mercoledì 15 giugno 2016

La solitudine in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

La solitudine, rispetto alla misantropia, è un sentimento più dolente; se il misantropo va alla ricerca della solitudine perché infastidito dall'umanità, il solo o solitario si ritrova in tale condizione senza volerlo: perché respinto, per qualche motivo, da tutti, oppure perché incapace di trovare almeno una persona che possa soddisfare le sue esigenze, con cui possa trovare un minimo di accordo e di complicità. Da qui nasce il dolore dell'uomo e della donna che si sentono soli; ma questo tormento a volte si stempera in dolce malinconia o in compiaciuto vittimismo. Ecco allora dieci poesie di dieci poeti italiani, scritte e pubblicate durante il XIX secolo (fa eccezione quella del Camerana, che comunque porta la data del 1885), in cui vengono esternati questi sentimenti di sofferenza; a volte essi sono autobiografici, a volte no, ma comunque ritengo che tutti quelli riportati di seguito siano dei versi di buon valore, degni di essere letti e riletti da anime sensibili, come certo saranno tutte quelle che si soffermeranno su questo post.




SOLITUDINE
di Bruna (pseud. di Laura Clementina Maiocchi, 1866-1945)

Ho pianto molto; ora una pace blanda,
quasi mortale, scende sul mio core.
Parmi di camminare in una landa
vasta, silenzïosa, senza un fiore.

Ma dove, dove, vado? che mai spero
così sola e dolente ne l'intenso
silenzio? Nulla so del gran mistero
che mi circonda, ed altro più non penso.

Il mio pensiero, ch'è dolore, tace;
pietoso tace perchè molto ho pianto:
io vo, come dormendo, in questa pace.
Ed è il mio core un ermo campo santo.

(Da "In solitudine", Cappelli, Rocca S. Casciano, 1898)





LA NERA SOLITUDINE
di Giovanni Camerana (1845-1905)

La nera solitudine alla nera
solitudine;- il sogno alto al profondo
pensier;- la sera che è triste, alla sera
che piange; - al mondo infranto, il bieco mondo.

(Da "Versi", Streglio, Torino 1907)





LA BUONA VOCE
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Sei solo. D'altro più non ti sovviene.
E d'altro più non ti sovvenga mai!
Sul tuo cuore fluisca l'oblìo lene.

Ti sien dolci questi umili sentieri.
Ancóra qualche rosa è ne' rosai.
Sarà domani quel che non fu ieri.

Domani prenderà novo coraggio
e nova forza l'anima che teme.
A la prima rugiada, al primo raggio
non s'alza l'erba che il tuo piede preme?

(Da "Poema paradisiaco", Treves, Milano 1893)





LA VITA SOLITARIA
di Giacomo Leopardi (1798-1837)

La mattutina pioggia, allor che l'ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s'affaccia
L'abitator de' campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:
Poiché voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benché scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl'infelici alcuno
  E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
  Co' silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
  Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l'acciaro
Del pallido ladron ch'a teso orecchio
Il fragor delle rote e de' cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de' piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell'armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell'etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avanza.

(Da "Canti", Le Monnier, Firenze 1860)





NEBBIE
di Ada Negri (1870-1944)

Soffro. — Lontan lontano
Le nebbie sonnolente
Salgono dal tacente
              Piano.

Alto gracchiando, i corvi,
Fidati all'ali nere,
Traversan le brughiere
              Torvi.

Dell'aere ai morsi crudi
Gli addolorati tronchi
Offron, pregando, i bronchi
              Nudi.

Come ho freddo! Son sola;
Pel grigio ciel sospinto
Un gemito d'estinto
              Vola;

E mi ripete: Vieni,
È buia la vallata.
O triste, o disamata.
              Vieni!...

(Da "Fatalità", Treves, Milano 1892)





AL FUOCO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Dorme il vecchio avanti i ciocchi.
Sogna un nuvolo di bimbi,
che cinguetta. Il ceppo al foco
            russa roco.


