martedì 3 maggio 2016

Calendimaggio in tre poesie italiane

BEN VENGA MAGGIO
di Angelo Poliziano (1454-1494)

Ben venga maggio
e 'l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera,
che vuol l'uom s'innamori:
e voi, donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori,
vi fate belle il maggio,
venite alla frescura
delli verdi arbuscelli.
Ogni bella è sicura
fra tanti damigelli,
ché le fiere e gli uccelli
ardon d'amore il maggio.
Chi è giovane e bella
deh non sie punto acerba,
ché non si rinnovella
l'età come fa l'erba;
nessuna stia superba
all'amadore il maggio
Ciascuna balli e canti
di questa schiera nostra.
Ecco che i dolci amanti
van per voi, belle, in giostra:
qual dura a lor si mostra
farà sfiorire il maggio.
Per prender le donzelle
si son gli amanti armati.
Arrendetevi, belle,
a' vostri innamorati,
rendete e cuor furati,
non fate guerra il maggio.
Chi l'altrui core invola
ad altrui doni el core.
Ma chi è quel che vola?
è l'angiolel d'amore,
che viene a fare onore
con voi, donzelle, a maggio.
Amor ne vien ridendo
con rose e gigli in testa,
e vien di voi caendo.
Fategli, o belle, feste.
Qual sarà la più presta
a dargli el fior del maggio?
- Ben venga il peregrino. -
- Amor, che ne comandi? -
- Che al suo amante il crino
ogni bella ingrillandi,
ché gli zitelli e grandi
s'innamoran di maggio. -

(Da "Le stanze di messer Angelo Ambrogini Poliziano", Barbera, Firenze 1863)





MAL VENGA MAGGIO
di Giacinto Ricci Signorini (1861-1893)

Mal venga maggio
E il gonfalon selvaggio.

Ecco la primavera
Come una dama vizza,
S'adorna alla specchiera.
Si atteggia e si raddrizza,
Ed in andando schizza
Per l'erta via di maggio.

E dona vezzi e svenie
E sparge fiori e canti,
E colle vecchie invenie
Chiama di fuor gli amanti
Alle notti stellanti,
Quando è più mite il maggio.

Già s'impettisce il gallo
Fra le amiche dell'aia,
E della luna al giallo
Viso il mastino abbaia
E una canzon sua gaia
L'asino leva al maggio.

È tutto gioia intorno,
Poi che scendono a mille
Del nuovo e puro giorno
I lampi e le scintille,
Nei campi e per le ville
Dilaga, esulta il maggio.

O mese sciocco e inetto
Come mi sei nemico,
Più forte urla il dispetto
Del mio dolore antico:
Io smanio e maledico
Al sole, ai fiori, al maggio.

O non voglio sapere
Se in festa il mondo viva,
Se in braccio del piacere
S'abbandoni la schiva
Fanciulla e se lasciva
Mostri il suo corpo al maggio.

No, la vita è un inganno,
E l'amore è menzogna.
La mente in questo affanno
Non pensa più né sogna;
Sol di morire agogna
Prima che fugga maggio.

(Da "Il libro delle rime", Tip. Nazionale Vagnuzzi, Cesena 1890)





CALENDIMAGGIO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio!
Ma è una selva che si svelle,
la selva che da sè si schianta!
E viene, e seco ha le procelle
che l’hanno nell’inverno affranta,
e viene e canta
                    il gonfalon selvaggio!

Ben venga con la sua grande ombra
e col grande urlo dei torrenti!
È vivo il gonfalon che ingombra
la terra e si svincola ai venti;
ed ai dormenti
                    annunzia: È Maggio! È Maggio!

Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio!
S’avanza sotto il cielo azzurro
il verde bosco che s’è mosso;
ha dentro un cupo suo sussurro,
ha dentro un rauco fiato grosso.
È rosso rosso
                    il gonfalon selvaggio!

