Il colore bianco in genere è simbolo d'innocenza, di castità, di sacralità e semplicità. Se si tratta di un vestito il bianco indica purezza (la veste della sposa) oppure potrebbe riferirsi a un trionfo dello spirito sulla carne o ancora a una vita senza peccati. Allo stesso tipo di simbologia si ricollega la presenza di fiori bianchi, che siano rose, gigli o altri ancora; ciò spesso può valere anche per gli animali (in particolare per gli uccelli).
Poesie sull'argomento
Alfredo Baccelli: "Ora bianca" in "Poesie" (1929).
Giovanni Alfredo Cesareo: "O bianco viso!" in "Poesie" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "Un sogno" in "Poema paradisiaco" (1893).
Luisa Giaconi: "Candori" in "Tebaide" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Bianca passeggiatrice" in "Primavere del Desiderio e dell'Oblìo" (1903).
Alessandro Giribaldi: "Il geranio bianco" e "L'ombra bianca" in "Il 1° libro dei trittici" (1897).
Corrado Govoni: "I gatti bianchi" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Pallida" e "Il bianco" in "Gli aborti" (1907).
Gian Pietro Lucini: "Chorus mysticus" in "La solita canzone del Melibeo" (1910).
Mario Mariani: "Biancori" in "Antelucano" (1905).
Pietro Mastri: "Il velo e la corona" in "L'arcobaleno" (1900).
Nicola Moscardelli: "Che manca?" in "Abbeveratoio" (1915).
Pier Ludovico Occhini: "Incedi" in "Biscuits de Sèvres" (1897).
Aldo Palazzeschi: "Le fanciulle bianche" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "Il Principe Bianco" in "Lanterna" (1907).
Aldo Palazzeschi: "Mar Bianco" e "La Principessa Bianca" in "Poemi" (1909).
Domenico Tumiati: "La bianca notte" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Annie Vivanti: "Viole bianche" in "Lirica" (1890).
Remigio Zena: "Domino bianco" in "Olympia" (1905).
Testi
DOMINO BIANCO
di Remigio Zena
«Vieni, sposa, dal Libano, festina
All'acque vive e fresche del Giordano:
Candida per battesimo cristiano,
Lascia la tua materna Palestina.
Come agnella che torni in disciplina,
Vieni al bianco Pastor del Vaticano,
E lo sposo, cattolico romano,
Ti sia maestro nella pia dottrina».
Così l'Antiste celebrante il rito
Battesimale e nuzial, tra i gigli
Delle vergini e il fumo degli incensi.
O tu qui genuflessa, a che tu pensi?
Al roseto di Gerico sfiorito?
Alle varie tue fedi in cui sbadigli?
(Da "Tutte le poesie")
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
mercoledì 27 giugno 2012
lunedì 25 giugno 2012
Antologie: Poeti italiani del XX secolo

A proposito di crepuscolarismo, è bello vederlo qui rappresentato in modo così ampio, sì da mettere in risalto l'importanza e l'enorme fascino che i poeti crepuscolari hanno avuto sia sui lettori sia sui poeti delle generazioni seguenti; oltre ai nomi altisonanti di Gozzano e Corazzini, sono presenti in questa antologia anche nomi troppo spesso esclusi come quelli di Giulio Gianelli, di Guelfo Civinini e di Tito Marrone, quest'ultimo poi, totalmente ignorato da tutti gli antologisti o quasi, va considerato come il primo, vero poeta crepuscolare. Per il resto si spuò dire che suscita qualche perplessità la sezione in cui si vedono accomunati futuristi e vociani, perché mi sembra evidente, tanto per fare un esempio, la netta differenza tra poeti come i futuristi Marinetti e Buzzi e i frammentisti Rebora e Jahier; certo è che altri scrittori, come Govoni e Palazzeschi, possono benissimo rientrare in un gruppo di tal guisa, ma così facendo essi vengono totalmente esclusi dai crepuscolari, pur avendo tutti i requisiti per starvi dentro. Anche la quinta sezione appare un po' troppo generalizzata, ma è pur vero che non è facile inserire in gruppi poeti come Saba, Cardarelli e Vigolo, i quali si tennero sempre lontani da scuole o movimenti di sorta; la loro opera poetica si fa notare, tra le altre cose, anche per l'indipendenza totale da qualsiasi moda o tendenza dei tempi. In complesso, come ho già accennato, questa antologia può essere considerata completa ed esaustiva, sia per quel che riguarda la selezione dei poeti presenti, che per la scelta dei testi riportati. Ecco infine, divisi in capitoli, i poeti presenti nell'antologia.
