martedì 11 settembre 2012

Ritorno

Dopo dieci anni ritorno
Ne la mia città natale.
Deh, come ne ‘l nuovo soggiorno,
nulla parmi a ‘l vecchio eguale!

Mutate le case, le strade,
le insegne, - ma più le persone:
odor di sfiorite corone
l’aria ed il mare pervade.

Odore di vecchie cose
àlita da le porte:
pianto di cose corrose,
sorriso di cose morte.

I bimbi d’allora, gli eguali,
non li riconosco più:
quali sono vecchi, e quali
son dileguati laggiù…

laggiù, ne la correntia
de ‘l Tempo, che tutto muta;
o laggiù, su la grigia via
de i Morti, oltre il tempo sperduta!

Antonio Cippico

(Dalla rivista "Poesia", maggio/giugno 1905)

domenica 9 settembre 2012

Strade native

E noi cammineremo nel tardo crepuscolo soli,
soli, parlando rado, stringendoci rado vicino:
l'aria sarà di perla, il cielo parrà di rubino
alto, sul piano bigio, solcato dalli ultimi voli.


E sentiremo, lente, sui margini umidi, a stuoli,
cader le foglie; o stridere un carro da un campo vicino;
da qualche porta aperta vedremo brillar di rubino
una fiammata: e china qualch'ombra su neri paioli.


Umili vite, ah bene di me più felici, più molto
felici; e sempre sempre rimaste fra i taciti olivi
presso le dolci case, sottessi i bei colli solivi
che alle sommesse case promettono il mite raccolto.


Altre ombre vengon, vedi: discendono lente, con folto
carco di rami a spalle, le strade rupestri dei clivi:
ecco: e la via maestra li accoglie tra' suoi radi olivi
donde le rade case già occhieggian di un lume raccolto.


Strade nel tardo autunno dilette a percorrere allora!
Sai tu come più lungo indugi il crepuscolo ai piani,
come più solitarie da' lor campanili lontani
piangano le campane traverso il silenzio dell'ora?


Sai tu nell'ombra le ombre? Sai tu nella strada, che odora
di cose morte, il fiato che spande Novembre sui piani,
freddo e pur anche intriso di odori di fiori lontani,
fiori in Ottobre morti che pure profumano ancora?


Cammineremo lenti. Ed io ti dirò la mia vita
che tu non sai... La vita già presso all'autunno. Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto, ch'io ti potrò meglio parlare
così senza vederti, per via già di ombre alte vestita.


Ch'io parlerò più sereno se le tue tenere dita
intreccieranno a queste mie mani dolenti. Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto... Tu ascoltami senza parlare,
come s'io fossi un'ombra che parla da un'ombra infinita.


Non levar li occhi. Ascolta. Mi turbano troppo i tuoi occhi
che ancor l'amore accende, cui tenta i bei cigli la gioia:
per me la gioia è morta. Conviene l'amore che muoia
anche. Tu non guardarmi. Mi par che il tuo sguardo mi tocchi.


E non voglio io sentire riaccarezzarmi i ginocchi
dalla tua veste. Adesso io son come un'ombra. E la gioia
mi ucciderebbe forse. Ah tu non vorresti ch'io muoia:
tu non guardarmi. Lascia che tutto il mio pianto trabocchi.


Pianto che niun più seppe, che troppo già pesami ormai
sul faticato cuore. Chi seppe il mio pianto? Non tu
desiderata allora, nel tempo diletto che fu
de' nostri giovani anni, delli anni che non obliai.


Lunge tu fosti. E in altri giardini ti arriser rosai:
or non tu rose porta su l'ultima mia gioventù :
quello che non è più tu sai che non fu; che non fu
mai. Noi ci amammo un tempo? Bene è: non ci amammo noi mai.


Pure è soave ancora trovarci, al pendìo della vita.
Piacquemi assai l'autunno. Non è questo, autunno? Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto. Tu ascoltami senza parlare,
come s'io fossi un'ombra che parla da un'ombra infinita.


E fa ch'io senta solo, a tratti, le piccole dita
tue di bambina ancora sulli occhi miei colmi d'amare
lagrime. E non parlare. Non puoi consolarmi. Mi pare
che la mia pena taccia. Ma non dirmi nulla. È la vita.


