domenica 22 maggio 2016

La misantropia in 10 poesie di 10 poeti italiani

Dice il vocabolario Palazzi alla voce "Misantropo": chi odia gli uomini in generale; oppure: chi vive molto ritirato. Sinonimi: solitario, insocievole, orso, selvaggio. Le dieci poesie che seguono non parlano certo di odio verso l'umanità, ma di una forte tendenza all'asocialità, di un profondo desiderio di ritirarsi in luoghi lontani e solitari. A volte, come nel caso del Leopardi, c'è anche una sorta di rammarico per il proprio comportamento, con la consapevolezza che tale modo di vivere non porterà alcun beneficio in futuro, anzi... Però l'istinto prevale: questi dieci poeti esternano la loro voglia di solitudine, che è anche, in molti casi, voglia di tranquillità, di pace.




IL PASSERO SOLITARIO
di Giacomo Leopardi (1798-1837)

D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
 Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

(Da "Canti", Le Monnier, Firenze 1860)




RIPOSO
di Domenico Gnoli (1838-1915)

Se avessi una casetta
sul declivio d'un monte,
e una fosca selvetta,
e una gelida fonte!
Da le gole rimote,
le fuggitive ruote
di ferro un mormorio
mandassero, un ronzio,
nel silenzio profondo,
come da un altro mondo.

Fuggiam, che l'arpa umana
manda una voce strana,
e con fragor discorde
si spezzano le corde.
Fuggiam su la montagna
ne la bruna selvetta
che un rivoletto bagna.
Solo, co la diletta
mia famigliola, solo.
Dai sonni molli e queti
ci sveglieranno i lieti
canti dell'usignolo.

Pace, pace, riposo!
Voglio vivere ascoso,
immemore, obliato
come non fossi nato.
E se mai pellegrino
smarrito nel cammino
salisse a' regni miei,
— Che fan, gli chiederei
porgendogli da bere,
giù nell'umane bolge?
Che nova idea li volge?
Da' rami del sapere
colgono allegri frutti?
Non son meglio le pere?
Pigliatene. E ancor tutti
usan fraternamente
nell'altrui carne il dente?
Che bei giorni ho vissuto
laggiù basso! Un saluto
a quella brava gente! —

Ma il vespero è soave!
Come fiammante nave
per l'aerea marina
il sole al basso inchina
loco dove si posa.
Brucia un color di rosa
nell'aria: si raccoglie
il passer tra le foglie
con un lungo schiamazzo.
Oh Dio com'ero pazzo!
Bambine mie, cogliete
fior selvaggi, tessete
con essi una corona
per la mamma: è sì buona!
Fatele intorno festa,
ponetegliela in testa.
Sia il desco apparecchiato
là, sotto al pergolato.
Dopo vedrem le stelle
nel cielo, e pel viale
vagar qua e là sull'ale
altre vive fiammelle.
Poi di lontan sull'aia
udremo il can che abbaia,
poi dormiremo, al trillo
fantastico del grillo.

(Da "Odi tiberine", Loescher, Torino 1879)




IL FIGLIO D'UN RE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

È lungo il viale
che ai fianchi adombran cipressi.
Il sole là dentro non penetra mai.
Nel fondo la piccola casa di legno
è alta sei spanne.
È solo abitata da un giovine bianco
che vive passando nell'ombra dei lunghi cipressi.
La gente si ferma a guardarlo.
Ei lento va e viene pel lungo viale
soltanto talvolta a la piccola casa
si sosta un istante:
è il figlio d'un Re.

(Da "I cavalli bianchi", Blanc, Firenze 1905)




IL MIO ROMITAGGIO
di Arturo Graf (1848-1913)

Su questo monte selvaggio,
Vicino a questa sorgente,
Vorrei, da buon penitente,
Avere il mio romitaggio.

Oh, poca cosa! una coppia
Di camerette piccine,
Un uscio e due finestrine,
Sotto un tettuccio di stoppia.

Accanto, un po’ d’orticello,
Pien di legumi e di fiori,
Fiori di tutti i colori,
Con qualche verde arboscello.

Ancora, su un davanzale,
All’aria, al sole, un modesto
Vaso, o vogliam dire un testo,
Di maggiorana nostrale.

Ancora, in luogo di musa,
Un micio peso e poltrone,
Da carezzargli il groppone
E fargli fare le fusa.

E basta. Che c’è bisogno
D’altro? Io, quando mi vedo
In mezzo a troppo corredo,
Io, che ho da dir? mi vergogno.

Mi sembra d’essere allora,
Non il padrone, ma il servo,
E m’avvilisco e mi snervo
Dove più d’un si ristora.