Dorme anch’esso. A tutti i nocchi
sogna grappoli e corimbi.
Rosei pendono nell’aria
            solitaria.

Bianchi i bimbi tra il fogliame,
su su, a quel roseo sorriso
vanno. Il ceppo occhi di brace
            apre, e tace.

Ecco pendulo lo sciame
dal grande albero improvviso,
su su. Il vecchio nel cor teme,
            guarda e geme.

Ogni bimbo al suo fiore alza
la mano e... scivola e va.
Sbarra il ceppo la pupilla:
            crocchia e brilla.

E il vegliardo, al crocchiar, balza
nella rotta oscurità.
Gira lento gli occhi. Solo!
            solo! solo!

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1894)





ISOLAMENTO
di Giovanni Prati (1815-1884)

Amo il fiore se, germina soletto,
Più che se adorna di mill'altri il suolo;
Amo il ruscello, che per picciol letto
Passa ne'campi, e l'uccellin che il volo

Muta per poche fronde, e fuor del petto,
Versa cantando qualche antico duolo;
Ed amo l'astro che nell'aer schietto
Senz'altra compagnia brilla nel polo.

Amo la nuvoletta, che si tinge
d'una languida porpora, e non posa
Per l'ignoto desio che la sospinge;

Mi prende amor d'ogni isolata cosa,
Perché l'anima mia vi si dipinge
Isolata in eterno e dolorosa.

(Da "Memorie e lacrime", Marietti, Torino 1844)





IL TRENO HA FISCHIATO...
di Giacinto Ricci Signorini (1861-1893)

Il treno ha fischiato: fremendo
Sotto l'ampia sonora tettoia
S'arresta; di un balzo discendo,
E mi canta nel cuore la gioia.

Veloce mi volgo all'uscita,
Guardo: dietro i cancelli lucenti
Mi aspetti con ansia infinita,
E mi accenni dagli occhi ridenti.

Così m'era dolce l'arrivo
Nel passato: nessuno ora viene
Che mi attenda all'uscita giulivo,
Che mi baci e mi dica: Stai bene?

Cammino tra il chiasso a rilento,
Ma non odo il tuo riso giocondo:
Ho voglia di pianger: mi sento
Tanto solo e perduto nel mondo.

(Da "Thanatos", Società coop. per l'arte tipografica, Cesena 1892)





OH PICCOLO UCCELLO DAGLI OCCHI NERI...
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869)

Oh piccolo uccello dagli occhi neri; tu vai accarezzando colle ali le onde dell’Oceano, e canti lietamente la tua canzone nella solitudine. Entrambi siamo soli ed abbandonati in questo deserto; una profonda quiete domina sulla natura, ma questo silenzio non influisce sul mio cuore. Esso batte assai forte, o piccolo uccello dagli occhi neri.

Io vengo quivi a versare le mie lagrime , e a nascondere agli uomini il rossore della mia debolezza. - Amare senza essere amato, - desideri inesauditi - sogni vani e impotenti, e giovinezza senza speranze. Io canto i fiori recisi dalla mia primavera, e tu canti lietamente la tua canzone, o piccolo uccello dagli occhi neri.

Vorrei che una barca sul mare, e la mia fanciulla tra le braccia, e un ultimo addio alla mia terra natale. Forse, ed allora mi sembrerebbe meno desolata la vita. Ma ohimè! nessun conforto io posso attendermi dagli uomini, se i miei lamenti non valgono pure ad interrompere la tua canzone, o piccolo uccello dagli occhi neri.

Sí canta lietamente, o piccolo uccello, uccello felice delle montagne. Io vorrei teco dividere il mio destino. Vorrei io pure avere le ali, per vivere lontano dalla terra, e la tua incostanza per non amare, e la brevità della tua vita per piangere di meno. Ma addio, tu mi hai fatto sentire la tua canzone sopra la riva del mare, e una grande tempesta hai suscitata nel mio cuore, o piccolo uccello dagli occhi neri.