I. FRA I DUE SECOLI
Domenico Gnoli, Angiolo Silvio Novaro, Giovanni Bertacchi, Francesco Pastonchi, Francesco Gaeta, Carlo Michelstaedter, Pietro Mastri, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Luisa Giaconi, Ada Negri, Gian Pietro Lucini, Giovanni Cena.
II. CREPUSCOLARI
Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Marino Moretti, Fausto M. Martini, Guelfo Civinini, Carlo Chiaves, Carlo Vallini, Giulio Gianelli, Tito Marrone.
III. DAI FUTURISTI AI «VOCIANI»
Filippo Tommaso Marinetti, Paolo Buzzi, Luciano Folgore, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Pietro Jahier, Enrico Pea.
IV. DALLA POESIA PURA ALL'ERMETISMO
Arturo Onofri, Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Gerolamo Comi, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Libero De Libero, Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi.
V. LE VARIE STRADE DELLA POESIA ITALIANA TRA LE DUE GUERRE
Umberto Saba, Diego Valeri, Mario Novaro, Vincenzo Cardarelli, Sibilla Aleramo, Luigi Fallacara, Luigi Bartolini, Giorgio Vigolo, Adriano Grande, Carlo Betocchi, Angelo Barile, Sergio Solmi, Attilio Bertolucci, Raffaele Carrieri, Ugo Fasolo, Cesare Pavese, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Renzo Laurano, Vittorio Sereni.
giovedì 21 giugno 2012
Ricordo di Enrico Fracassi

«Le poesie di chi muore in giovane età - e nel caso di Fracassi, suicida - lasciano sempre alla parola del critico una misura di pietà, che talvolta supera o elude il giudizio stesso, quasi che questo non abbia alcun valore o solo un valore marginale. Si scopre nella poesia di chi è morto il senso della sua tragedia e la amara ricerca della morte; situazione che ha già in sé qualcosa di poetico, di fatale, che inesorabilmente, però, ci trascina altrove, fuori del giudizio critico. Le poesie di Fracassi, quelle poche che egli ci ha lasciato prima di morire, non temono, invece, il nostro giudizio: esse si sono collocate intrepidamente tra le tante immagini di disperazione che ci ha lasciato il Novecento, per una loro assolutezza, cui bisogna legare il nome e il segreto di un uomo eccezionale».
Le liriche di Fracassi nascono dalla sua lettura dei classici greci e latini, ma, come afferma lo stesso Spagnoletti, si percepisce anche una certa somiglianza con la poesia di Vincenzo Cardarelli e (aggiungo io) dei frammentisti della "Voce", come dimostra anche l'uso del verso in prosa. Oggi i versi di Fracassi sono entrati nella storia del Novecento poetico italiano insieme a quelli di Carlo Michelstaedter, di Cesare Pavese, di Antonia Pozzi, di Eros Alesi e di tanti altri poeti non conosciutissimi ma che certo avrebbero meritato di esserlo perché la loro poesia nacque esclusivamente da una necessità disperata di esternare i loro sentimenti e il loro profondo dolore.
Opere poetiche di Enrico Fracassi
"Congedo", Scheiwiller, Milano 1948.
"Passione e oblio", Il Labirinto, Roma 1998.
Presenze in antologie
"Antologia della poesia italiana (1909-1949)" a cura di Giacinto Spagnoletti, Guanda, Parma 1952 (pp. 201-205).
"Lirica del Novecento. Antologia di poesia italiana", a cura di Luciano Anceschi e di Sergio Antonielli, Vallecchi, Firenze 1953 (pp. 587-591).
"Poesia italiana contemporanea (1909-1959)" a cura di Giacinto Spagnoletti, Guanda, Parma 1964 (pp. 417-419).
Testi
Il veleno più sottile è questa bellezza diffusa.
Come uno scolaro in vacanza, aspiri voluttuosamente, gridi di piacere, ti getti supino sull'erba, faccia a faccia contro il cielo.
Quanto più limpida è l'aria, tanto più s'aduggia il mio spirito.
È la Natura un quadro senza figure, che noi non sapremmo animare.