Starei quassù tutto l’anno,
Come un asceta giocondo
Ch’abbia detto addio al mondo
E a quei che dentro vi stanno.

Come un Padre del Deserto,
Che appaia sereno in volto,
Dopo aver vissuto molto,
Dopo aver molto sofferto.

Questi uccelletti folletti
Mi sveglierebber col canto,
E io, da povero santo,
Benedirei gli uccelletti.

L’acqua berrei della fonte;
Piluccherei con piacere
Le bacche rosse, le nere,
E andrei a spasso pel monte.

Andrei moltissimo a spasso,
Lavorerei poco o nulla,
Essendoché dalla culla
Alla tomba è un breve passo.

E se un ricordo importuno
Mi succhiellasse il cervello,
Ne lo trarrei via bel bello,
Come si fa con un pruno.

E se un malvagio appetito
Venisse a pungermi in letto,
Lo schiaccerei con un dito,
Come si schiaccia un insetto.

Non aprirei mai un libro;
E metterei da una banda
Ogni pensiero e dimanda
Di troppo grosso calibro;

Sapendo il male che fece,
Ab antico, alle brigate
La troppa scïenza. Invece,
Starei le mezze giornate

Ad ascoltare il susurro
Del vecchio bosco, a guardare
L’erbe, i fiori, l’acque chiare,
Le nuvole, il cielo azzurro. —

Bipede di polpe e d’essa
(Assai più ossa che polpe),
Commisi anch’io le mie colpe,
E alcuna forse un po’ grossa.

Ma non perciò mi sgomento;
A tutto ci si rimedia;
E se un rimorso t’assedia,
Basta tu dica: Mi pento!

Eh sì, mi pento e prometto
Di non cascarci mai più,
E d’esser anzi perfetto
(O quasi) in ogni virtù.

Ogni mia mala azïone
Confesserei a me stesso;
Poi, col mio bravo permesso,
Mi darei l’assoluzione.

Ché uomo ben confessato,
E debitamente assolto,
Gli è come, per non dir molto,
Se non avesse peccato.

Sarebbe la mia preghiera,
Non latina, ma toscana,
Senz’arzigogoli, piana,
E soprattutto sincera.

Uscendo da un core sazio,
Non chiederebbe nïente;
Assai direbbe umilmente:
Signore Iddio, vi ringrazio.

Sì, vi ringrazio, e vi prego
D’usarmi un po’ d’indulgenza,
Quando alla vostra presenza
Verrò, finito l’impiego.

L’impiego (povere spalle!
Con quel peso andare attorno!)
L’impiego di perdigiorno
In hac lacrimarum valle. —

Verrebbe al mio uscio un cane,
Oppure il buon poverello,
E io gli direi: Fratello,
Eccoti un pezzo di pane.

Verrebbe un corvo alla mia
Finestrina, avido e torvo;
E io gli direi: Tu, corvo,
Sei nero e brutto: va via!

Capiterebbe il demonio
In forma di bella donna,
Con rialzata la gonna,
A offrirmisi in matrimonio.

E io gli direi: Mio caro,
Trova chi n’abbia ancor voglia;
Io... ho mangiato la foglia: —
E sai che il tempo è denaro.

(Da "Le rime della selva", Treves, Milano 1906)




ALCUNI DESIDERI
di Carlo Vallini (1885-1920)