(Da "Primavere del Desiderio e dell'Oblio" di Cosimo Giorgieri Contri, Lattes, Torino 1903, pp. 53-56)

venerdì 7 settembre 2012

Settembre in dieci poesie

SETTEMBRE

Già l'olea fragrante nei giardini
d'amarezza ci punge: il lago un poco
si ritira da noi, scopre una spiaggia
d'aride cose,
di remi infranti, di reti strappate.
E il vento che illumina le vigne
già volge ai giorni fermi queste plaghe
da una dubbiosa brulicante estate.


Nella morte già certa
cammineremo con più coraggio,
andremo a lento guado coi cani
nell'onda che rotola minuta.


(Vittorio Sereni)



***



SETTEMBRE

Chiaro cielo di settembre
illuminato e paziente
sugli alberi frondosi
sulle tegole rosse


fresca erba
su cui volano farfalle
come i pensieri d’amore
nei tuoi occhi


giorno che scorri
senza nostalgie
canoro giorno di settembre
che ti specchi nel mio calmo cuore.


(Attilio Bertolucci)



***



SONETTO DI SETTEMBRE

Settembre, qual dolcezza nuova emana
al lento luminoso dilagare
del sole nelle tue mattine chiare,
dalla mia blanda terra emiliana?


Sembra ogni forma fatta piú lontana
da un vel di sogno e di silenzio: pare
che ogni albero, ogni zolla, ogni filare,
tremi nel sole d’una gioia umana.


Mentr’io, sperduto nei silenzi, ascolto
come ogni frutto in un respiro armonico
d’una celeste ebrietà s’aggravi,


m’appar la terra simile a un bel volto,
ove, come un pensiero malinconico,
passin ombre di nuvole soavi.


(Carlo Vallini)



***



SETTEMBRE

Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.


(Luigi Pirandello)



***



ARIA DI SETTEMBRE

Mortale al suo bel volto,
come declina annoso
l'autunno e per ascolto
la chiama al suo riposo.


La sera spoglia il vento
dell’ultimo colore
e spera che il suo lento
declino sia l’amore


nostalgico del fuoco.
Il freddo autunno rade
le foglie, strema un fioco
riverbero di strade.


E l'ombra reca odore
di bosco perché trami
la sera anche il chiarore
delebile dei rami.


Come una voce invita
nel canto dalle case
si rendono alla vita
convinte le persuase


dolcezze della luna.

(Alfonso Gatto)



***



FIN DI SETTEMBRE

Ed ora, Estate, addio! Nel cenerino
cielo il tuon romba e di lontan minaccia.
Oh tristo, su la livida bonaccia
del mar senz'onda, cielo settembrino!


Oh del settembre che declina e muore
congedi tristi! un brontolio tetro
dilegua il tuon su l'ultimo Appennino:
l'ultimo tuono e poi più nulla. E il cuore,
che sospirando si rivolge indietro,
ripensa la sua vita e il suo destino.
Pensa e sospira, come un pellegrino
che va senza riposo e mai non giunge;
che sosta un tratto a rimirar da lunge
la via percorsa, e seguita il cammino.


(Giovanni Marradi)



***



ORA SETTEMBRINA

Levato, il vento inebriò la selva.
Ebbro anch'esso del fragoroso volo
l'ali batteva cupide di spazio:
piega e sbianca il fogliame al suo passare.
E le starne si adunano, in sospetto
di quello stormire alto ampio all'intorno
e dimenare di furenti braccia.
Mentre, a ridosso dell'annoso muro,
il cacciatore, là, sotto la frasca
dell'osteria seduto in pace, beve
limpido vino e il ciel terso rimira.
A' suoi piedi sognando, il bracco vede
lepri fuggire, e guàiola nel sonno.


(Gustavo Botta)



***



SETTEMBRE

Ancor nei rovi occhieggiano le more
come pupille nere dì ragazze;
e lungo i campi odorano le mazze
esili del finocchio, aperte in fiore.


Ma tra i pampani, ch'arde l'alidore,
vedi le pigne gialle e paonazze.
Allegri! Presto scricchieran le razze
dei carri, con l'aiuto del Signore,


sotto il peso dell'uva. Il tino aspetta.
E tu, nuvola, passa in fretta in fretta.


(Pietro Mastri)



***



SETTEMBRE NAPOLETANO

Frondente carro da le purpuree
issate lune, quali i cocomeri
spaccati in giocondi emispèri,
con codazzo di popol pe' i trivi!


