domenica 14 giugno 2020

La musica nella poesia italiana decadente e simbolista


Prima di qualunque altra cosa è bene chiarire che in questo post non si fa riferimento alla famosissima frase pronunciata da Paul Verlaine (e che riguardava il suo fare poetico): "La musica è tutto". Infatti, nel sottostante elenco di poesie non si fa riferimento ad alcuna musicalità dei versi, ma alla vera e propria musica. Detto questo, se si leggono i titoli delle composizioni poetiche da me selezionate, è facile notare che i poeti decadenti e simbolisti italiani sono stati maggiormente attratti da particolari generi musicali e da altrettanto particolari strumenti. Certamente è la musica classica a predominare, e soprattutto un musicista: Ludwig van Beethoven. Evidentemente questi poeti, pur abbracciando nuove e sperimentali tendenze letterarie, rimasero legati, almeno musicalmente, a quel romanticismo decisamente passionale che il musicista tedesco rappresentava in modo perfetto. Altri musicisti che hanno influenzato molte poesie di questo periodo storico della poesia italiana sono Fryderyk Chopin e Franz Schubert, anch'essi riconducibili alla sempre viva tendenza romantica. Soltanto in rari casi fanno da ispirazione a questi versi, le opere musicali di artisti come Richard Wagner e Claude Debussy che, al di là dei dati anagrafici, furono considerati "nuovi". Tra gli strumenti musicali sarà di nuovo facile rilevare l'assidua presenza di violini e flauti; per quanto riguarda i primi, è nota a tutti la diffusa opinione che il violino sia lo strumento musicale in grado creare atmosfere particolarmente malinconiche; il flauto, sempre in base ad alcune leggende popolari, possiede un suono così suadente da causare una sorta d'ipnosi in chi lo ascolta attentamente. Al di fuori della musica classica, si riscontra la scarsa (per non dire nulla) presenza di canzoni popolari, e l'unico strumento - se di strumento si può parlare - che compare più di una volta in queste poesie, è il famoso organo di Barberia, che fu tanto caro ai poeti crepuscolari. Esso, per le sue caratteristiche, può ben rappresentare l'altra faccia della medaglia, ovvero la preferenza, da parte di determinati poeti, della musica più umile e più semplice: quella che a quei tempi era facile ascoltare semplicemente passeggiando in una strada cittadina; gli organi di Barberia, infatti, erano spesso usati da persone al limite della indigenza, che, girando la manovella di questo strumento (il quale effondeva nell'area circostante musiche trite e a volte distorte), cercavano di racimolare qualche moneta dai passanti rallegrati o affascinati dal suo particolarissimo suono.




