario Altomonte: "Poema floreale. I crisantemi" in «La Stella e L'Aurora Milanese», novembre 1902.
Vittorio Betteloni: "Crisantemi" in "Crisantemi" (1903).
Francesco Cazzamini Mussi: "Crisantemi" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).
Enrico Fondi: "I crisantemi", da «Poesia», agosto 1905.
Arturo Graf: "Crisantemi" in "Morgana" (1901).
Marco Lessona: "Grisantemi" in "Ritmi" (1902).
Arturo Onofri: "Crisantemi" in "Orchestrine" (1917).
Giovanni Pascoli: "Crisantemi" in "Odi e Inni" (1906).
Giovanni Pascoli: "Che fanno là, presso la muta altana" in "Canti di Castelvecchio" (1907).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Il crisantemo" in "Sillabe ed Ombre" (1925).
Domenico Tumiati: "La Donna dei Crisantemi" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Mario Venditti: "Le pàlpebre che non debbono chiudersi" in "Il cuore al trapezio" (1921).




Testi

I CRISANTEMI
di Enrico Fondi

«Bianco era il volto e a bruno era vestita -
lo stornello piangea nella pineta -
«E una bara vestiva il suo poeta.
«Fiore di morto non è fior di vita».

Sempre che l'occhio sopra voi si posi
dentro a' giardini o dentro a' cimiteri,
un ritmo melanconico pervade
ogni mia fibra, e penso dolorosi
occhi e campane a morto e ardenti ceri
e gravi salmodie: poi per le strade
vorrei fingermi fresche di rugiade
le feminee gote dell'Aurora.
Vano, a le orecchie mi rimpiange ancora:
«Fiore di morto non è fior di vita».

(Dalla rivista «Poesia»)