Errante grido di fruttivendoli,
che canti i fichi l'uva le pèrsiche
e i colli assolati di tufo
ove asciugano i panni ne 'l vento!


Mattine azzurre, quando su l'organo
coro di donne lauda la Vergine
e i vetri de 'l vecchio convento
si colorano, freschi, di cielo!


Le dita belle dunque d'un angelo
toccar le corde de 'l nostro spirito?
A i cieli ei si fugge si fugge,
come l'ultimo sole pe' i monti.


(Francesco Gaeta)



***



SETTEMBRE

Boschi miei
che le nuvole del settembre
lente percorrono
mentre le prime foglie
crollano giù dai rami
e adunano umidore per i sentieri
intanto che nel cielo
gli alberi si denudano –
così come di sera
quando cadono le ombre
giù dalle cime
s'incupisce la terra
e in alto si rivelano
i disegni dei monti
e delle stelle –
miei boschi
vi è tanta pace
in questa vostra muta
rovina
che in pace ora alla mia
rovina penso
e sono come chi
stia sulla riva di un lago
e guardi miti le cose
rispecchiate dall'acqua –


(Antonia Pozzi)


domenica 2 settembre 2012

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.



Tra le poesie più ricordate di Salvatore Quasimodo (1901-1968), dà il titolo all'omonimo volume poetico del 1942. Questi versi in realtà erano compresi in un'altra poesia: "Solitudini", che faceva parte di "Acque e terre" (1930), prima opera in versi del poeta siciliano. Il testo, molto breve, bene esprime il concetto di estrema solitudine che caratterizza l'intera esistenza dell'uomo sulla Terra, mentre il "raggio di sole" con cui viene trafitto è una sorta di piccola consolazione, che potrebbe essere rappresentata da brevi momenti di felicità o sentimenti similari. L'ultimo verso eloquentemente chiarisce che la fine della vita (la sera) giunge assai presto. È probabilmente la poesia oggi più conosciuta di Quasimodo, e questo si deve all'estrema essenzialità che la caratterizza: appena tre versi per esprimere un concetto esistenziale difficilmente equiparabile ad altri componimenti in versi. L'unico riferimento possibile è certamente Giuseppe Ungaretti, infatti alcuni suoi versicoli molto somigliano alla poesia di Quasimodo: liriche brevissime eppure immortali perché capaci di estrapolare un sentimento, una meditazione o una semplice sensazione che accomunano la forma mentis della stragrande maggioranza dell'umanità.

lunedì 27 agosto 2012

Da "La vita e il libro" di Giuseppe Antonio Borgese

Ecco tre giovani poeti crepuscolari - Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves - che sono indubbiamente tra i migliori rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torbida e minacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare.
Vi sono, fra i tre, differenze notevoli di contenuto e di stile; ma son di quelle differenze che fra una trentina d'anni dilegueranno sotto quella patina unitaria che il tempo sovrappone alle opere di un'epoca medesima, quando quest'epoca non abbia messo fuori una personalità così vigorosa da superare l'imperativo dell'ambiente. Noi, vicini, sappiamo facilmente discernere che Moretti è il più languido e delicato e Martini il più canoro ed impreciso, mentre Chiaves, come individuo, è il più forte e raccolto e quello che più consciamente adopera l'ironia. Ma i lontani vedranno più facilmente, nei tre poeti nostri e negli altri molti loro coetanei, un'identica maniera di sentire la vita e di trattar l'arte. Arcadia? scetticismo? decadenza? futurismo? novecentismo, come io stesso altra volta chiamai questo poetare sfiancato e invertebrato, senza capo né coda, cullato passivamente da un ritmo monotono e da una rima narcotica, salvo che, invaso da un'improvvisa fede nella sua missione vaticinatrice, non si metta rotolare con una valanga di epiteti amplificativi e di enumerazioni enfatiche? Sono tutte formule che implicano una condanna; e l'importante non è né esaltare né condannare, ma capire.