Ben venga! È gente che sui capi
solleva il ramuscel d’ulivo;
e quel sussurro è ronzìo d’api
seguenti il ramo fuggitivo;
e il rosso vivo
                    è dei rosai di Maggio!


Ben venga Maggio
                    e il gonfalon selvaggio!

(Da "Poesie varie", Zanichelli, Bologna 1912)


domenica 1 maggio 2016

I lavoratori in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Confrontando queste dieci poesie novecentesche dedicate ai lavoratori, con quelle del secolo precedente, si noterà che alcuni mestieri ritornano (l'operaia, il fabbro, il minatore, l'arrotino), forse perché vedere una donna in fabbrica o in un laboratorio che lavorava esattamente come fosse un uomo, molti anni fa ancora destava una certa impressione ed anche un po' di meraviglia; ma anche perché alcuni lavoratori (come gli arrotini) era facile incontrarli nelle strade di paese e di città, o addirittura vederli, sotto la propria casa, esercitare un mestiere misero e che dava ben poche soddisfazioni. Ancora una volta, in questi versi si parla quasi esclusivamente di lavori umili e gravosi, a volte stagionali, che, fortunatamente, oggi non sono più quali erano alcuni anni or sono (qualcuno è completamente scomparso). Il motivo si spiega col fatto che, grazie alle lotte avvenute attraverso vari decenni del Novecento, un po' tutte le categorie lavorative più svantaggiate hanno conquistato dei diritti fondamentali. Ma oggi, la mia impressione è che si stia, lentamente e impercettibilmente, tornando indietro: si riscontra infatti una involuzione del mondo del lavoro, con conseguente perdita graduale di alcuni diritti basilari (si pensi all'abolizione del tanto discusso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori), che mi porta a prevedere, in questo specifico campo e non solo, un futuro sicuramente non roseo. 




OPERAIA
di Emilio Girardini (1858-1946)

Nel turbinoso strepito del vasto
laboratorio, intenta al tuo telaio,
donzelletta strappata ai campi, il gaio
stornel, solo conforto, t'è rimasto.

Non come un tempo più si ripercuote
lieto di balza in balza, né si perde
in onde sempre più lievi nel verde
piano, ma tra l'ansar di ordigni e ruote.

Ed or risenti, nel suo ritmo stanco,
le dolci sere in cui con le compagne
tornavi dopo il sol da le cmapagne,
la ronca appesa sul crescente fianco;

or con eco piangente la caduta
rosa anzi tempo del tuo volto accusa,
poi che a notte dormir ti si ricusa,
o intenta al tuo telaio ombra sparuta.

(Da "Ruri", Treves, Milano 1903)





IL FABBRO 
di Sebastiano Satta (1867-1914)

Ah tu semini stelle con la mano!
Arde l’ultima fiamma, ecco, su Monte
Atha e tu picchi ancora, o buon titano,
 
Dall’alba! I carratori volti al mare
Vedon rider nell’ombra, fin dal ponte,
Quel tuo stambugio come un focolare.
 
A quel sonìo la sedula massaia
Si desta per la casa e dice ai figli:
— O figli, è l’ora: Già sulla giogaia
Trema il Grappolo, e i cieli son vermigli. —
 
Vengono a te i garzoni e dicon: — Zio,
Tu maestro del ferro, eccoti il vecchio
Ferro, e tu facci un vomere. — Con pio
 
Vigor tu batti ed ecco dalle mani
Ti esce il vomere. E quello come specchio
Ben poi risplende quando gli anzïani
 
Spargon pregando la semente, e i solchi
Fumigan sciolti, e ascoltano tra snelle
Selve il brusìo degli orzi alti i bifolchi.
 
Ed ecco pur, battuti in quel tuo roggio
Antro, falcetti e industriose falci.
O bel cantare del ricolto! Il poggio
Tutto ne suona tra le messi e i tralci. 

Ed al ricolto, premio al tuo lavoro,
Ecco grappoli azzurri, ecco mannelle
Di spighe d’oro, una corona d’oro!