(Da "Disjecta", Zanichelli, Bologna 1879)





SPLEEN
di Remigio Zena (pseud. di Gaspare Invrea, 1850-1917)

Vibra, o sol della poesia,
Vibra un raggio d'armonia
Sulla negra anima mia.

Della noia tra le lotte
La caligine m'inghiotte
D'un'opaca mezzanotte.

Nel chiarore vacillante
Della lampa agonizzante
Son qui solo brancolante

E alla Musa mia sorella
Chiedo invan la strofa bella,
Ma la Musa si ribella,

Non discende a darmi aiuto,
La sua man sdegna il lïuto,
E il suo labbro resta muto.

Altra musica non sento
Che la musica del vento
In risposta al mio lamento.

Privi che l'ultimo sbadiglio
Mandi il lume, in questo esiglio
Entra tu, sole vermiglio.

Vibra un raggio d'armonia,
Santo sol della poesia,
Sulla negra anima mia.


(Da "Poesie grigie", Tip. del r. I. de' sordo-muti, Genova 1880)



William-Adolphe Bouguereau, "Seule au monde"

sabato 4 giugno 2016

Poeti dimenticati: Massimo Spiritini

Nacque a Zevio nel 1879 e morì a Verona nel 1963. Abbandonati gli studi in Lettere all'Università di Padova, si trasferì in Olanda dove cominciò a lavorare come insegnante. Tornato, dopo nove anni, in Italia, si sposò e ottenne un impiego (sempre come insegnante) ad Ascoli. Dopo la Grande Guerra, a cui partecipò, Spiritini tornò a professare l'insegnamento a Padova, a Marsiglia e quindi a Verona. Si interessò soprattutto di poesia straniera e pubblicò molte traduzioni e antologie. Come poeta iniziò nel solco della tradizione classica per poi avvicinarsi al genere epigrammatico. Recentemente è stato pubblicato un volume ("Versi", QuiEdit, Verona 2010) che contiene una scelta antologica delle sue liriche.



Opere poetiche

"In Olanda", Aldo Manuzio, Verona 1904.
"La veglia delle armi", Streglio, Torino 1907.
"Le Perle della Corona", Carabba, Lanciano 1931.
"Le Invocazioni", Carabba, Lanciano 1935.
"Zodiaco", Mondadori, Verona 1938.
"Poesie proibite", Ausonia, Siena 1948.
"Le Offerte", Dante, Verona 1950.
"Le Grazie", Gastaldi, Milano 1952.
"Et ultra", Vita Veronese, Verona 1958.






Presenze in antologie

"Poeti delle Venezie", a cura di Federico Binaghi e Guido Marta, Zanetti, Venezia 1926 (pp. 246-249).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 503-504).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (p. 351).




Testi

QUANDO IL TEDIO MI AFFERRA...

Quando il tedio mi afferra e ne la gola
mi strozza una bestemmia velenosa,
hai ben ragione allor d'esser gelosa
ché nel mio cor non domini più sola.

Gialla e fredda nel manto sepolcrale
viene al mio amor la morte, tua rivale.
E... vorrei proprio nel lastrico giù
tuffar la testa e non muovermi più.

(Da "In Olanda")