(Da "La vita e il libro: seconda serie con un epilogo" di Giuseppe Antonio Borgese, Fratelli Bocca Editore, Roma-Milano 1911, pp. 150-151)

domenica 26 agosto 2012

Poeti dimenticati: Ugo Fleres

Ugo Fleres (Messina 1857 - Roma 1939) fu poeta critico e pubblicista di grande fama. Trasferitosi in gioventù a Roma, si fece conoscere coi suoi articoli pubblicati durante i primi anni del "Capitan Fracassa", per poi collaborare anche ad altre testate illustri come il "Fanfulla" e il "Don Chisciotte". Tra i suoi scritti furono apprezzati in particolar modo gli articoli "pupazzettati". Pubblicò su giornali e riviste le sue prime poesie con lo pseudonimo di Uriel per poi esordire ufficialmente come poeta con la raccolta di Versi (1882), edita dal Sommaruga, che fu lodata, tra gli altri, anche dal Carducci. La sua poesia rientra nell'ambito del bizantinismo e possiede quella schiettezza tipica di coloro i quali avversavano il dannunzianesimo (a quell'epoca trionfante), in nome di una lirica sincera.
 
 

Opere poetiche

"Versi", Sommaruga, Roma 1882.
"Sacellum", Giannotta, Catania 1889.
 
 
 
Presenze in antologie
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 162-164).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 265-273).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 329-331).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 709-712).
 

 
 
Testi
ZITTO...

Perché sorridermi
piano pianino,
cuore? sei proprio
un birichino!

Ho tante smanie
sotto il cappello,
leggo - e dimentico,
scrivo - e cancello:

perché sorridermi
piano pianino,
cuore? sei proprio
un birichino!

Sì, tutte l'ansie,
tutte le cure -
lische dell'anima
minute e dure -

tormi non possono
questo sorriso,
nota fuggevole
di paradiso.

Talor dimentico
perché nel cuore
vaghi quest'alito
di buon umore, -

e cerco, e mormora
una vocina
dentro: «Ricòrdati,
ieri mattina...

Zitto, silenzio, -
è il mio segreto:
fu un guardo, un attimo...
zitto - ripeto...

(Da "Versi")

I capelli nella poesia italiana decadente e simbolista

I capelli sono in genere il simbolo della forza (si pensi alla leggenda di Sansone) o comunque hanno a che vedere con la potenza e con l'energia vitale; se sono di donne possono spesso riferirsi alla bellezza e alla seduzione. È sottinteso che la perdita o il taglio dei capelli simboleggia un evento nefasto e comunque negativo. In riferimento alla mitologia poi non è raro rintracciare il personaggio di Medusa, mostro mitologico che possedeva, in luogo dei capelli, luridi e spaventosi serpenti; non a caso Arturo Graf intitolò "Medusa" la sua raccolta poetica più cospicua e famosa.
 

 
 
Poesie sull'argomento
Diego Angeli: "In un giardino di sera" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Giuseppe Casalinuovo: "Capello bianco" in "Dall'ombra" (1907).
Sergio Corazzini: "Capelli perduti" in «Marforio», marzo 1903.
Ettore Cozzani: "La chioma incantata" in "Poemetti notturni" (1920).
Guido Da Verona: "Le trecce nere" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).
Federico De Maria: "Ballata dei capelli" in "Voci" (1903).
Federico De Maria: "Capelli" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Domenico Gnoli: "La tua chioma" in "Poesie edite ed inedite" (1907).
Corrado Govoni: "Ad una dalle chiome rosse" e "La chioma" in "Poesie elettriche" (1911).
Guido Gozzano: "Il sogno cattivo" in "La via del rifugio" (1907).
Tito Marrone: "Le chiome" in «Le Parvenze», marzo 1900.
Angiolo Orvieto: "Chiome d'oro" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Romolo Quaglino: "Cadon le trecce brune su le spalle" in "I Modi. Anime e simboli" (1896).
 
 

 
 
Testi
CADON LE TRECCE BRUNE SU LE SPALLE
di Romolo Quaglino

Cadon le trecce brune su le spalle,
con un lene sussurro di velluto,
delicate com'ali di farfalle,
morbide come serico tessuto.

Cadon le trecce bionde come gialle
fiumane ardenti giù per il dirùto
di forre alpine e gemono le falle
a la roccia un sospiro ed un saluto.

Ne l'iridi d'un bel nero corvino,
ne l'occhio ove risplende lo smeraldo,
tra le labbra procaci di rubino

freme l'incanto d'un invito baldo,
come un peäna squilla un argentino
riso d'ebbrezza, lugubre e spavaldo.

(Da "I Modi. Anime e Simboli")