Non chiedo la grazia divina
del sogno, né la scintilla 
del genio: una vita tranquilla
mi basta, una vita meschina.
Per questa manía solitaria
m'occorrerebbe un'onesta
casa, assai vecchia e modesta,
con molta luce e buon'aria,
con alberi verdi e da frutti
d'intorno, sepolta tra un folto
di pergole ombrose; ma molto,
ma molto lontana da tutti.
Un'assai vecchia dimora,
linda, ospitale ed ammodo,
un po' rozza e semplice al modo
delle massaie d'allora;
e in questo rifugio all'antica,
vorrei, nell'oblío secolare,
illudermi di riposare
da un'immaginaria fatica.
Che sonni, che sonni tranquilli
da bimbo nella sua cuna,
le notti col lume di luna,
le notti col canto dei grilli!
Vorrei pure scrivere, senza
fatica, dei versi: ma sparsi
a spizzico, da giudicarsi
con una bonaria indulgenza:
dei versi bizzarri, rimati
secondo la mia prosodía,
con molta malinconía
e quasi niente grammatica:
e il lusso da milionario
vorrei per un mese, d'avere
a nolo per cameriere
un dottore universitario
per mettere in bella copia
le mie bislacche parole
e dirmi dove ci vuole
la lettera semplice o doppia.
O gioia di essere solo!
non l'ombra d'un conosciuto
vicino, toltone il muto
dottore che avrei preso a nolo.
Non ascolterei che la sola
Natura, l'unica amica;
non compirei piú la fatica
di dire una mezza parola.
Avrei con me qualche rado
libro, assai fuori di mano;
andrei per i campi pian piano
senza saper dove vado;
nella mia testa i pensieri
andrebbero com'io li lascio
andare, tutti a rifascio,
i piú pazzi con i piú seri:
e a sera, sull'imbrunire,
un letto fresco e profondo
mi smemorerebbe del mondo
con la voluttà di dormire.
Se un semplice regime uguale
bastasse a guarirmi dal tedio!
Ma in simile caso il rimedio
sarebbe peggiore del male.
Non guarirei, ne son certo,
da tutte queste torture
imaginarie, neppure
se andassi in mezzo al deserto;
il male, purtroppo, non sta
di fuori, ma nel mio interno,
ed è un prodotto moderno
come l'elettricità:
è come un tarlo che roda
addentro, senza mai posa,
ed era in addietro una posa
ormai passata di moda.
Oh come darei le parole
inutili e l'opere vane
dell'uomo, per essere un cane
che dorma placido al sole!
Per esser la foglia o l'insetto
o l'albero o il gufo o il leone,
per non aver la ragione,
per non aver l'intelletto,
per essere (questo conforto
concedi, o Natura, a chi è stanco
già troppo), per esser pur anco
un uomo, ma essere morto!

(Da "Un giorno", Streglio, Torino 1907)




SEMPRE ASSORTO IN ME STESSO...
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo
come in sonno tra gli uomini mi muovo.
Di chi m'urta col braccio non m'accorgo,
e se ogni cosa guardo acutamente
quasi sempre non vedo ciò che guardo.
Stizza mi prende contro chi mi toglie
a me stesso. Ogni voce m'importuna.
Amo solo la voce delle cose.
M'irrita tutto ciò che è necessario
e consueto, tutto ciò che è vita,
com'irrita il fuscello la lumaca
e com'essa in me stesso mi ritiro.

Ché la vita che basta agli altri uomini
non basterebbe a me.
                                   E veramente
se un altro mondo non avessi, mio,
nel quale dalla vita rifugiarmi,
se oltre le miserie e le tristezze
e le necessità e le consuetudini
a me stesso non rimanessi io stesso,
oh come non esistere vorrei!
Ma un'impressione strana m'accompagna
sempre in ogni mio passo e mi conforta:
mi pare di passar come per caso
da questo mondo...

(Da "Pianissimo", «La Voce», Firenze 1914)




NATALE
di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

(Da "Allegria di naufragi", Vallecchi, Firenze 1919)




MISANTROPIA
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Non amo gli uomini.
Nessun male profondo mi fecero
ché nessun male, pur lieve, io lor feci né farò.
Ma la suprema letizia mia è di sfuggirli.
Pagherò questo capriccio da sultano.
Morrò senza due righe di commento alle gazzette
assai simile all'ultimo dei consueti,
io, fenomeno degno delle meraviglie,
io che veramente avrò vissuto, sovra l'ali
una vita di sogno, di musica, di maestà.
Bimbo,
anelavo appiattarmi nei cantoni. Il buio
in solitudine mai m'impaurì.
La mia stanza chiusa,
la mia alcova velata,
il mio silenzio duro:
la parola alle carte, ai testi. Per ciò
credo alla futura e eterna grande Felicità.
Bocca chiusa nella bara chiusa dentro la tomba chiusa.
E dimenticato dagli uomini dimenticati.

(Da "Il poema dei quarant'anni", Edizioni di «Poesia», Milano 1922)




CHE SI FA?
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Povera terribile gente
che è tanto paurosa
di restar sola con la propria vita!
e vuol essere divertita
e sempre rotolar qua e là,
e si chiede a ogni posa
«e ora che si fa?»
Ci si uccide, finalmente.

(Da "I versetti", Mondadori, Milano 1931)




CON LA MIA GROMMA DI MISANTROPIA
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

Con la mia gromma di misantropia
fatta più ombrosa e schiva
ora che sulla china
dell'età la vertigine mi strangola
dei mali estremi che la fine agognano,

mischiate d'ira e annuvolate in pianto
l'ore mie vivo forse ultime, ed evito
di traboccare
solo finché mi tiene per la mano
una pietosa Antigone.