lunedì 30 maggio 2016

I gigli nella poesia italiana decadente e simbolista

Il giglio o lilium è un fiore molto citato dai poeti simbolisti, decadenti, crepuscolari, liberty ecc. La sua simbologia non si discosta dai canoni classici: rappresenta la purezza, la verginità, la castità, il candore e, più in generale, la religiosità. Ancora una volta, in Italia, furono Gabriele D'Annunzio e Giovanni Pascoli i primi ad inserire i gigli quale argomento portante dei componimenti in versi: il primo ne fa amplissimo uso nel volume L'Isotteo. La Chimera; il secondo dedica ad essi una poesia di Myricae dove i gigli, piantati dalla defunta madre del poeta nel giardino di una casa non più di proprietà della famiglia, continuano a nascere e fiorire, finendo quindi sull'altare della "Madonna dell'acqua". Presso quest'altare, alcune donne che conoscono le sfortunate vicende della famiglia Pascoli, chiedono alla Madonna che Giovanni sia riportato nella sua vecchia casa e qui vi muoia tornando infine ad unirsi ai suoi cari già estinti. Oltre a D'Annunzio, un altro poeta che cita spesso i gigli nei suoi versi è Corrado Govoni, il quale li descrive in modi assai diversi, a volte sorprendendo per associazioni di idee molto lontane dai tradizionali valori a cui si associano questi fiori. Bella la poesia di Gaeta, che racconta, a tal riguardo, una leggenda poco nota. Molto interessante La notte dei gigli di Diego Angeli, dove i fiori muoiono durante una notte di passione amorosa tra un uomo ed una donna vergine: la morte dei gigli, relazionata alla donna, rappresenta la fine della purezza. Un giglio muore anche nella poesia di Tito Marrone, portato fra le mani da una vergine incontrata ed amata intensamente dal poeta. In Sinfonia di gigli di Vincenzo Fago, i fiori parlano e si definiscono: "anime buone disaparite", "calici d'un divino / amore", "speranze rifiorite / sovra un puro orizzonte oltremarino", "canzoni fresche udite / al raggio della luna adamantino". A Marino Marin appare la figlioletta morta che gli mostra una gran quantità di gigli: la visione di quei fiori, in forma di pioggia, estasia il poeta. In Canzone folle di Federigo Tozzi una regina dona al poeta un giglio sicché il suo spirito s'ingigli facendo nascere in lui sentimenti contrastanti di paradisiaco piacere e di religioso dolore. Emilio Girardini nei suoi versi dichiara di preferire il giglio a tutti gli altri fiori perché emblema d'innocenza, candido, spirituale e in opposizione al "secolo carnale". Girolamo Comi vede i tre gigli colti da una donna non ben definita, quale "Augurio bianco, fervido e divino" fatto al mondo. Prettamente religioso è il discorso presente nei sonetti Il giglio solitario di Alessandro Giribaldi e Il giglio del campo di Luigi Fallacara. Nel primo il fiore incarna il Cristo agonizzante, nel secondo è Dio stesso.




Poesie sull'argomento

Rosario Altomonte: "Poema floreale. Il giglio" in «La Stella e L'Aurora Milanese», ottobre 1902.
Diego Angeli: "La notte dei gigli" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Girolamo Comi: "L'augurio" in "Lampadario" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "Romanza" e "I gigli" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Vincenzo Fago: "Sinfonia di gigli" in "Discordanze" (1905).
Luigi Fallacara: "Il giglio del campo" in "Illuminazioni" (1925).
Francesco Gaeta: "Le bellezze del giglio" in "Poesie" (1928).
Giulio Gianelli: "L'astro del giglio" in "Tutte le poesie" (1973).
Emilio Girardini: "Giglio" in "Chordae cordis" (1920).
Alessandro Giribaldi: "Giglio Solitario" "Luna su i Gigli", "Dallo specchio dei Gigli" e "La fine dei Gigli" in "Il 1° libro dei trittici" (1897).
Corrado Govoni: "Gigli votivi", "I gigli" e "Lilium comdium" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni "I pierrotti", "Barba-blù" e "I gigli" in "Gli aborti" (1907).
Giuseppe Lipparini: "Il giglio innamorato" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Nicola Marchese: "Nivale" in "Le Liriche" (1911).
Marino Marin: "I gigli" in "Luci e ombre" (1904).
Tito Marrone: "Romanza del giglio" in "Cesellature" (1899).
Giovanni Pascoli: "I gigli" in "Myricae" (1900).
Romolo Quaglino: "Tra i diafani gigli" in "I Modi: Anime e Simboli" (1896).
Giacinto Ricci Signorini: "Fior di giglio" in "Poesie e prose" (1903).
Federigo Tozzi: "Canzone folle" in "La zampogna verde" (1911).
Alfredo Tusti: "Gigli" in "Scienza e Diletto", giugno 1904.