(Da "Canti barbaricini", La Vita Letteraria, Roma 1910)



  
AL MINATORE
di Augusto Garsia (1889-1956)

O minatore che sogni di sole
e ricordi d'azzurra fanciullezza
dolci così, com'è dolce carezza
di figli a madre e di madre a la prole,

porti con te dentro l'occulta mole
che vai scavando con tenace ebbrezza,
mentre l'aere nero con asprezza
punge lo sforzo che ostinato vuole,

oh potessero i sogni e i tuoi ricordi
penetrare con l'ansia del piccone,
onde il cuor delle rocce ignoto mordi,

ne le inferne sostanze a farle buone!
Bontà gli uomini avrebbero dai concordi
metalli, sotto gli astri, e dal carbone!

(Da "Voci del mio silenzio", Campitelli, Foligno 1927)




IL MURATORE
di Manlio Dazzi (1891-1968)

Il muratore ha strade sopra i tetti
per andare fra i nidi a piedi scalzi,
ha le armature per guardarsi il cielo.
La vertigine lascia ai viandanti
e porta sù, con l'arte, l'allegria.
Fa la casa, ch'è buona e chiara e grande
sulle piccole teste dei mortali;
squassa la calce del vestito e canta.

Si può avvilire giù nella valletta,
coscia con coscia con il triste mulo
e le nere patùrnie, un muratore?
Nella trincea c'è il sole e l'ombra e il vento,
come sull'armatura. E se si cade,
è come allora: un tonfo, ecco, nel vuoto.

(Da "Stagioni", Neri Pozza, Venezia 1933)



  
CANTO DELL'ARROTINO
di Nicola Ghiglione (1915-1990)

Arranco - arranco - sono l'arrotino
la finestra del mio studio è il baldacchino
con l'acqua per la ruota e picchio l'intestino
sulla pedana (mi lustro pelle e ossa)
sporco di danza come un teatrino -
mi vengono intorno lucertole e bambini
e balliamo insieme - fame - fame - fame.

(Da "Canti civili", Uomo, Milano 1945)




COMPAGNO ZOLFATARO
di Mario Farinella (1922-1993)

Quanta Sicilia dolora nei tuoi occhi,
ora che nel giorno sbiadisce il sole
freddo e giallo che scavasti
nel buio della terra:
zolfo sole morto
sull'erba saziata di caldo e calpestata.

Tu non sai il sole,
compagno zolfataro,
e le cose della vita
che portano calura e hanno voce.

Solo la lampada che tieni nel ritorno
illumina il tuo mondo:
un passo dopo l'altro
prima della notte
e due scarpe aperte
nel breve cerchio della luce
che macchia il nero della strada.

La ruota del carretto sullo stradone
è sempre il cuore che batte
senza memoria
nella notte di Sicilia.
Ma quanto pane sognano i tuoi figli,
compagno zolfataro.

(Da "Tabacco nero e Terra di Sicilia", Flaccovio, Palermo 1951)




IL GREGARIO
di Gianni Rodari (1920-1980)

Filastrocca del gregario
corridore proletario,

che ai campioni di mestiere
deve far da cameriere,

e sul piatto, senza gloria,
serve loro la vittoria.

Al traguardo, quando arriva,
non ha applausi, non evviva.

Col salario che si piglia
fa campare la famiglia

e da vecchio poi si acquista
un negozio da ciclista

o un baretto, anche più spesso,
con la macchina per l'espresso.

(Da "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960)




GLI SPALATORI
di Raffaele Carrieri (1905-1984)

Chiedono neve gli spalatori.
La sognano l'inverno
Come il pane dei poveri
Che viene dal cielo.

(Da "La giornata è finita", Mondadori, Milano 1963)




IL GEOMETRA
di Arnaldo Beccaria (?-?)

