giovedì 19 marzo 2015

10 oggetti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

L'ACCETTA DI SELCE
di Pompeo Bettini (1862-1896)

L'accetta preistorica
sembra un'arme innocente,
buona a grattar la cotica 
od a nettare un dente;
pur la scheggia silicea,
più valida dell'ugna,
in qualche fiera pugna
percosse ed ammazzò.

Del bisavo antropoide
essa illustrò le gesta:
forse dei cinocefali 
ruppe la dura testa;
indi uccisore e vittime
giacquero in una fossa
ove con lenta possa
la terra li succhiò.

Né spenta è per millennii
l'ira di quei vissuti;
l'arme di selce ha spigoli
laceranti ed acuti
che attestano la torbida
legge di creazione:
ogni carne è boccone
e il vinto si macella.

Questa vetrina è squallida
e desrta è la sala;
un secco odore azoico
dai minerali esala:
pietre ghermite ai culmini,
o scavate dai fondi,
o cadute dai mondi
con orbite di stella.

Che profondo silenzio,
che mistero nel sasso!
Io la mano sul cranio
dubitando mi passo,
e sento che la scatola
d'osso non è ben forte;
ho un brivido di morte
all'idea del cimento.

O tomba geologica,
abisso mal frugato,
ogni vivente è nato
e ci trasmise l'anima
per incognita via;
guizzo di poesia
nell'eterno spavento!

(Da "Poesie e prose", Cappelli, Bologna 1970)





BIGLIETTO DI FERROVIA
di Luigi Capuana (1839-1915)

Questa tessera di viaggio
rimasta in mio potere
assai care cose mi rammenta,
o Lina, e dolci assai.

Con essa parto, senza riscontri,
pel bel paese del passato;
e tu mi stai sempre a fianco,
e nessuno c'importuna!

(Da "Semiritmi", Treves, Milano 1888)





IL PICCOLO FORZIERE
di Giuseppe Chiovenda (1872-1937)

Ho riaperto il piccolo forziere,
Che la storia chiudea del nostro amor;
I suoi biglietti, le sue ciocche nere,
I suoi poveri fior.

Queste reliquie ho visto nel braciere
Divampare con livido baglior;
E m'è rimasto il piccolo forziere
Vuoto come il mio cuor.

(Da "Agave", Unione cooperativa editrice, Roma 1896)





IL ROSARIO DELLA NONNA
di Emilio De Marchi (1851-1901)

Pende dal chiodo sul guancial, di grani
fitto il rosario della nonna mia:
pende e sui sonni miei torbidi o vani
              l'ombra distende pia.

Fanciullo il tintinnir mi piacque e il lento
volger di questa coronina antica;
e ancor quando la tocco ancor ne sento
              uscir la voce amica

dei cari giorni e dei misteri santi,
che stanno ora confitti al vecchio muro:
che non temon di dotti e di pedanti
              il perfido scongiuro.

Serban le perle le ancor calde impronte
delle tue dita, o nonna, ove passasti,
quando inchinata al tuo Signor la fronte
              de' tuoi pensier più casti

gli svelavi i tesori intimi, arcani;
onde non morti ancor dopo molt'anni
come piccoli cor' battono i grani
              pieni dei santi affanni.

Forse già tutte consumò le nude
ossa la terra e accanto al sasso pio
della tua tomba già forse si schiude
              un fior che non è mio;

ma quello che fa tuo spirto immortale
palpita e vive in questo scapolare,
che il ciel congiunge colla terra e vale
              per me più d'ogni altare.

Presso qui sta di gravi opere denso
un armadio di libri, che raduna
in poco il mare della scienza immenso
              che sta sotto la luna;

che la ragione delle cose amara
mi distilla nel cerebro e l'essenza
com'acido purifica e rischiara
              della volgar coscienza;

a cui, del capo urtando al vecchio legno,
chiedo la notte e chiedo il dì la sorte
del viver mio, ma invan chiedo — ed un segno
              che plachi un po' la morte:

che tutt'insieme il venerando stuolo
non fa più breccia, quando il cuore assale,
di quel che faccia lento un vermiciuolo
              nel logoro scaffale...