(Da "Passione e oblio")
mercoledì 20 giugno 2012
Due romanzi ritrovati
Due romanzi ormai dimenticati: "Il maestro di Vigevano" di Lucio Mastronardi (1930-1979) e "La vita agra" di Luciano Bianciardi (1922-1971), insieme ai film ispirati a tali romanzi e che portano i medesimi titoli, sarebbero da recuperare al più presto. Il loro merito principale fu quello di individuare le occulte e diaboliche trappole che ormai da qualche anno erano state abilmente inserite dai capitalisti che allora detenevano il potere, nella vita e nel modo di pensare del popolo italiano durante il famoso periodo del "boom economico", ovvero all'inizio degli anni '60. Questi meccanismi che avrebbero portato a una serie di aberrazioni collettive come il consumismo sfrenato, l'invidia sociale, l'esibizionismo senza limiti, la corruzione dilagante e tanto altro ancora, oggi si sono moltiplicati, anche se una crisi economica senza precedenti sembra che stia mettendo in seria crisi un sistema che però, probabilmente, continuerà a dominare il mondo ancora per un bel po'.
LIBRI
Lucio Mastronardi, "Il maestro di Vigevano", Einaudi, Torino 1962.
Luciano Bianciardi, "La vita agra", Rizzoli, Milano 1962.
FILM
"Il maestro di Vigevano", di Elio Petri, con Alberto Sordi e Claire Bloom, Italia 1963.
"La vita agra", di Carlo Lizzani, con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, Italia 1964.
LIBRI
Lucio Mastronardi, "Il maestro di Vigevano", Einaudi, Torino 1962.
Luciano Bianciardi, "La vita agra", Rizzoli, Milano 1962.
FILM
"Il maestro di Vigevano", di Elio Petri, con Alberto Sordi e Claire Bloom, Italia 1963.
"La vita agra", di Carlo Lizzani, con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, Italia 1964.
domenica 17 giugno 2012
Roma d'estate
In un volumetto della collana "Roma Tascabile", pubblicato dall'editore Newton Compton nel 1995 (da me trovato chissà dove, probabilmente una decina di anni dopo), lessi un frammento di Gabriele d'Annunzio (1863-1938), che originariamente faceva parte di un articolo pubblicato nella rivista «La Tribuna» del 20 luglio 1887 (il titolo era "L'estate di Roma"). In questo frammento si parla della ineguagliabile bellezza della capitale italiana durante la stagione estiva. Le parole del D'Annunzio mi piacquero molto, perché ripensando alle mie frequenti sortite nelle strade e nelle piazze del centro di Roma, durante le estati di circa trent'anni fa, vi ritrovai le medesime sensazioni (è pur vero che la città descritta dallo scrittore abruzzese, di un secolo e mezzo fa, era assai diversa). In quegli anni, il capoluogo laziale si svuotava quasi completamente nei mesi più caldi dell'anno: luglio e agosto. Era quindi possibile, per chi come me rimaneva in città (anche se in periferia), godere appieno la magnificenza di Roma: passeggiare per i vicoli assolati deserti; fermarsi a bere l'acqua fresca di una delle tante fontane che ci sono al centro; riposare un po' su una panchina di qualche piccola piazza e guardare con ammirazione e stupore il paesaggio circostante… Purtroppo, ho saputo che oggi Roma non è già più come era in quegli anni: ho saputo - non per esperienza diretta - che la città non si svuota più come accadeva allora, ed è quindi impossibile ritrovare quell'atmosfera tutta particolare, che si poteva vivere soltanto nei mesi estivi più caldi, passando nelle strade del centro storico di una tra le più belle città del mondo. Restano i ricordi, per chi li ha, e restano le parole veritiere di D'annunzio, che visse a Roma più di cento anni or sono.
Io ho sempre avuto una profonda compassione di tutta quella gente che dalla propria dignità e dalla consuetudine è costretta a star lontana da Roma nei mesi d’estate. E la mia compassione, in verità, è anche più profonda per tutta quella gente che, pur rimanendo a Roma, si vergogna di mostrarsi per le vie e passa le lunghe ore del giorno in un sopore affannoso, esalando l'intera angoscia in lamentazioni e querele, gonfiandosi di acque tinte, facendosi vento con un ventaglio giapponese o tergendosi il sudore dall'orribil fronte... Oh, povera gente, a cui sono ignoti e saranno forse ignoti per sempre gl’infiniti diletti che Roma, anche d’estate, può dare ai suoi fedeli!
Roma è sovranamente bella e grande e dilettevole in tutte le stagioni. Ma non la Roma invernale tutta color d'oro sotto il pallido cielo di gennaio, come una città dell'Estremo Oriente; né la Roma primaverile, tutta fiorita di rose e di viole come un verziere, ridente nell'azzurro con le sue fontane serene e con le sue chiese argentee; né la Roma d'autunno, immersa nella pura dolcezza della taciturna pace che le piovono i cieli sparsi di nuvole bianche, può venire al paragone con l'ignea Roma estiva che arde solitaria e grandiosa in mezzo alla sua campagna.