E un uomo piccolo cammina
con una bolla d'aria, ed un'asta
a scacchi bianchi e rossi.
È colui che scandisce
sull'unità di misura
appezzamenti di terra.
È colui che munito
di un filo a piombo
innalza muri.
Egli è colui che sacrifica il mattino
coi suoi semplici, puri
strumenti di misura.
Il metro,
la squadra,
il filo a piombo,
la livella,
la balina,
la stadia.
O Misura: respiro della terra.
E l'Ordine: sua suprema lindura.

(Da "Sull'orlo del cratere", Mondadori, Milano 1966)




GLI IMBIANCHINI SONO PITTORI
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Arrivò prima il figlio, in quell’ora
lucente dopo il pasto il sole e il vino,
eppure silenziosa, tanto che
si sentiva il pennello sul muro
distendere il celeste. Non guardava
fuori, la sua giovinezza
e salute gli bastava, attento
alla precisione dei bordi turchini
entro cui asciugando già l’azzurro
scoloriva com’era giusto. Allora
venne il padre che recava uno stampo,
il verde il rosso e il rosa,
e la stanchezza degli anni e il pallore.
Doveva su quel cielo preparato
con cura far fiorire le rose,
ma il verde stemperato per le foglie
non gli andava, non era un verde quale
ai suoi occhi deboli brillava all’esterno
con disperata intensità appressandosi
la sera che si porta via i colori.
Le corolle vermiglie ombrate in rosa
fiorirono più tardi la stanza,
una qua una là, accordate
alle ultime dell’orto, e il buio,
fuori e dentro, compì un giorno
non inutile che lascia a chi verrà,
e dormirà e si sveglierà fra questi
muri, la gioia delle rose e del cielo.

(Da "Viaggio d'inverno", Garzanti, Milano 1971)


Pellizza da Volpedo, "Il Quarto Stato"





sabato 30 aprile 2016

I lavoratori in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Il secolo XIX è probabilmente il primo che, in poesia o in prosa, pone seriamente l'attenzione sul lavoro e sui lavoratori; in particolare su coloro che allora facevano i mestieri considerati decisamente faticosi. Questo è anche il secolo in cui nasce il socialismo, con tutte le nuove proposte che intende realizzare per rendere la vita dei lavoratori migliore. In questo secolo, poi, cominciano ad approcciarsi ai più diversi mestieri molte donne prima tagliate fuori dal contesto lavorativo. Nei sottostanti dieci componimenti poetici, quasi sempre sono protagonisti i lavoratori che maggiormente soffrono, poiché svolgono dei mestieri usuranti, in certi casi disumani. Qualche volta invece si nota un patriottismo sincero (la nazione italiana nacque nel cuore dell'Ottocento) che percepisce, come fulcro della nascente patria, il lavoro e i lavoratori. Si noterà che la maggior parte delle poesie appartengono all'ultima fase del secolo; ciò si spiega col fatto che è proprio quel periodo il più ricco di fermenti, di mutamenti e di conquiste sociali che coinvolgono i lavoratori in toto (non a caso l'ultima lirica parla di uno sciopero); strada complicatissima che è iniziata lì ed è proseguita con successo nel secolo seguente: gli anni '60 e '70 insegnano.




IL CANTO DELL'ARROTINO
di Cesare Correnti (1815-1888)

La ruggine annosa, - la sozza guaina
M'han guasta e corrosa - la lama strafina;
Pur vedi, brillante - già il filo si fa...
Figliuolo, un istante! - la ruota la va.

Ve' il manico d'oro - com'era infardato!
Sì ricco lavoro - sciuparlo è peccato:
Fattura lombarda - che pari non ha...
Figliuolo, ti guarda! - la ruota la va.

Scolpito sul pomo - mi scifra il suggello.
Ma il ferro è già caldo - favilla già dà...
Figliuolo, tien saldo! - la ruota la va.

La guardia, il Cellini - l'ha forse foggiata:
Di ninfe e puttini - festosa brigata
S'affaccia ai frastagli - e occhieggia di là
La lama a due tagli... - La ruota la va.

Ma qui dove doccia - la stilla dall'alto,
Di sangue una goccia - s'aggruma allo smalto.
Ricordo che il brando - non sente pietà...
Attenti al comando! - La ruota la va.