Testi

GIGLIO SOLITARIO
di Alessandro Giribaldi

Sta il Cristo, come in tenera agonia,
su l'acque morte a l'anima del vento,
dove la gloria più che l'ariento
non sa l'ora né l'atra tenebria

da che vince lo stridulo lamento
de le folaghe ogni malinconia
ogni tristezza intorno. Ora la pia
faccia reclina (quale sogno spento

l'Anima accende a la mondana luce?)
ne l'acque morte come in un passato
amor si specchia in voto millenario,

quasi per esser nel gran Sogno in due.
Ma l'acqua mostra un volto estenuato
e l'immenso dolor del Solitario.

(Da "Il 1° Libro dei Trittici")




I GIGLI
di Marino Marin

Ella apparve così sola a me solo
tutta odorosa e fresca come fosse
venuta da un ceruleo suo brolo
ignoto al mondo: e non avea più tosse.

E disse: "Guarda (oh come ardean le rosse
cardenie sul marmoreo poggiolo!)
guarda i miei gigli." E sorridendo scosse,
povera bimba! il candido lenzuolo.

Piovvero i gigli e non fu mai più grande
letizia. Oh madre! Io bene avrei voluto
cingertene le chiome venerande:

ma tu, madre, non c'eri: e, sol ch'io chiuda
gli occhi, rivedo ne lo sguardo muto
sparsa di gigli la stanzetta nuda.

(Da "Luci e ombre")




GIGLI
di Alfredo Tusti

Gigli, forme d'amor spirituali,
colombi familiari sempre aneli
al volo, quale non vi tarpò l'ali
onde volare non possiate ai cieli?

Gigli, vasi d'argento rituali
sorretti a pena dai tremanti steli
come da bianche man sacerdotali
che una stola di verde all'uomo celi;

O Gigli, io penso un biancheggiante polo
ove una teoria bianca d'umili
vergini inceda lentamente su le

nevi; io penso e il pensier portami a volo
verso un candor di gigli alti e sottili
fiorenti in mezzo a un livido padule.

(Dalla rivista «Scienza e diletto»)




George Hitchcock, "Les lys blancs"

domenica 22 maggio 2016

La misantropia in 10 poesie di 10 poeti italiani

Dice il vocabolario Palazzi alla voce "Misantropo": chi odia gli uomini in generale; oppure: chi vive molto ritirato. Sinonimi: solitario, insocievole, orso, selvaggio. Le dieci poesie che seguono non parlano certo di odio verso l'umanità, ma di una forte tendenza all'asocialità, di un profondo desiderio di ritirarsi in luoghi lontani e solitari. A volte, come nel caso del Leopardi, c'è anche una sorta di rammarico per il proprio comportamento, con la consapevolezza che tale modo di vivere non porterà alcun beneficio in futuro, anzi... Però l'istinto prevale: questi dieci poeti esternano la loro voglia di solitudine, che è anche, in molti casi, voglia di tranquillità, di pace.




IL PASSERO SOLITARIO
di Giacomo Leopardi (1798-1837)

D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
 Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

(Da "Canti", Le Monnier, Firenze 1860)




RIPOSO
di Domenico Gnoli (1838-1915)

Se avessi una casetta
sul declivio d'un monte,
e una fosca selvetta,
e una gelida fonte!
Da le gole rimote,
le fuggitive ruote
di ferro un mormorio
mandassero, un ronzio,
nel silenzio profondo,
come da un altro mondo.

Fuggiam, che l'arpa umana
manda una voce strana,
e con fragor discorde
si spezzano le corde.
Fuggiam su la montagna
ne la bruna selvetta
che un rivoletto bagna.
Solo, co la diletta
mia famigliola, solo.
Dai sonni molli e queti
ci sveglieranno i lieti
canti dell'usignolo.