Ma tu sol che ti tocchi una dolcezza
versi che definir non san le scuole:
scintilla amor e passa una carezza
              su tutto ciò che duole.

Morremo e immota in suo rigor di sasso
starà dei saggi la ragion superba:
tu, povera umiltà, col picciol passo,
              ove più dura e acerba

scende la via, sorreggi il piede e il fianco
alla languida vita; e sull'eterna
scala ove trema il pellegrin più stanco
innalzi una lucerna.

(Da "Vecchie cadenze e nuove", Agnelli, Milano 1899)





LA MACCHINA DA CUCIRE
di Guido Mazzoni (1859-1943)

Perché non luccica
Più né si cela
L'ago precipite
Dentro la tela?
Fermò la macchina
Le ruote, ond'era
Tanto ciarliera

E sta in un angolo
Silenziosa;
Lenta la polvere
Su vi si posa.
Le scarne, pallide
Mani a lei note,
Giacciono immote

Per sempre. Oprarono
Le tele estreme:
Sul petto rigide
Han requie insieme.
O si potessero
Sciogliere, aprire.
Per benedire!

Ma pur dal tumulo
Regge e conforta,
Dolce memoria,
La nonna morta.
Essa a la macchina
La giovinetta
Nipote affretta.

Bianchi miracoli
D'orli e costure,
Alacre artefice
Tenta ella pure.
Come rallegrasi
Tutta la stanza,
Se l'ago danza!

Con gaio strepito
La ruota vola;
Qua e là continua
Passa la spola;
L'ago precipite
Dà le puntate
De le gugliate.

E una cerulea  
D'occhi fiorita 
Ridendo plaude, 
Ridendo incita; 
Mirano attoniti 
L'opera bella 
De la sorella,

Che, il volto roseo
Su l'orlo intenta,
Ecco ne gli ultimi
Giri rallenta
La ruota, e timida
Discioglie il vago
Filo da l'ago.

Pensa a la povera
Nonna? Dal chino
Occhio una lacrima
Cade sul lino.
Poi, ne' suoi riccioli
Biondi, repente
Sorge ridente.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1913)





A UN BUON CIGARRO
di Ippolito Nievo (1831-1861)

Ier ti deposi all'ora dei sospiri,
all'ora dei sospiri or ti riprendo;
ieri il tuo fumo in indolenti giri
all'aer mesto si venia mescendo.
Né m'accorgea di loro,
né di te che dicevi: «Io moro, io moro».

Oggi le labbra han sete di conforto
né mi consente il cor che ingrato io sia;
e ti favello, e sento ch'ebbi torto
di sprezzar la tua muta compagnia,
povera foglia ardente
che il cor m'incalorisci arcanamente.

Ella mi è tolta, e tu per poco resti,
povera foglia; e bruci e ti consumi.
Così passano i dì sereni o mesti,
come passan per l'aria i tuoi profumi;
e ne riman soltanto,
cenere amara, la memoria e il pianto.

(Da "Gli amori garibaldini", Agnelli, Milano 1860)





IL COLTELLO
di Alfredo Oriani (1852-1909)

Sono lungo, son lucido,
la punta sottile;
mi appiatto in saccoccia,
mi dicono un vile;

mi offusco nell'aria,
non soffro un vicino,
la luce mi è in odio
siccome al buon vino.

Son tacito, gelido,
robusto e leggiero,
la lama bianchissima
nel manico nero,

e quasi somiglio
nell'abito bruno
la monaca pallida
dal santo digiuno.

La spada dal fodero
è lenta ad uscire;
poi romba nell'aria,
bastone al colpire.

Imita la vipera
l'antico fioretto;
ha il guizzo ed il sibilo,
ma io sol son perfetto.

Attendo invisibile
in tasca sdraiato,
immobil nel rischio
mortal nell'agguato

e irrompo, fiammeggio,
baleno, dileguo
nel corpo, nell'anima,
divido, proseguo,

ritorno, rosseggio
scompaio... son muto,
fumante, eppur gelido ;
ho vinto, ho perduto.