Poesie sull'argomento

Pompeo Bettini: "Canzone triste" in «Vita moderna», marzo 1892.
Antonio Bruno: "Musiche della sera" in "Fuochi di Bengala" (1917).
Paolo Buzzi: "La violinista" in "Versi liberi" (1913).
Giovanni Camerana: "Beethoven" in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Un flauto" in "L'Incubo Velato" (1906).
Enrico Cavacchioli: "Concerto per arpe" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Girolamo Comi: "Illuminazione musicale" in "Lampadario" (1912).
Girolamo Comi: "sento i violini del sole" in "Smeraldi" (1925).
Sergio Corazzini: "Per organo di Barberia" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Auro D'Alba: "30 violini" in "Baionette" (1915).
Gabriele D'Annunzio: "Romanza della donna velata" in "Poema paradisiaco" (1893).
Federico De Maria: "Un adagio di Beethoven" in "Le Canzoni Rosse" (1904).
Luigi Donati: "Il violino" in "Poesia", marzo 1908.
Vincenzo Fago: "Torna forse l'antica melodia" e "S. Cecilia" in "Discordanze" (1905).
Luisa Giaconi: "Chopin" in "Tebaide" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Sentendo suonare Schubert" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Cosimo Giorgieri Contri: "Il pianoforte" in «Nuova Antologia», aprile 1906.
Corrado Govoni: "La musica" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Il piano" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni: "La musica", "In un notturno di Chopin" e "Organo di Barberia" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Mendelssohn", "Schumann", "Chopin", "Beethoven", "Triste adagio" e "Il flauto" in "Poesie elettriche" (1911).
Arturo Graf: "Il flauto notturno" e "L'organetto" in "Le Danaidi" (1905).
Arturo Graf: "Arpa eolia" in "Le Rime della Selva" (1906).
Enzo Marcellusi: "Marcia patetica nuziale" in "Il giardino dei supplizi" (1909).
Tito Marrone: "Forse..." in "Le gemme e gli spettri" (1901).
Mario Morasso: "Il sorgere di una nuova speranza" in "I Prodigi" (1894).
Nicola Moscardelli: "Flauto pomeridiano" in "Abbeveratoio" (1915).
Arturo Onofri: "L'immensa orchestra del vento spande..." in "Canti delle oasi" (1909).
Arturo Onofri: "Le armonie della pietra alzano un canto" in "Suoni del Graal" (1932).
Angiolo Orvieto: "La cornamusa" in "La primavera della cornamusa" (1925).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Sinfonia d'autunno" in "Sillabe ed Ombre" (1925).
Guido Ruberti: "Chopin: notturno" in "Le Evocazioni" (1909).
Emanuele Sella: "Questo ricordo viene dal passato" in "Il giardino delle stelle" (1907).
Emanuele Sella: "Il suono del flauto" in "Monteluce" (1909).
Agostino John Sinadinò: "Alitano, cémbali profondi" in "La Festa" (1900).
Giovanni Tecchio: "Sopra un notturno di L. van Beethoven" in "Mysterium" (1894).
Diego Valeri: "Organetti" in "Umana" (1916).
Diego Valeri: "Da Debussy - Serenata per la bambola" in "Crisalide" (1919).
Diego Valeri: "Momenti beethoveniani" in "Ariele" (1924).
Carlo Vallini: "Musica" in "Un giorno e altre poesie" (1967).
Domenico Zarlatti: "La musica carnale" in "Rivista di Roma", gennaio 1906.
Domenico Zarlatti: "Nostalgia" in "Rivista di Roma", settembre 1907.
Remigio Zena: "Notturno per organetto di Barberia" in "Olympia" (1905).




Testi

UN ADAGIO DI BEETHOVEN
di Federico De Maria

Il violino singhiozzava
con gemiti lunghi di schianto,
con grida acute - spasimava
disperatamente il suo pianto.

Tacevano tutti - tu, immota,
sedevi al mio fianco, ascoltando
rapita la musica ignota,
né ci guardavamo; ma quando

alzai gli occhi, su la parete
di fronte, a lo specchio che adombrano
i fini velluti e le sete
dell'ampie cortine, - penombra

lucente - io ti vidi riflessa
dinanzi a me, pallida, muta;
non mi paresti più la stessa
donna: no, - ti vidi, venuta

da un altro mondo, visione
immobile, rigida, senza
né sguardo né voce, impersone,
lontana nella trasparenza

dello specchio: io vidi una morta.
L'anima mia rabbrividiva
pensando che saresti morta
così... - La melodia saliva.

(da "Le canzoni rosse")




NOTTURNO PER ORGANETTO DI BARBERIA
di Remigio Zena

Udite? udite un organo
Detto di Barberia,
Che sulla strada macina
Cantilene ed ariette?

Ora è una sinfonia
Di flauti e di trombette,
Un'orchestra bizzarra,
Un'onda fragorosa,
Ed ora una pietosa
Toccata di chitarra.

Trilli galanti, egloghe
Languenti in nostalgia,
Serenate dolcissime,
Lunari barcarole;

E la mia fantasia
Sa trovar le parole,
Nell'anima le imprime
Mentre si fanno liete
D'una frangia di rime.
E il labbro le ripete,

È il tema che predomina
Quello di Geremia,
L'appassionato al flebile
Grigiamente s'intreccia,

Ma talor l'ironia
Scatta come una freccia,
Sibilando l'angoscia
D'ogni cosa perduta...
Ha un sapor di cicuta
La risata che scroscia.

Bieco portento! L'organo,
Non so per qual magia,
Dagli ordigni meccanici
D'improvviso sprigiona

Rantoli d'agonia,
Come se a una persona,
Anzi a varie persone
Sepolte e ancor viventi,
Digrignasse fra i denti
L'ultima convulsione.