(Da "La fame degli occhi", Florida, Roma 1982)



Frank Bramley, "Delicious Solitude"



venerdì 20 maggio 2016

Piccola antologia dei poeti della "Scuola romana"

È una visita ad un piccolo camposanto, lontano, ombroso, solitario, senza lacrime e senza fiori, dove riposano da tempo pressoché immemorabile i miei parenti ed amici! Quasi tutti morirono giovani o toccata appena l'età matura; e rileggendo sulle lapidi i loro nomi, mi vien fatto di ricercare sopra alcuna di esse anche il mio, come quello di una persona morta già da gran tempo insieme co' miei più cari; e mi par quasi ch'essi si meraviglino e mi facciano rimprovero che io, compagno dell'attività e della vita, sia sfuggito al loro riposo, per cacciarmi innanzi tra le file di nuove generazioni.

[Da "I Poeti della Scuola romana (1850-1870)", a cura di Domenico Gnoli, Laterza, Bari 1913)







LA MORTE
di Giovanni Torlonia (Roma 1831 - ivi 1858)

La morte è gioia: è un ritornare ai liti
Di quella patria donde siam partiti.
La morte, o Amico, è un vivere novello
Che più libero fa l'uman pensiero,
L'ali gli rende, e lo solleva al Vero:
Per lei si rompe quel fatal suggello
Che della vita a noi chiude l'arcano,
Per lei si mostra il mondo al guardo umano
Senza confini, e più lucente e bello;
Per lei vediamo limpido e svelato
Ogni affetto, ogni idea dell'alme elette
Che abbiamo in terra ardentemente amato,
E ritroviamo in ciel sante e perfette.
Quell'Ideal, che raggia i suoi splendori
In questa parte più, in altra meno,
Allor tutto ci appare e più sereno
In quell'Amor «che s'apre in nove Amori.»
E quel che noi godiam velato in parte
Nelle bellezze di Natura e d'Arte,
Allor si schiude all'avido desio
Raccolto intero nel pensier di Dio.

(Da "Poesie", Le Monnier, Firenze 1856)




CI SON FANCIULLE CHE PAIONO FIORI
di Paolo Emilio Castagnola (Roma 1825 - ivi 1898)

Ci son fanciulle che paiono fiori;
Che far se ne potrebbe un bel giardino
Tutto smaltato di vari colori.

C’è chi somiglia al bianco gelsomino,
C’è chi la chiamereste una viola,
C’è la rosa superba e il fior di spino.

E tutti questi fiori hanno parola;
Olezzano valore e cortesia
E ’n quel giardino Amor ci tiene scuola.

E pure io non so dir che cosa sia 
Che in fra tanti non v’è fior di bellezza
Che vaglia a serenar l’anima mia

Tutta raccolta ne la sua tristezza.

(Da "Poesie", Le Monnier, Firenze 1857)




La cosiddetta "Scuola romana" è una cosa dimenticata, di cui non rimane vestigio che nella memoria mia e di pochi altri, un oggetto dei nonni rimasto in fondo ad un vecchio armadio. Benedetto Croce accennava alla  «non gloriosa scuola romana, una scuola poetica inferiore perfino alla napoletana dello stesso periodo, e non superiore a quella siciliana». Io non sono in grado di far quei confronti, ma noto solo che della produzione romana sparsa in raccolte e volumetti, parte dei quali non sono forse mai usciti di Roma e quasi introvabili, non è facile dar sicuro giudizio con piena cognizione di causa.

[Da "I Poeti della Scuola romana (1850-1870)"]




LA NOTTE
di Giuseppe Maccari (Frosinone 1840 - Roma 1867)

Or tutto tace nella stanza e fuori.
Scorsa è la sera, e appena un' aura allevia
L'aér pesante dell'agosto. Io seggo,
Seggo, ed invan su le dilette carte
I pensier vaghi e le pupille accolgo.
Il braccio stendo sovra i libri e appoggio
Ne fo alla guancia, e di rincontro al cielo
Per l'aperto balcon gli occhi sollevo,
Mentre la luna leggiermente passa
Su i nugoletti, ed or s'asconde or torna:
E sì mirando lungamente, ho pace.

(Da "Poesie e lettere", Barbèra, Firenze 1867)




A DOMENICO GNOLI
di Giambattista Maccari (Frosinone 1832 - Roma 1868)

Ogni cosa s’invecchia; nella mente
S’invecchiano i pensieri, ed i più cari
Affetti dentro al core, e non son gli anni
Che recan la vecchiezza: ancor nel verde
Di giovinezza l’animo s’invecchia.
I mali, o Gnoli mio, fiaccano il core,
I tristi mali, e v’è chi da fanciullo
Piange, e venuto giovine, non vede
Di giovinezza mai spuntar le rose.
Questi giovine è vecchio, e una mestizia
Gli viene dalle lagrime, che tutta
Gli accompagna la vita; alcuna volta
Il dolore fa l’anima gagliarda,
Ma rado avviene; ché il continuo affanno
Più spesso ci fa debili, ed allora
Ogni cosa le lagrime ci cava.