Ala senza uno scoppio
di suon, di scintille.
Son chiuso: nel manico
mi restan tre stille —

domani tre macchie;
sarò decorato,
saran le medaglie
che danno al soldato

qual premio di gloria...
ovver saran spie.
Che importa? non mentono
i forti — son mie.

Guerriera è la sciabola,
patrizio il fioretto,
da sbirri o da comici
la daga, il stiletto.

Io sono del popolo:
battendomi attacco,
non paro, non simulo;
mi dicon: vigliacco!

Adoro le tenebre,
gli orrori, i secreti:
son come le nottole,
gli spirti, i poeti.

Severo, immutabile
tal ier, tal domane;
al colpo infallibile,
fedel più di un cane.

Non latro, non mangio
né polver, né palle:
m'avvento alla faccia
al petto alle spalle

e mordo insaziabile.
Pistole strepenti,
o tosse o sbadiglio,
vi cascano i denti;

e inutili, vacue
ad ogni latrato,
buon'arma pel vecchio,
pel vii, pel soldato.

Io sono lo slancio,
la forza, il coraggio,
violenza di fulmine,
fulgore di raggio.

D'intorno mi piovono
condanne e disprezzo;
d'intorno mi semino
paura e ribrezzo...

Coi vinti, coi poveri,
coi servi ribelle:
La vita è una insidia?!
E pelle per pelle...

(Da "Monotonie", Zanichelli, Bologna 1878)





L'ANELLO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Nella mano sua benedicente
     l’anello brillava lontano.
Egli alzò quella mano, morente:
     di caldo s’empì quella mano...

o mio padre, di sangue! L’anello
     lo tenne sul cuore mia madre...
o mia madre! Poi l’ebbe il fratello
     mio grande... o mio piccolo padre!

Nel suo gracile dito il tesoro
     raggiò di benedizïone.
Una macchia avea preso quell’oro,
     di ruggine, presso il castone...

o mio padre, di sangue! Una sera,
     la macchia volevi lavare,
o fratello? che pianto fu! t’era
     caduto l’anello nel mare.

E nel mare è rimasto; nel fondo
     del mare che grave sospira:
una stella dal cielo profondo
     nel mare profondo lo mira.

Quella macchia! S’adopra a lavarla
     il mare infinito; ma in vano.
E la stella che vede, ne parla
     al cielo infinito; ah! in vano. 

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1903)





TACCUINO
di Giovanni Prati (1814-1884)

Bruno compagno mio, quando son tristo
e vo pensoso per la via men trita,
io t'ho sovente nella man, provvisto
di fogliolini bianchi e di matita.

E come al giro delle cose assisto,
che porgon lume all'anima romita,
su te depongo il doloroso acquisto
che mi vien dalla morte o dalla vita:

un sogno, un'ombra, una memoria, un detto,
una celia, un sospir, lampi dell'arte,
palpiti della mente e dell'affetto;

seminuli febei, germi in lavoro,
che dentro il campicel delle tue carte
mi fioriscon sovente in mèsse d'oro.

(Da "Poesie varie", Laterza, Bari 1916)





L'ANFORA
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1871-1919)

Vive un dolce ricordo di parole,
sopra un'anfora antica: una tranquilla 
luce, per occhi d'or piove il sole
nel silenzio de' vecchi alberi e brilla.

Dice il ricordo: «April, poche viole
qui fioria: e le irrorâr a sitlla a stilla
le mani degli Amanti umili e sole,
d'acqua raccolta al fonte de la Villa.»

Or da molti anni all'ombra quell'aprile
piegò il suo capo luminoso. - Amanti
e viole vanir. - Ma l'infantile

giuoco, l'Anima azzurra de la Villa
sa e ne bisbiglia per le tremolanti
ombre. L'anfora al sol levasi e brilla.

(Da "Il libro dei frammenti", Aliprandi, Milano 1895)



2 commenti:

  1. Grazie per queste poesie a me sconosciute!

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    1. Prego! Certamente sono sconosciute un po' a tutti. Qualcuna ebbe notorietà più di un secolo fa, ma oggi queste 10 poesie sono finite nel dimenticatoio.

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