O tu, chi sei, rispondimi,
O tu, che per la via
Trascini nelle tenebre,
Su due fragili ruote,

Tutta un'epifania
Di tante anime ignote?
Chi sono? e questi canti?
E questi spasmi? dite,
O voi, donde venite,
Anime agonizzanti? -

- Non t'importi, o nottambulo,
Di saper ch'io mi sia,
Se da ieri o da un secolo
Compro o rivendo crome;
Ma tu vuoi ch'io ti dia
Età, nome e cognome
Di costoro che ascolti,
E dei quali ti bei?
Sono otto o dieci Orfei,
Da me, vivi, sepolti!

(da "Olympia", 1905)




Vilhelm Hammershøi, "Interior with Ida Playing the Piano"
da questa pagina web

domenica 7 giugno 2020

La poesia di Arturo Graf





Arturo Graf (Atene 1848 - Torino 1913) attende ancora oggi un riconoscimento più adeguato al suo valore reale di poeta. C'è chi sostiene che sia stato anche un critico egregio, ma, visto che le mie conoscenze si limitano alla sola poesia, posso parlare soltanto dei suoi versi, i quali mi apparvero - già  quando li lessi per la prima volta così come oggi - semplicemente unici. Troppo spesso relegato ad un ruolo marginale all'interno della poesia italiana del XIX secolo, non è facile trovare almeno una sua poesia nelle pagine delle antologie scolastiche; sempre, invece, lo si trova inserito in quelle che riguardano la "Poesia minore dell'Ottocento". In verità il Graf fu un grandissimo poeta, a mio modo di vedere più grande di qualche altro suo contemporaneo, fin troppo esaltato (ieri come oggi) da una critica di parte. Graf fu tra i primi a trasferire in Italia quelle poetiche e quelle correnti nate in Europa nella seconda metà del XIX secolo, che rispondo al nome di decadentismo e simbolismo; certo, lo fece a modo suo, tenendo sempre ben presente la figura del Leopardi; non di meno, si guardò bene dal rinnegare una evidente propensione al romanticismo: corrente artistica nata alla fine del Settecento ma ancora viva e facilmente identificabile nei versi di Graf e di altri poeti della sua generazione; quindi, pur mantenendo delle peculiarità che lo legano al passato, il Graf seppe dare un respiro più fresco alla poesia italiana, da tempo fossilizzata su vecchie cadenze e temi frusti.
Graf poeta è stato spesso tacciato di eccessivo manierismo o di una esagerata ripetitività dei temi trattati (caratteristiche in effetti plausibili ma non determinanti per un giudizio finale equo), però non ci sono dubbi sul fatto che i suoi versi affascinarono generazioni intere, e ancora in parte affascinano il lettore di autentica poesia. Tant'è che il ruolo di "poeta minore", che gli è stato sbrigativamente affibbiato dai critici, certamente gli va stretto, anche perché - e su questo non si discute - la sua opera in versi influenzò in modo netto molti poeti della prima generazione del XX secolo (Gozzano compreso). Non è un caso, infine, che alcune delle sue migliori raccolte poetiche siano state ripubblicate anche recentemente. Concludo questa mia dissertazione su un grande poeta a cui tengo moltissimo, riportando un elenco delle sue opere in versi e cinque poesie che giudico tra le migliori.



Opere poetiche

"Poesie e novelle", Loescher, Torino 1876.
"Medusa", Loescher, Torino-Roma 1880.
"Medusa" (2° ed.), Loescher, Torino 1881.
"Medusa" (3° e definitiva ed.), Loescher, Rorino 1890.
"Dopo il tramonto", Treves, Milano 1893.
"Le Danaidi", Loescher, Torino 1897.
"Morgana", Treves, Milano 1901.
"Le Danaidi" (2° ed.), Loescher, Torino 1905.
"Le Rime della Selva", Treves, Milano 1906.
"Le poesie", Chiantore, Torino 1922.



Testi 

PALLIDA MORS

Mentre intorno ai fioriti e scintillanti
Deschi sediam entro dorata sala,
E dalle tazze traboccanti esala
Il sonoro e gentil spirto dei canti;

Mentre ferve la gioja, e accende il volto
Alle fanciulle e scalda il sen di neve,
Dietro i serici arazzi il passo greve
E il riso acuto io della morte ascolto.