(Da "Il nipote del Vestaverde", Vallardi, milano 1858)




IL RITORNO DAL LAVORO
di Antonio Fogazzaro (1842-1911)

Occupan l'alto lago
Densi vapori, e piove.
Lontan lontano move
Per la nebbia profonda
Di miste voci un'onda
Dolce, tranquilla e grave.

Sol cupe acque deserte
L'intento sguardo vede.
Continua procede,
S'appressa via via
L'ignota melodia
Dolce, tranquilla e grave,

Come se naviganti
D'un pelago infinito,
Lunge dal natio lito,
Al cader de la sera
La semplice preghiera
Levassero al Signore.

Ed ecco tra i vapori
Mostran lor punta bruna,
Escono ad una ad una,
Qua e là s'affannan carene
Le picciolette barche
De la gente che canta.

Vengono e vanno i remi,
Vengono e vanno i canti
Tra' cumuli fragranti
Del fien raccolto allora;
Si rizza su la prora
Capretta impaziente.

Tornan dai solitari
Campi de l'altro lido
Gli agricoltori al fido
Tetto, a' vecchi parenti,
A' bamboli innocenti,
A la notturna pace.

Così vi si conceda,
Fornita l'opra e pieni
I vostri dì, sereni
Drizzar di messe carche
Le picciolette barche
Ai lidi del mistero.

Vi attende un tetto fido,
E coi vecchi parenti
Coi bamboli innocenti
Cui vi porranno appresso
Un salutar sommesso;
Poi, del Signor la pace.

(Da "Valsolda", Brigola, Milano 1876)




IL CANTO DEI MIETITORI
di Mario Rapisardi (1844-1912)

La falange noi siam de’ mietitori
E falciamo le messi a lor signori.

Ben venga il Sol cocente il Sol di giugno,
Che ci arde il sangue e ci annerisce il grugno,
E ci arroventa la falce nel pugno,
Quando falciam le messi a lor signori.

Noi siam venuti di molto lontano
Scalzi, cenciosi, con la canna in mano,
Ammalati da l’aria del pantano
Per falciare le messi a lor signori.

I nostri figlioletti non han pane,
E chi sa? forse moriran domane
Invidïando il pranzo al vostro cane...
E noi falciam le messi a lor signori.

Ebbro di sole ognun di noi barcolla;
Acqua ed aceto, un tozzo e una cipolla
Ci disseta, ci allena, ci satolla.
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Il Sol ci cuoce, il sudore ci bagna,
Suona la cornamusa e ci accompagna,
Finchè cadiamo a l’aperta campagna.
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Allegri, o mietitori, o mietitrici,
Noi siamo, è vero, laceri e mendici,
Ma quei signori son tanto felici!
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Che volete? Noi siam povera plebe,
Noi siamo nati a viver come zebe,
Ed a morir per ingrassar le glebe.
Falciam, falciam le messi a quei signori.

O benigni signori, o pingui eroi,
Vengano un po’ dove falciamo noi;
Balleremo il trescon, la ridda, e poi...
Poi falcerem le teste a lor signori.

(Da "Giustizia", Giannotta, Catania 1883)




IL GENIO DEL LAVORO
di Domenico Carbone (1823-1883)

Viva Italia! Uno Spirto gagliardo
Corre il mar, corre il pian, corre il monte;
Incallite ha le mani, e la fronte
Ha cospersa di sacro sudor.
Egli batte le reni del tardo,
Con flagello di fiori e di spini.
Libertà, ne' tuoi campi divini
Quegli spini fur colti e que' fior.

Viva Italia! Le stridule lime,
L'aspre seghe, i martelli sonanti,
Del colono e del milite i canti.
Delle spole l'alterno volar
Sono un inno che monta sublime,
Son preghiera al Signor più gradita
Che lo squillo di torre romita,
Che l'incenso di lucido aitar.