(Da "Nuove poesie", Galeati, Imola 1869)




La prosa non era per noi. Se anche ci fosse stato permesso, data la indeterminatezza delle idee e la incompiutezza delle cognizioni per difetto d'ogni sussidio, che cosa avremmo avuto da dire? Esclusi da ogni campo d'azione, non addestrati al lavoro intellettuale e all'indagine critica, la nostra vita era tutta di sentimento: amori e sdegni. Soli con noi stessi, non ci restava che esalare nel verso gli affetti e le aspirazioni dell'anima, in quella forma che ci indicava non la vita presente, muta intorno a noi, ma la voce veneranda dei padri. Una tristezza stanca pareva velare quasi tutta quella poesia, espressione della forzata inerzia delle energie giovanili.

[Da "I Poeti della Scuola romana (1850-1870)"]




 ALLA LUNA
di Augusto Caroselli (Roma 1853 - ivi 1899)

Io vo' lodarti, o Luna
Però che lingua alcuna
Di poeta non tace
I pregi tuoi. Mi piace
Lo spuntar che tu fai
D'oltre i colli; né mai
La sera ne radduce
Questa candida luce,
Ch'io non prenda diletto
Nel cangiarsi d'aspetto
I boschi e l'ampie valli:
Pe' rischiarati calli
La gente s'accompagna,
E la bella campagna
Suona di risa e canti;
Trionfano gli amanti,
Ché il tuo raggio discreto
Non tradisce il segreto,
Ma d'un vago languore
Pinge ogni atto d'amore.
Poca, breve è la gioia;
Il dolore e la noia
Signoreggiano intera
La vita, e sola vera
Dolcezza è nell'oblio:
Luna pietosa, il mio
Letto ne spargi e schiara
Placidi sogni; cara
T'avrò; né lode alcuna
Fia che ti mandi, o Luna.

(Da "Versi", Galeati, Imola 1870)




ALLA VERGINE NEL MESE DI MAGGIO
di Luigi Celli (Roma 1825 - ivi 1870)

Fra l’innocente ragionar d’amore
E di terra natia,
Quest’inno giovinetto a te s’invia,
O Madre del Signore.

Non egli è il dolce tempo? E la vaghezza
Non è questa dell’anno?
Quale in maggio odorato, e d’amor sanno
I fiori in giovinezza.

Cittadina a la mistica Sionne,
E la tua bella stola
Tu quaggiuso vestisti: oh fra le donne
Prima non pur, ma sola!

Santissimo, e tu il sai,
È di patria il desio, chi ben l'estima:
Gentil più ch’altri mai,
Di tutte gentilezze tien la cima.

E tu, Vergine pura,
Se delle forme tue si configura
Un vergine sembiante,
Fai santo il raggio di due luci sante.

Torna il maggio odorato: di vaghezza
Novella i bei fior sanno;
Ride a noi l’animosa giovinezza
Dopo il vigesim’anno. 

Deh, l’inno che s’invia
Fra l’innocente ragionar d’amore
E di terra natia,
Degna d’un guardo, o madre del Signore.

(Da "Versi", Galeati, Imola 1870)




I nostri ideali erano semplici: la morale austera; la religione fuori delle faccende terrene e purificata nel lavacro delle sue origini; con Dante, col Petrarca, col Leopardi gemevamo sull'avvilimento della patria, senza alcuna determinatezza per l'avvenire; l'amore era, con Dante e col Petrarca, un affanno gentile, incontaminato, purificatore. È lontano, non è vero, quel tempo?

[Da "I Poeti della Scuola romana (1850-1870)"]




VENT’ANNI
di Domenico Gnoli (Roma 1838 - ivi 1915)

Io vado su pel mare ondoleggiante
Entro una barca lieve come vento.
Sta sulla poppa un giovine di foco,
Alato, snello e si chiama Desio:
Ha incontro una divina giovinetta,
E tutto pende da le sue pupille
Che sol da quelle pende la sua vita.
Lei dicono Speranza; è tutto riso.
Vanno remando; l’onde ventilate
Baciano la felice navicella.
Nello specchio del mare il sol s’addoppia,
Un’aura dolce mi dilata il petto,
M’agita il crine, mi carezza il viso.
È un affanno, un affanno di dolcezza!