(da: Gabriele D'Annunzio, "Roma fine Ottocento", a cura di Paola Sorge, Newton Compton, Roma 1995, p. 57)
venerdì 15 giugno 2012
Il viaggio definitivo
...E me ne andrò. E resteranno gli uccelli
a cantare;
e resterà il mio giardino, col suo verde albero
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido;
e suoneranno, come suonano stasera,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese rinnoverà di gente ogni anno;
e nell'angolo, là, del mio giardino fiorito e incalcinato,
vagherà, nostalgico, il mio spirito...
E me ne andrò; e sarò solo, senza casa, senz'albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido...
E resteranno gli uccelli a cantare.
(Juan Ramon Jiménez)
Da "Poeti del Novecento italiani e stranieri", Einaudi, Torino 1960

È una bellissima poesia di Juan Ramon Jiménez incentrata sulla morte e sulla vita. La morte che sancisce la perdita di tutto ciò che abbiamo: dei nostri luoghi cari, delle persone che ci hanno amato; per questo il poeta s'immagina, avvenuto il trapasso, che il suo spirito vaghi, inconsolabilmente solo, nel suo giardino fiorito, accorgendosi che oramai è morta tutta la gente da lui conosciuta, perché la vita va avanti inesorabilmente, e le generazioni si susseguono. È, in sostanza, un'amara constatazione: ciò che a noi fu più caro e prezioso scomparirà per sempre con la nostra dipartita e nulla rimarrà oltre ai luoghi che ci videro vivere, gioire ed amare. Un altro poeta, Camillo Sbarbaro, ribadisce il medesimo concetto in questi versi tratti da un'altra splendida poesia: «Di ciò che abbiam sofferto / di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore / non rimarrà il più piccolo ricordo».
a cantare;
e resterà il mio giardino, col suo verde albero
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido;
e suoneranno, come suonano stasera,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese rinnoverà di gente ogni anno;
e nell'angolo, là, del mio giardino fiorito e incalcinato,
vagherà, nostalgico, il mio spirito...
E me ne andrò; e sarò solo, senza casa, senz'albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido...
E resteranno gli uccelli a cantare.
(Juan Ramon Jiménez)
Da "Poeti del Novecento italiani e stranieri", Einaudi, Torino 1960

È una bellissima poesia di Juan Ramon Jiménez incentrata sulla morte e sulla vita. La morte che sancisce la perdita di tutto ciò che abbiamo: dei nostri luoghi cari, delle persone che ci hanno amato; per questo il poeta s'immagina, avvenuto il trapasso, che il suo spirito vaghi, inconsolabilmente solo, nel suo giardino fiorito, accorgendosi che oramai è morta tutta la gente da lui conosciuta, perché la vita va avanti inesorabilmente, e le generazioni si susseguono. È, in sostanza, un'amara constatazione: ciò che a noi fu più caro e prezioso scomparirà per sempre con la nostra dipartita e nulla rimarrà oltre ai luoghi che ci videro vivere, gioire ed amare. Un altro poeta, Camillo Sbarbaro, ribadisce il medesimo concetto in questi versi tratti da un'altra splendida poesia: «Di ciò che abbiam sofferto / di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore / non rimarrà il più piccolo ricordo».
martedì 12 giugno 2012
La poesia di Carlo Michelstaedter

"Scritti (volume I)", Formiggini, Roma 1912.
"Poesie", Adelphi, Milano 1987.
Presenze in antologie
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 286-287).
"Lirica del Novecento. Antologia di poesia italiana", a cura di Luciano Anceschi e di Sergio Antonielli, Vallecchi, Firenze 1953 (pp. 101-106).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 519-522).
"Poeti italiani del XX secolo", a cura di Alberto Frattini e Paolo Tuscano, La Scuola, Brescia 1974 (pp. 106-116).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio, Garzanti, Milano 1980 (vol. I, pp. 245-254).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Elio Pecora, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 99-104)."Poesia del Novecento italiano. Dalle avanguardie storiche alla seconda guerra mondiale", a cura di Niva Lorenzini, Carocci, Roma 2002 (pp. 83-85).
Testi
IL CANTO DELLE CRISALIDI
Vita, morte,
la vita nella morte;
morte, vita,
la morte nella vita.
Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte
filammo a questa morte.
E più forte
è il sogno della vita -
se la morte
a vivere ci aita
ma la vita
la vita non è vita
se la morte
la morte è nella vita
e la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita.
Ma se vita
sarà la nostra mortenella vita
viviam solo la morte
morte, vita,
la morte nella vita;
vita, morte,
la vita nella morte. -
(da "Poesie")
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