Viva Italia! Una terra d'ignavi
È palude che putrida stagna;
È simile alla mesta campagna,
Dove i morti hanno requie fatal.
Ma la gente che s'agita in gravi
Studi, e d'opre sudate si pasce,
Mai non muore, o morendo rinasce,
Come tallo da ceppo vital.

(Da "Poesie", Barbera, Firenze 1885)




IL CANTO DEI LAVORATORI
di Filippo Turati (1857-1932)

Su fratelli, su compagne,
su, venite in fitta schiera:
sulla libera bandiera
splende il sol dell'avvenir.

Nelle pene e nell'insulto
ci stringemmo in mutuo patto,
la gran causa del riscatto
niun di noi vorrà tradir.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

La risaia e la miniera
ci han fiaccati ad ogni stento
come i bruti d'un armento
siam sfruttati dai signor.

I signor per cui pugnammo
ci han rubato il nostro pane,
ci han promessa una dimane:
la diman si aspetta ancor.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

L'esecrato capitale
nelle macchine ci schiaccia,
l'altrui solco queste braccia
son dannate a fecondar.

Lo strumento del lavoro
nelle mani dei redenti
spenga gli odii e fra le genti
chiami il dritto a trionfar.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

Se divisi siam canaglia,
stretti in fascio siam potenti;
sono il nerbo delle genti
quei che han braccio e che han cor.

Ogni cosa è sudor nostro,
noi disfar, rifar possiamo;
la consegna sia: sorgiamo
troppo lungo fu il dolor.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

Maledetto chi gavazza
nell'ebbrezza e nei festini,
fin che i giorni un uom trascini
senza pane e senza amor.

Maledetto chi non geme
dello scempio dei fratelli,
chi di pace ne favelli
sotto il pie dell'oppressor.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

I confini scellerati
cancelliam dagli emisferi;
i nemici, gli stranieri
non son lungi ma son qui.

Guerra al regno della Guerra,
morte al regno della morte;
contro il diritto del più forte,
forza amici, è giunto il dì.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

O sorelle di fatica
o consorti negli affanni
che ai negrieri, che ai tiranni
deste il sangue e la beltà.

Agli imbelli, ai proni al giogo
mai non splenda il vostro riso:
un esercito diviso
la vittoria non corrà.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

Se eguaglianza non è frode,
fratellanza un'ironia,
se pugnar non fu follia
per la santa libertà;

Su fratelli, su compagne,
tutti i poveri son servi:
cogli ignavi e coi protervi
il transigere è viltà.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

(Dalla rivista «Il Fascio Operaio», marzo 1886)




IL MINATORE
di Guido Mazzoni (1859-1943)

Passano senza mutamento l'ore,
e picchia col piccone il minatore.

Quant'anni sono ch'ei discende il pozzo?
buio d'inferno è per la galleria:
da l'afa trista il respiro gli è mozzo,
non sa più dove sia né chi egli sia.
Ma pur convien che col piccone dia,
e picchia col piccone il minatore.

Una volta lassù nel sol giocondo
vide candidi mandorli fioriti
e danzar giovinette a tondo a tondo
e chiamarlo ridendo e fargli inviti.
Ohimé, que' giorni come son finiti!
e picchia col piccone il minatore.

Una volta lassù nel lume d'oro
(come splendea quella sera la luna!)
si mise, e ardeagli il cuore, in mezzo a loro,
e danzò tutta la sera con una.
Maledetta la morte e la fortuna!
e picchia col piccone il minatore.

Com'era bello il bimbo entro la cuna!
vennero i preti, lo portaron via.
Maledetta la morte e la fortuna!
ma così esser deve, e così sia.
Convien convien che col piccone dia,
e picchia col piccone il minatore.

(Da "Voci della vita", Zanichelli, Bologna 1893)




CARRETTIERE
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

O carrettiere che dai neri monti
vieni tranquillo, e fosti nella notte
sotto ardue rupi, sopra aerei ponti;

che mai diceva il querulo aquilone
che muggia nelle forre e fra le grotte?
Ma tu dormivi sopra il tuo carbone.