E gli occhi, pieno di sgomento il core,
Ficco nel viso a un orïuol beffardo,
E il negro, maledetto indice guardo
Per l’angusto volar cerchio dell’ore.

Mi guardo a fianco, e sull’amata fronte
Veggo di tratto inaridir le rose,
E spegnersi il balen dell’amorose
Luci che al mio piacere eran sì pronte

Illividir le tempie ed il soave
Labbro farsi di gel, sciorsi le chiome,
E sulla sedia arrovesciarsi, come
Morto, il bel corpo illanguidito e grave.

E mi s’agghiaccia il cor; falso né vero
Più non discerno, non rido, non piango;
Ma, con le braccia al sen, muto rimango,
Immobile, a guatar l’empio mistero.

(da "Le poesie", Chiantore, Torino 1922, pp. 14-15)



  
POVERO CORE

O mio povero cor, morta è la pace,
Morto è l’amor; di novo a che sussulti?
Morta è la fede; a che più la vorace
Fiamma di vita nel tuo grembo occulti?

O mio povero cor, quando più tace
La fredda notte e dei patiti insulti
Grave su te la rimembranza giace,
Udir mi sembra i tuoi sordi singulti.

O mio povero cor, fossi tu morto!
Così di gel, così d’angoscia stretto,
Onde vuo’ tu sperar gioja o conforto?

O mio povero cor, non rinvenire;
O mio povero cor, del chiuso petto
Fatti una tomba e lasciati morire.

(da "Le poesie", Chiantore, Torino 1922, p. 124)




LA FALCE

Di nubi tra molle sfacelo
Io vidi nel cielo una falce:
La falce era lucida, il cielo
D’un crudo biancore di calce.

Negli orti né frasca né tralce;
Sui campi né fiore né stelo...
Che tronca, che miete la falce,
La falce ch’io vidi nel cielo?

Non trema nell’ombra di gelo
La trista canzone del salce?...
È notte. Fa freddo. Nel cielo
Io vedo rotare una falce.

(da "Le poesie", Chiantore, Torino 1922, p. 533)




LA PORTA DI BRONZO

Simile a muro di color ferrigno,
Di qua, di là, senza confin si stende
E al cielo poggia l’antico macigno.

Non vena d’acqua per quell’erto scende.
Non pruno incespa la petraja morta:
Fosco e sinistro il ciel nell’alto pende.

Una superba e smisurata porta,
Tutta di bronzo lucido formata.
Corrusca di lontan per l’aria smorta.

Con ascosi serrami entro è serrata:
L’arco di sopra è pietra scura e spessa;
È ferro il limitar che il passo guata.

Senza intermissïon davanti ad essa.
Per brama c’ha d’uscir di quel deserto,
Un infinito popolo fa ressa.

Ciascun, dolente, e di sua vita incerto,
Le salde imposte con le man percote,
E grida e prega perché siagli aperto.

Cupo romba il metal, come per vote
Nuvole il tuon; rimormoran le nude
Rupi; la terra sotto ai pie’ si scote;

Ma la porta fatal mai non si schiude.

(da "Le poesie", Chiantore, Torino 1922, pp. 568-569)




NELL'OMBRA

Qui, qui, nel grembo, nel core
Della solinga foresta,
Dove il mio cor si ridesta
Al sogno che mai non muore;

Qui, sotto il ciel che s’ingombra
Del vivo intreccio de’ rami:
(Che più volete ch’io brami?)
Qui mi lasciate nell’ombra.

Nell’ombra infusa d’arcano,
Di blandi aneliti piena;
Nell’ombra chiara e serena
E nel silenzio sovrano.

Lasciatemi respirare
I lenti effluvii, le forze
Ch’esalano dalle scorze
Stillanti, dall’erbe amare.

Lasciatemi bever l’onda
Che scaturisce ne’ greppi,
Che lambe i ruvidi ceppi,
Che sotto i muschi s’affonda.

Lasciate che abbracci i fusti
De’ vecchi abeti nel folto,
Che tuffi nell’erba il volto,
Che acerbe coccole gusti.

Lasciate l’anima mia
Tutta passar nelle cose,
E cercar l’anime ascese,
Mute in lor dolce malìa.

(da "Le poesie", Chiantore, Torino 1922, pp. 1082-1083)