(Da "Versi di Dario Gaddi", Galeati, Imola 1871)




FOCO FATUO
di Pietro Cossa (Roma 1830 - Livorno 1881)

Giulia, hai tu mai veduto
Nell'ore dolci d'una notte estiva,
Allor che tace il vento
O la luce degli astri arde più viva,
Hai veduto talor dal firmamento
Staccarsi un guizzo di cadente foco.
Pari a una stella che tramuti loco?
E là dove si dorme
Sotto povera croce
Sonno duro, uniforme,
Non consolato più da larve care.
Dimmi, Giulia, hai veduto una fiammella
Che tremola, e scompare
Come lampo di stella
Sopra la terra smossa
De la recente fossa?
Graziose follie son de la luce,
E un amor le conduce
Come le idee d'un'anima gentile
Che fatuo chiama il mondo e tiene a vile.
Così vive il poeta:
Luce corta e inquieta,
trascorra vistosa l'emisfero,
solitaria appaia entro a lo stretto
Cerchio d'un cemetero.

(Da "Poesie liriche", Libreria Editrice, Milano 1876)




SOMIGLIANZA
di Ignazio Ciampi (Roma 1824 - ivi 1880)

Se vedo la vecchietta per la via
M'intenerisco tutto e la sogguardo
Con occhio quasi innamorato. Ed ella,
Se s'accorge di me, mi guarda anch'ella
Un po' riconoscente e un po' stupita.
Perché stupisce la vecchietta mia?
Non indovina che ne' suoi sembianti
Ricordo i tratti di mia madre estinta,
E che mi piacerebbe in sulla fronte
Stamparle il bacio che fa bene al core?

(Da "Poesie", Galeati, Imola 1880)







mercoledì 18 maggio 2016

Poeti dimenticati: Francesco Pastonchi

Nacque a Riva Ligure nel 1874 e morì a Torino nel 1953. Allievo del poeta Arturo Graf, insegnò letteratura italiana all'Università di Torino a partire dal 1935. Fu, oltre che poeta, prosatore, drammaturgo e critico d'arte (i suoi articoli uscirono sul Corriere della Sera). I versi di Pastonchi attraversano molte tendenze letterarie: parnassianesimo, estetismo, decadentismo. Ebbe larga fama ai suoi tempi, ma ebbe anche molti detrattori; forse le sue migliori poesie si trovano nelle ultime raccolte (I versetti e Endecasillabi), dove lo scrittore, ormai in età matura, non di rado si lascia andare ad una sincera malinconia e mette in risalto, oltre alla consapevolezza della propria solitudine, gli aspetti più semplici e nello stesso tempo più esaltanti della natura.




Opere poetiche

"Saffiche (1891-92)", Minetti, Chiabra & C., Savona 1892.
"Aurei distici", Vachieri, Sanremo 1895.
"La Giostra d'Amore e le Canzoni (1893-95)", Treves, Milano 1898.
"A mia madre. Tre canzoni", Zanichelli, Bologna 1900.
"Italiche", Streglio, Torino 1903.
"Belfonte. Sonetti", Streglio, Torino 1903.
"Sul limite dell'ombra", Streglio, Torino-Genova 1905.
"Il pilota dorme", Formiggini, Genova 1913.
"Il randagio. Poema", Mondadori, Roma 1921.
"Italiche. Nuove poesie", Mondadori, Roma-Milano 1923.
"I versetti", Mondadori, Milano 1931.
"Rime dell'amicizia", Mondadori, Milano 1943.
"Endecasillabi", Mondadori, Milano 1949.





Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 320-322).
"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (p. 1289).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 431-432).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 248-252).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 99-107).
"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 464-472).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 152-159).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 255-266).
"Poeti italiani del XX secolo", a cura di Alberto Frattini e Pasquale Tuscano, La Scuola, Brescia 1974 (pp. 90-98).
"Poesia italiana 1224-1961. Un'Antologia", a cura di Antonio Carlo Ponti, Guerra, Perugia 1996 (p. 186).
"Torino Art Nouveau e Crepuscolare", a cura di Roberto Rossi Precerutti, Crocetti, Milano 2006 (pp. 60-61).
"Poeti per Torino", a cura di Roberto Rossi Precerutti, Viennepierre, Milano 2008 (p. 57).




Testi

AUTUNNO ESTREMO

È così chiara e calma di splendore,
senza un desìo che vi muova ombra d'ale;
questa pace d'estrema ora autunnale!
Posa la terra e gode il suo stupore.

Tutto vi si rivela nel pallore
con una purità che ignora il male;
e su estatici monti il cielo è quale
languido agli orli il calice d'un fiore.

Tutto è di là da un velo, ma sì lieve!
come un sogno di cosa oltrevissuta,
che resta: labilissimo tesoro.

