mercoledì 9 novembre 2011

Poeti dimenticati: Gino Gori

Nacque a Roma nel 1876 e morì a Sant'Ilario Ligure nel 1952. Dopo la laurea in Giurisprudenza cominciò a dedicarsi con assiduità alla letteratura e al teatro collaborando con suoi scritti a riviste quali "Capitan Fracassa", "Don Chisciotte", "L'Ora" e "Il Tirso". Amico di Trilussa, scrisse dei versi in dialetto romanesco. In seguito cominciò a viaggiare attraverso l'Europa, si sposò e quindi divenne proprietario di un albergo; si dedicò così alla sua nuova professione abbandonando l'attività letteraria. Le sue opere in versi mostrano una tendenza all'innovamento stilistico, mentre le tematiche ricalcano in parte quelle di Pascoli, Gozzano e Govoni, in parte quelle del realismo lirico, il cui artefice e iniziatore fu Massimo Bontempelli, molto stimato dal Gori.
 

Opere poetiche


"Er libbro rosso de la guera", Tipografia editrice nazionale, Roma 1915.
"Le foglie dell'orologio", Casa d'Arte Bragaglia, Roma 1923.
"Il mulino della luna", Alpes, Milano 1924.
"Il grande amore", Bemporad, Firenze 1926.





Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 3, pp. 171-186).
"Poeti Novecento", Mondadori, Milano 1928 (pp. 89-102).



Testi

L'ALBERO LUMINOSO

Cresce come l'alba
quest'albero di madreperla,
e porta impigliati fra i rami
figure d'uomini e colori.
Stormisce che non si sente
coi nostri orecchi mortali,
ma già nell'anima passa
una musica che pare
come un silenzio di amore.
Cresce la pianta mattutina
con una fretta dorata,
empie gli spazi della terra
e l'infinito del cielo.
Tutti la chiamano luce,
ch'è il vero nome di Dio,
ma ella non è che la favola della luce,
e dura un giorno soltanto,
come la fanciullezza,
come l'amore,
come la vita dell'uomo,
ch'è una piccola lacrima
caduta
dagli occhi invisibili dell'eternità.


(da "Il mulino della Luna", pp. 30-31)




LA CULLA

Fatta di nuvole bianche,
foderata d'azzurro e di tepore,
galleggia ancorata
alla riva del fiume della vita,
la culla della nostra infanzia;
e la dondola il vento
dell'alba,
e vi cantano intorno
le Stagioni invisibili del tempo:
Ninna nanna dei giardini,
quanti gigli e gelsomini!
ninna nanna dei ruscelli,
tutti i giorni sono belli,
e il mistero non ci affanna,
ninna nanna, ninna nanna.

Non importa accendere una lampada,
la culla è luminosa;
non importa colmarla di fiori,
la culla è fiorita;
non importa vegliarla,
tutta la materna bontà del cielo
è curva sulla culla,
e le stelle hanno occhi dolcissimi,
che non si chiudono mai.

Vi riposammo un giorno.
Basta.
Ci risvegliammo supini
e non vedemmo che il cielo.
Basta.
Tendemmo le mani per ricevere
i doni dorati del sole.
Basta.
Questo soltanto è bastato
per battezzarci uomini.
Ché se più tardi parlammo,
ché se più tardi pensammo,
ché se più tardi soffrimmo,
questo fu nulla
dinanzi al guardare in alto
dal fondo della nostra culla.

(da "Il Grande Amore", pp. 59-60)

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