A mano a mano lungo lo stradale
venìa fischiando un soffio di procella:
ma tu sognavi ch’era di natale;
udivi i suoni d’una cennamella.

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1894)




MADRE OPERAIA
di Ada Negri (1870-1945)

Nel lanificio dove aspro clamore
Cupamente la vôlta ampia percote,
          E fra stridenti rôte
Di mille donne sfruttasi il vigore,

Già da tre lustri ella affatica. — Lesta
Corre a la spola la sua man nervosa,
          Nè l’alta e fragorosa
Voce la scote de la gran tempesta

Che le scoppia dattorno. — Ell’è sì stanca
Qualche volta; oh, sì stanca e affievolita!..
          Ma la fronte patita
Spiana e rialza, con fermezza franca:

E par che dica: Avanti ancora!... — Oh, guai,
Oh, guai se inferma ella cadesse un giorno,
          E al suo posto ritorno
Far non potesse, o sventurata, mai!... —

Non lo deve; nol può. — Suo figlio, il solo,
L’immenso orgoglio de la sua miseria,
          Cui ne la vasta e seria
Fronte del genio essa divina il volo,

Suo figlio studia. — Ed essa all’opificio
A stilla a stilla lascierà la vita,
          E affranta, rifinita.
Offrirà di sè stessa il sacrificio;

E la tremante e gelida vecchiaia
Offrirà, come un dì la giovinezza,
          E salute, e dolcezza
Di riposo offrirà, santa operaia,

Ma il figlio studierà. — Temuto e grande
Lo vedrà l’avvenire; ed a la bruna
          Sua testa la fortuna
D’oro e di lauro tesserà ghirlande!...

(Da "Fatalità", Treves, Milano 1895)




IL FABBRO
di Emilio De Marchi (1851-1901)

Tra i muti casolari odi frequente
il suono che rimbalza sull'incude:
è Bellincion, che colle braccia nude
      batte il ferro rovente.

Ei sta fosco Vulcan da mane a sera
al mantice, al martel, alla tenaglia:
batte, inchioda, arroventa, il ferro scaglia
      rosso nell'acqua nera.

Copron serrami e toppe aspre e ferraglie
l'affumicata volta della muda:
ansa la vampa sulla carne ignuda
      le sue stridente scaglie.

Grida al compagno e cade in una dura
danza la solfa delle salde braccia:
tuona il martel, che rompere minaccia
      le costole a natura.

Se il vino canta e scalda il sentimento,
piomban sì giusti i colpi del martello,
che la torre merlata del castello
      balla sul fondamento.

Quindi egli siede ai caldi occhi del sole
sull'uscio e in così grasse risa il pane
accompagna che fuggono lontane
      le donne alle sue fole.

Oppur si piglia in braccio o sui ginocchi
un suo vezzoso bambinel di latte:
e le morbide incudini gli batte,
      soffiandogli negli occhi.

Dell'uom barbuto e nero il picciol fiore
mitiga i sensi e le parole audaci:
scendon spesse carezze e scendon baci
che fan rovente il cuore.

(Da "Vecchie cadenze e nuove", Agnelli, Milano 1899) 




SCIOPERO IN RISAIA
di Olindo Guerrini (1845-1916)
 
Sull'argine fangoso e desolato,
sotto il ciel che s'oscura,
come ingiunto gli fu veglia il soldato
e guarda la pianura.
 
Non un canto lontan, non un susurro
dai muti casolari;
non un allegro fil di fumo azzurro
s'alza dai focolari.
 
Sol di bimbi affamati un gemer lento
sembra morir lontano....
La fame, la miseria e lo spavento
pesan sul triste piano! 

Pensa il soldato: – «Ahimè, lacrime umane, 
noi vi freniam con l'armi! 
Oggi, se a casa mia non c'è più pane 
ci saranno i gendarmi!»


(Da "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903)

Pierre Auguste Renoir, "I mietitori"