Il tempo è immoto. Da remota pieve
i suoi rintocchi su la terra muta
cadono come lente gocce d'oro.

(Dalla rivista «La Lettura», dicembre 1919)




IL PINO

Solo al ciglio dell'abisso,
tra le folgori e lo sfacelo,
arretri il livido cielo:
stai come crocefisso.

Apri le rigide rame
come palchi di candelabri,
coi ciuffi degli aghi scabri
aderti da l'arse squame:

di una realtà così espressa,
di una forma così descritta,
che l'anima ne è trafitta
nel suo profondo, e ossessa.

O spirito del solo, avverso
al mondo, e contra te crudo,
resta desolato e ignudo,
escluso dall'universo!

(Da "I versetti", 1931)




LA MIA STELLA

Gli altri bimbi solo essi eran bimbi:
Io no. Io ero un bimbo che guardava
vivere gli altri, capitato a caso
tra gli altri sulla terra: certo un bimbo
caduto da una stella, ecco. E la notte
scivolavo dal letto per cercarla
di là dai vetri, al buio, la mia stella.


(Da "Endecasillabi", 1949)

domenica 15 maggio 2016

Le rose in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Come è noto, maggio è considerato il mese delle rose; il motivo risiede nel fatto che questi splendidi fiori, proprio nel quinto mese dell'anno, fioriscono in abbondanza e si mostrano in tutta la loro sconvolgente bellezza. Molti poeti italiani hanno dedicato dei versi alle rose; qui non compaiono però i cosiddetti crepuscolari, né i decadenti ed i simbolisti, ai quali in futuro riserverò una pagina a parte. Malgrado ciò la qualità è tutt'altro che scadente: le poesie sottostanti sono spesso di autori molto famosi; non manca poi qualche pittore che, anche usando il pennello, seppe raffigurare in modo meraviglioso questi fiori dai colori intensi e delicati. Buona lettura.




LA ROSA
di Sibilla Aleramo (1876-1960)

Eccoci!
Facci posto,
oh sole ! 
A noi due
e ad una rosa.
Fra il mio seno
e il petto forte che amo,
sta una rosa,
sola.
Oh sole,
la rosa vuol morire,
e noi
vogliam la sua agonia
tutta con nostra gioia
consacrare.
Facci posto!
Ecco,
insieme avvinti,
che la rosa non cada,
guizziamo nella tua zona,
nudilunghi,
a terra,
avvinghiati,
e la rosa
non ti sente,
ma noi 
ma noi
da te percorsi
meravigliamo
come una lunga landa
che il tuo raggio
mai prima
conosciuto avesse.
Interi ci percorri,
solo la rosa
non ti sente,
fra il madore del mio seno
e il calore dolce
del petto che amo.
Grande aperta rosea,
si sente morire.
si sente felice,
si sfoglia,
ogni foglia
rorida molle,
vagola,
ci bacia,
premuta,
bruciata,
oh sole che ci accogli!

(Da "Momenti", Bemporad, Firenze 1920)





LE ROSE DI MAGGIO
di Pietro Mastri (1868-1932)

Rose rosse... Vere rose!
Tutto il mondo fiorito di rose!
Tutto il mondo odoroso di rose!

Anche dove men te l'aspetti
nei giardini fatti serpai,
fra le ortiche e i cardi a mazzetti,
ecco, s'accendono rosai.

S'arrampicano le rose
ai cancelli arrugginiti;
s'affacciano a mura corrose;
si concimano di detriti.

Anche negli orti dei conventi,
per le aiuole di nuove lattughe,
dove, ancora sonnolenti,
passeggiano le tartarughe;

anche lì che fioritura
di rose! E un odor, da lontano,
che vince ogni clausura:
odor di mese Mariano.

E le chiesine di campagna?
Le più nude e poverine
han sugli altari di lavagna
rose doppie e rose canine.

Perfino in quei brevi sterrati
nei cortili degli ospedali
dove guardano al sole i malati
col viso cereo sui guanciali,

v'è luce di rose maggesi:
e che dolce malinconia
di speranza in quegli occhi accesi
di febbre e di nostalgia!

Perfino, sì, nei cimiteri
le rose di rosee foglie
fanno siepe lungo i sentieri
solinghi, e nessuno le coglie:

fioriscon tra lampade e ceri
sui morti sempre più folti:
e son pur le rose di ieri
per quei chiusi occhi sepolti...

Rose, rose!... A poi, le spine.
Allora, oh struggente dolcezza
ch'è in voi, fresche e carnicine
come la stessa giovinezza!

Oh rose di maggio! Oh fiorita
che l'anima e il sangue ci odora!
Tutto il mondo non è che un'aurora:
l'aurora della nostra vita.

