lunedì 22 aprile 2013

"Canto fermo" di Giorgio Vigolo




"Canto fermo" che uscì nel 1931, è il secondo libro di prose di Giorgio Vigolo. Si tratta di un libro notevole, dove lo scrittore romano dimostra, già agli inizi, tutto il suo talento manifestando la sua evidente propensione alla visionarietà e alla contemplazione estasiata della natura; è più che mai evidente poi tutto il suo immenso amore per la città di Roma, che è anche la sua città, e della quale ha scritto pagine indimenticabili sia in prosa che in versi.
Già alla prima pagina di Canto fermo si nota una passo degno di nota che parla delle nuvole:

«La bellezza delle nuvole sorge oggi silenziosa e ispirata sulla terra come una lucente famiglia di dei. Di dietro le scure masse dei monti salgono quasi danzando queste improvvise immagini dell'ignoto e tutte gonfie di luce sospendono sul cielo delle città gli emblemi dei miti e della poesia perduta». (Da Nuvole e pietre, p. 23)

Oppure si può apprezzare in quest'altro frammento la percepibile nostalgia dell'infanzia che Vigolo esprime dissertando delle luci che illuminano la sera della città:

«Con quanto diversa discrezione si accendevano i fanali a olio nelle sere della mia infanzia sul finire dell'ottocento! Questi stessi viali, queste medesime strade avevano da poco preso il posto degli orti e delle vigne...» (Da Te lucis ante, p. 26)

E sempre a proposito di città e in particolare di Roma si possono leggere le bellissime prose intitolate Chiese d'estateIl viso d'argento e Il macello; di quest'ultima ecco un breve estratto che descrive un suggestivo e mistico luogo che presenta alcune particolarità antitetiche e sinistre:

«È un macello, ancora con la luce dentro a quest'ora; non ha imposte, ma un grosso cancello di ferro che lascia intravedere l'interno della bottega dove arde una lampada davanti alla Madonna. La fiammella guizza di continuo, facendo scattare da tutti gli angoli grosse ombre che salgono e scendono sui quarti vermigli delle carni appese». (Da Il macello, p. 35)

Spesso, in queste prose di Vigolo, c'è una ricerca della solitudine, che premette allo scrittore romano una immedesimazione nella natura più segreta e affascinante. Questa caratteristica è possibile rintracciarla in Prisma, in Invisibile amico, in La notte dei tempi e soprattutto in Adamo o della solitudine, da cui estraggo questo frammento che ben riflette la voglia di provare, da parte dello scrittore romano, sensazioni primordiali, di riscoprire mondi intatti, incantati e celati chissà dove:

«È perfetto silenzio: io solo, sperso in fondo all'imbuto, sento il mio piccolo cuore che batte nel centro di questa scena immensa e silenziosa.
Solamente due note di flauto oscillano di quando in quando nell'aria come un lungo pendolo che, nella chiusa valle, divide il silenzio in due nette battute.
È un cuculo, lassù.
...
Io non ho più un'idea, un moto, un ricordo. Questa chiostra ha per lago l'anima mia e non vi si riflette che lo scroscio silenzioso del verde e la fiumana pallida del cielo».

Si è già accennato alla visionarietà come elemento portante delle prose di questo libro, ebbene c'è un brano che appartiene a Invisibile amico in cui Vigolo spiega magistralmente la straordinarietà di quei momenti in cui gli occhi divengono la parte più importante del nostro corpo, permettendoci di provare emozioni uniche e irripetibili:

«Felici della più limpida felicità terrena posson dirsi quei momenti nei quali, dimentichi del corpo, noi non siamo che occhi e tutto il nostro vivere si riduce a un puro vedere. Di tutti gli organi del corpo i meno soggetti al male, quelli che pur nella delicatissima complessione loro meno conoscono il dolore, che meno partecipano della comune miseria delle membra, che più si emancipano dalla radice penosa dell'esistenza: gli occhi».

Di una bellezza rara, molto vicina alla migliore poesia di sempre, sono gli incipit di alcune prose. Ecco alcuni esempi:

«Le città d'inferno in agosto. Nelle pianure basse senz'aria, questi forni di pietra, dove la carne accasciata degli uomini si deprava nel calore». ( Da Chiese d'estate, p. 29)
«I rossi ruderi, le arcate degli acquedotti son qui d'attorno come scogli irruginiti: fermi, tetragoni - basati sull'eternità». (Da Banchi di corallo, p. 62)
«Un immenso idolo ingombra il cielo annottato, come una massiccia basilica; e il capo gli s'impiglia fra gli spini delle stelle». (Da L'idolo, p. 87)
«In una sera d'autunno - non so più se della mia infanzia o di un sogno di ieri - mi ritrovai, senza famiglia, senza ricordi e senza nome - a mezzacosta di un monte che tra le fiamme del vespro già scolpiva i suoi blocchi di carbone violetto» (Da Serale, p. 105)

Chiudono il libro, in appendice, diciassette poesie che Vigolo in parte trasferirà quattro anni dopo nella sua prima raccolta poetica: Conclave dei sogni; tra di esse ve ne sono alcune molto belle come la sognante Il ritorno di seraL'impronta (che nasce da un indizio comprovante il passaggio di una presenza ultraterrena) e Notturnale, in cui Vigolo, ancora una volta, ritorna a parlare della sua Roma notturna, così onirica, misteriosa e inquietante.

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