Pace, pace, riposo!
Voglio vivere ascoso,
immemore, obliato
come non fossi nato.
E se mai pellegrino
smarrito nel cammino
salisse a' regni miei,
— Che fan, gli chiederei
porgendogli da bere,
giù nell'umane bolge?
Che nova idea li volge?
Da' rami del sapere
colgono allegri frutti?
Non son meglio le pere?
Pigliatene. E ancor tutti
usan fraternamente
nell'altrui carne il dente?
Che bei giorni ho vissuto
laggiù basso! Un saluto
a quella brava gente! —

Ma il vespero è soave!
Come fiammante nave
per l'aerea marina
il sole al basso inchina
loco dove si posa.
Brucia un color di rosa
nell'aria: si raccoglie
il passer tra le foglie
con un lungo schiamazzo.
Oh Dio com'ero pazzo!
Bambine mie, cogliete
fior selvaggi, tessete
con essi una corona
per la mamma: è sì buona!
Fatele intorno festa,
ponetegliela in testa.
Sia il desco apparecchiato
là, sotto al pergolato.
Dopo vedrem le stelle
nel cielo, e pel viale
vagar qua e là sull'ale
altre vive fiammelle.
Poi di lontan sull'aia
udremo il can che abbaia,
poi dormiremo, al trillo
fantastico del grillo.

(Da "Odi tiberine", Loescher, Torino 1879)




IL FIGLIO D'UN RE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

È lungo il viale
che ai fianchi adombran cipressi.
Il sole là dentro non penetra mai.
Nel fondo la piccola casa di legno
è alta sei spanne.
È solo abitata da un giovine bianco
che vive passando nell'ombra dei lunghi cipressi.
La gente si ferma a guardarlo.
Ei lento va e viene pel lungo viale
soltanto talvolta a la piccola casa
si sosta un istante:
è il figlio d'un Re.

(Da "I cavalli bianchi", Blanc, Firenze 1905)




IL MIO ROMITAGGIO
di Arturo Graf (1848-1913)

Su questo monte selvaggio,
Vicino a questa sorgente,
Vorrei, da buon penitente,
Avere il mio romitaggio.

Oh, poca cosa! una coppia
Di camerette piccine,
Un uscio e due finestrine,
Sotto un tettuccio di stoppia.

Accanto, un po’ d’orticello,
Pien di legumi e di fiori,
Fiori di tutti i colori,
Con qualche verde arboscello.

Ancora, su un davanzale,
All’aria, al sole, un modesto
Vaso, o vogliam dire un testo,
Di maggiorana nostrale.

Ancora, in luogo di musa,
Un micio peso e poltrone,
Da carezzargli il groppone
E fargli fare le fusa.

E basta. Che c’è bisogno
D’altro? Io, quando mi vedo
In mezzo a troppo corredo,
Io, che ho da dir? mi vergogno.

Mi sembra d’essere allora,
Non il padrone, ma il servo,
E m’avvilisco e mi snervo
Dove più d’un si ristora.

Starei quassù tutto l’anno,
Come un asceta giocondo
Ch’abbia detto addio al mondo
E a quei che dentro vi stanno.

Come un Padre del Deserto,
Che appaia sereno in volto,
Dopo aver vissuto molto,
Dopo aver molto sofferto.

Questi uccelletti folletti
Mi sveglierebber col canto,
E io, da povero santo,
Benedirei gli uccelletti.

L’acqua berrei della fonte;
Piluccherei con piacere
Le bacche rosse, le nere,
E andrei a spasso pel monte.

Andrei moltissimo a spasso,
Lavorerei poco o nulla,
Essendoché dalla culla
Alla tomba è un breve passo.

E se un ricordo importuno
Mi succhiellasse il cervello,
Ne lo trarrei via bel bello,
Come si fa con un pruno.

E se un malvagio appetito
Venisse a pungermi in letto,
Lo schiaccerei con un dito,
Come si schiaccia un insetto.