(Da "La via delle stelle", Alpes, Milano 1927)





ROSETTE ROSSE
di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

Rosette rosse che v'affacciavate
Da vecchi muri, a grappoli, ove siete?
In che mani cadeste? In quale rete?
Dove il tempo vorace vi nascose?
Così dolci ed amorose
Così grate
M'eravate!

(Da "Il piccolo Orfeo", Treves, Milano 1929)





LA ROSA DEL COMMIATO
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Ecco la rosa del commiato,
su questo raggiante mare
che la vostra bellezza fa tremare
d'innumerevoli sorrisi.
Nulla voi mi avete donato,
pur di quel nulla che una donna dona:
fummo vicini e divisi,
fieramente.
Nulla voi mi avete donato,
ma tutto quello che si può donare
senza inganno:
la musica della vostra persona,
che non mente,
e i miei occhi sapranno
ricordare.
Ecco la rosa del commiato.

(Da "Versetti", Mondadori, Milano 1931)





ROSE
di Giacomo Prampolini (1898-1975)

Bianche,
di giardini perduti
con l'adolescenza,
lentamente si aprono,
forme del tempo.

Guance senza baci,
riemerse caste
dal grembo fosco della terra
profumando
si curvano a sera.

A sera nello spazio le parole
si chiudono appassite.

(Dalla rivista «Circoli», luglio-agosto 1931)





LA ROSA VENDUTA D'INVERNO 
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Io sono la rosa; incanto
l'aria, tremo sulle spine;
selvaggia mi tiene il pianto
d'inverno tra acute brine.
La man, che in Dicembre mi coglie
la cruda mia vita discioglie.

Io, prigioniera del gelo,
qui giaccio sul tetro banco,
purpurea confitta allo stelo
che si ripiega già stanco:
deh! mani, scegliete pietose
me sola, tra le mille rose!

Che mi ricordo del maggio,
soavemente reclinando;
in sua dolcezza selvaggio,
io ne vado delirando:
deh! già ch'io non posso piu' vivere
lasciatemi alfin morire!

Avrei, in una calda sala
aperto splendente il fiore
e sull'impalpabil ala
volerebbe il forte odore:
avrebbero l'ombre spavento
del mio solitario portento.

Ma anzi... domani la rosa,
vedrete, sarà già nulla;
va, come una morta cosa
sull'onda fetida e brulla;
del maggio, ch'essa ha amato tanto,
attende - ma non ode - il canto. 

(Da "Realtà vince il sogno", Il Frontespizio, Firenze 1932)





ROSE
di Filippo De Pisis (1896-1956)

Le rose un poco stanche piegano il capo
sopra l'orlo dei vasi.
Passano nubi sopra i tetti grigi.
Nel profondo di un bosco,
in mezzo al mare,
voli lenti di vanesse
un giorno lontano, come questo.
Attento pare il mio cuore a queste cose
(le piante sul balcone
godono l'ultima carezza del sole)
corre invece lontano
in cerca d'orizzonti senza fine.
Le rose un poco stanche piegano il capo
sopra l'orlo dei vasi.

(Da "Poesie", Vallecchi, Firenze 1942)





LA ROSA SEPOLTA
di Franco Fortini (1917-1994)

Dove ricercheremo noi le corone di fiori
Le musiche dei violini e le fiaccole delle sere

Dove saranno gli ori delle pupille
Le tenebre, le voci – quando traverso il pianto

Discenderanno i cavalieri di grigi mantelli
Sui prati senza colore, accennando. E di noi

Dietro quel trotto senza suono per le valli
D’esilio irrevocabili, seguiranno le immagini.

Ma il più distrutto destino è libertà.
Odora eterna la rosa sepolta.

Dove splendeva la nostra fedele letizia
Altri ritroverà le corone di fiori.

(Da "Foglio di via e altri versi", Einaudi, Torino 1946)





LA ROSA
di Alfonso Gatto (1909-1976)

La rosa se l'azzurro la colora
di sé rossa nel verde alaza la rosa,
rosa di macchia fulgida la rosa
rossa d'azzurro, viola d'acqua nera.

(Da "La forza degli occhi", Mondadori, Milano 1954)





LA ROSA NON È ROSSA
di Toti Scialoja (1914-1998)

La rosa non è rossa 
è appena rosa - è senza 
tinta se a tratti è scossa 
dal sussulto della tua assenza 

che non chiede colore 
non misura distanza 
- è soltanto dolore 
in qualche angolo della stanza.

(Da "I violini del diluvio", Mondadori, Milano 1991)



Giovanni Giani, "Il giorno delle rose"