Non aprirei mai un libro;
E metterei da una banda
Ogni pensiero e dimanda
Di troppo grosso calibro;

Sapendo il male che fece,
Ab antico, alle brigate
La troppa scïenza. Invece,
Starei le mezze giornate

Ad ascoltare il susurro
Del vecchio bosco, a guardare
L’erbe, i fiori, l’acque chiare,
Le nuvole, il cielo azzurro. —

Bipede di polpe e d’essa
(Assai più ossa che polpe),
Commisi anch’io le mie colpe,
E alcuna forse un po’ grossa.

Ma non perciò mi sgomento;
A tutto ci si rimedia;
E se un rimorso t’assedia,
Basta tu dica: Mi pento!

Eh sì, mi pento e prometto
Di non cascarci mai più,
E d’esser anzi perfetto
(O quasi) in ogni virtù.

Ogni mia mala azïone
Confesserei a me stesso;
Poi, col mio bravo permesso,
Mi darei l’assoluzione.

Ché uomo ben confessato,
E debitamente assolto,
Gli è come, per non dir molto,
Se non avesse peccato.

Sarebbe la mia preghiera,
Non latina, ma toscana,
Senz’arzigogoli, piana,
E soprattutto sincera.

Uscendo da un core sazio,
Non chiederebbe nïente;
Assai direbbe umilmente:
Signore Iddio, vi ringrazio.

Sì, vi ringrazio, e vi prego
D’usarmi un po’ d’indulgenza,
Quando alla vostra presenza
Verrò, finito l’impiego.

L’impiego (povere spalle!
Con quel peso andare attorno!)
L’impiego di perdigiorno
In hac lacrimarum valle. —

Verrebbe al mio uscio un cane,
Oppure il buon poverello,
E io gli direi: Fratello,
Eccoti un pezzo di pane.

Verrebbe un corvo alla mia
Finestrina, avido e torvo;
E io gli direi: Tu, corvo,
Sei nero e brutto: va via!

Capiterebbe il demonio
In forma di bella donna,
Con rialzata la gonna,
A offrirmisi in matrimonio.

E io gli direi: Mio caro,
Trova chi n’abbia ancor voglia;
Io... ho mangiato la foglia: —
E sai che il tempo è denaro.

(Da "Le rime della selva", Treves, Milano 1906)




ALCUNI DESIDERI
di Carlo Vallini (1885-1920)

Non chiedo la grazia divina
del sogno, né la scintilla 
del genio: una vita tranquilla
mi basta, una vita meschina.
Per questa manía solitaria
m'occorrerebbe un'onesta
casa, assai vecchia e modesta,
con molta luce e buon'aria,
con alberi verdi e da frutti
d'intorno, sepolta tra un folto
di pergole ombrose; ma molto,
ma molto lontana da tutti.
Un'assai vecchia dimora,
linda, ospitale ed ammodo,
un po' rozza e semplice al modo
delle massaie d'allora;
e in questo rifugio all'antica,
vorrei, nell'oblío secolare,
illudermi di riposare
da un'immaginaria fatica.
Che sonni, che sonni tranquilli
da bimbo nella sua cuna,
le notti col lume di luna,
le notti col canto dei grilli!
Vorrei pure scrivere, senza
fatica, dei versi: ma sparsi
a spizzico, da giudicarsi
con una bonaria indulgenza:
dei versi bizzarri, rimati
secondo la mia prosodía,
con molta malinconía
e quasi niente grammatica:
e il lusso da milionario
vorrei per un mese, d'avere
a nolo per cameriere
un dottore universitario
per mettere in bella copia
le mie bislacche parole
e dirmi dove ci vuole
la lettera semplice o doppia.
O gioia di essere solo!
non l'ombra d'un conosciuto
vicino, toltone il muto
dottore che avrei preso a nolo.
Non ascolterei che la sola
Natura, l'unica amica;
non compirei piú la fatica
di dire una mezza parola.
Avrei con me qualche rado
libro, assai fuori di mano;
andrei per i campi pian piano
senza saper dove vado;
nella mia testa i pensieri
andrebbero com'io li lascio
andare, tutti a rifascio,
i piú pazzi con i piú seri:
e a sera, sull'imbrunire,
un letto fresco e profondo
mi smemorerebbe del mondo
con la voluttà di dormire.
Se un semplice regime uguale
bastasse a guarirmi dal tedio!
Ma in simile caso il rimedio
sarebbe peggiore del male.
Non guarirei, ne son certo,
da tutte queste torture
imaginarie, neppure
se andassi in mezzo al deserto;
il male, purtroppo, non sta
di fuori, ma nel mio interno,
ed è un prodotto moderno
come l'elettricità:
è come un tarlo che roda
addentro, senza mai posa,
ed era in addietro una posa
ormai passata di moda.
Oh come darei le parole
inutili e l'opere vane
dell'uomo, per essere un cane
che dorma placido al sole!
Per esser la foglia o l'insetto
o l'albero o il gufo o il leone,
per non aver la ragione,
per non aver l'intelletto,
per essere (questo conforto
concedi, o Natura, a chi è stanco
già troppo), per esser pur anco
un uomo, ma essere morto!

(Da "Un giorno", Streglio, Torino 1907)




SEMPRE ASSORTO IN ME STESSO...
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo
come in sonno tra gli uomini mi muovo.
Di chi m'urta col braccio non m'accorgo,
e se ogni cosa guardo acutamente
quasi sempre non vedo ciò che guardo.
Stizza mi prende contro chi mi toglie
a me stesso. Ogni voce m'importuna.
Amo solo la voce delle cose.
M'irrita tutto ciò che è necessario
e consueto, tutto ciò che è vita,
com'irrita il fuscello la lumaca
e com'essa in me stesso mi ritiro.

Ché la vita che basta agli altri uomini
non basterebbe a me.
                                   E veramente
se un altro mondo non avessi, mio,
nel quale dalla vita rifugiarmi,
se oltre le miserie e le tristezze
e le necessità e le consuetudini
a me stesso non rimanessi io stesso,
oh come non esistere vorrei!
Ma un'impressione strana m'accompagna
sempre in ogni mio passo e mi conforta:
mi pare di passar come per caso
da questo mondo...

(Da "Pianissimo", «La Voce», Firenze 1914)




NATALE
di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

(Da "Allegria di naufragi", Vallecchi, Firenze 1919)




MISANTROPIA
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Non amo gli uomini.
Nessun male profondo mi fecero
ché nessun male, pur lieve, io lor feci né farò.
Ma la suprema letizia mia è di sfuggirli.
Pagherò questo capriccio da sultano.
Morrò senza due righe di commento alle gazzette
assai simile all'ultimo dei consueti,
io, fenomeno degno delle meraviglie,
io che veramente avrò vissuto, sovra l'ali
una vita di sogno, di musica, di maestà.
Bimbo,
anelavo appiattarmi nei cantoni. Il buio
in solitudine mai m'impaurì.
La mia stanza chiusa,
la mia alcova velata,
il mio silenzio duro:
la parola alle carte, ai testi. Per ciò
credo alla futura e eterna grande Felicità.
Bocca chiusa nella bara chiusa dentro la tomba chiusa.
E dimenticato dagli uomini dimenticati.

(Da "Il poema dei quarant'anni", Edizioni di «Poesia», Milano 1922)




CHE SI FA?
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Povera terribile gente
che è tanto paurosa
di restar sola con la propria vita!
e vuol essere divertita
e sempre rotolar qua e là,
e si chiede a ogni posa
«e ora che si fa?»
Ci si uccide, finalmente.

(Da "I versetti", Mondadori, Milano 1931)




CON LA MIA GROMMA DI MISANTROPIA
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

Con la mia gromma di misantropia
fatta più ombrosa e schiva
ora che sulla china
dell'età la vertigine mi strangola
dei mali estremi che la fine agognano,

mischiate d'ira e annuvolate in pianto
l'ore mie vivo forse ultime, ed evito
di traboccare
solo finché mi tiene per la mano
una pietosa Antigone.

(Da "La fame degli occhi", Florida, Roma 1982)



Frank Bramley, "Delicious Solitude"