domenica 1 maggio 2016

I lavoratori in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Confrontando queste dieci poesie novecentesche dedicate ai lavoratori, con quelle del secolo precedente, si noterà che alcuni mestieri ritornano (l'operaia, il fabbro, il minatore, l'arrotino), forse perché vedere una donna in fabbrica o in un laboratorio che lavorava esattamente come fosse un uomo, molti anni fa ancora destava una certa impressione ed anche un po' di meraviglia; ma anche perché alcuni lavoratori (come gli arrotini) era facile incontrarli nelle strade di paese e di città, o addirittura vederli, sotto la propria casa, esercitare un mestiere misero e che dava ben poche soddisfazioni. Ancora una volta, in questi versi si parla quasi esclusivamente di lavori umili e gravosi, a volte stagionali, che, fortunatamente, oggi non sono più quali erano alcuni anni or sono (qualcuno è completamente scomparso). Il motivo si spiega col fatto che, grazie alle lotte avvenute attraverso vari decenni del Novecento, un po' tutte le categorie lavorative più svantaggiate hanno conquistato dei diritti fondamentali. Ma oggi, la mia impressione è che si stia, lentamente e impercettibilmente, tornando indietro: si riscontra infatti una involuzione del mondo del lavoro, con conseguente perdita graduale di alcuni diritti basilari (si pensi all'abolizione del tanto discusso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori), che mi porta a prevedere, in questo specifico campo e non solo, un futuro sicuramente non roseo. 




OPERAIA
di Emilio Girardini (1858-1946)

Nel turbinoso strepito del vasto
laboratorio, intenta al tuo telaio,
donzelletta strappata ai campi, il gaio
stornel, solo conforto, t'è rimasto.

Non come un tempo più si ripercuote
lieto di balza in balza, né si perde
in onde sempre più lievi nel verde
piano, ma tra l'ansar di ordigni e ruote.

Ed or risenti, nel suo ritmo stanco,
le dolci sere in cui con le compagne
tornavi dopo il sol da le cmapagne,
la ronca appesa sul crescente fianco;

or con eco piangente la caduta
rosa anzi tempo del tuo volto accusa,
poi che a notte dormir ti si ricusa,
o intenta al tuo telaio ombra sparuta.

(Da "Ruri", Treves, Milano 1903)





IL FABBRO 
di Sebastiano Satta (1867-1914)

Ah tu semini stelle con la mano!
Arde l’ultima fiamma, ecco, su Monte
Atha e tu picchi ancora, o buon titano,
 
Dall’alba! I carratori volti al mare
Vedon rider nell’ombra, fin dal ponte,
Quel tuo stambugio come un focolare.
 
A quel sonìo la sedula massaia
Si desta per la casa e dice ai figli:
— O figli, è l’ora: Già sulla giogaia
Trema il Grappolo, e i cieli son vermigli. —
 
Vengono a te i garzoni e dicon: — Zio,
Tu maestro del ferro, eccoti il vecchio
Ferro, e tu facci un vomere. — Con pio
 
Vigor tu batti ed ecco dalle mani
Ti esce il vomere. E quello come specchio
Ben poi risplende quando gli anzïani
 
Spargon pregando la semente, e i solchi
Fumigan sciolti, e ascoltano tra snelle
Selve il brusìo degli orzi alti i bifolchi.
 
Ed ecco pur, battuti in quel tuo roggio
Antro, falcetti e industriose falci.
O bel cantare del ricolto! Il poggio
Tutto ne suona tra le messi e i tralci. 

Ed al ricolto, premio al tuo lavoro,
Ecco grappoli azzurri, ecco mannelle
Di spighe d’oro, una corona d’oro!

(Da "Canti barbaricini", La Vita Letteraria, Roma 1910)



  
AL MINATORE
di Augusto Garsia (1889-1956)

O minatore che sogni di sole
e ricordi d'azzurra fanciullezza
dolci così, com'è dolce carezza
di figli a madre e di madre a la prole,

porti con te dentro l'occulta mole
che vai scavando con tenace ebbrezza,
mentre l'aere nero con asprezza
punge lo sforzo che ostinato vuole,

oh potessero i sogni e i tuoi ricordi
penetrare con l'ansia del piccone,
onde il cuor delle rocce ignoto mordi,

ne le inferne sostanze a farle buone!
Bontà gli uomini avrebbero dai concordi
metalli, sotto gli astri, e dal carbone!

(Da "Voci del mio silenzio", Campitelli, Foligno 1927)




IL MURATORE
di Manlio Dazzi (1891-1968)

Il muratore ha strade sopra i tetti
per andare fra i nidi a piedi scalzi,
ha le armature per guardarsi il cielo.
La vertigine lascia ai viandanti
e porta sù, con l'arte, l'allegria.
Fa la casa, ch'è buona e chiara e grande
sulle piccole teste dei mortali;
squassa la calce del vestito e canta.

Si può avvilire giù nella valletta,
coscia con coscia con il triste mulo
e le nere patùrnie, un muratore?
Nella trincea c'è il sole e l'ombra e il vento,
come sull'armatura. E se si cade,
è come allora: un tonfo, ecco, nel vuoto.

(Da "Stagioni", Neri Pozza, Venezia 1933)



  
CANTO DELL'ARROTINO
di Nicola Ghiglione (1915-1990)

Arranco - arranco - sono l'arrotino
la finestra del mio studio è il baldacchino
con l'acqua per la ruota e picchio l'intestino
sulla pedana (mi lustro pelle e ossa)
sporco di danza come un teatrino -
mi vengono intorno lucertole e bambini
e balliamo insieme - fame - fame - fame.

(Da "Canti civili", Uomo, Milano 1945)




COMPAGNO ZOLFATARO
di Mario Farinella (1922-1993)

Quanta Sicilia dolora nei tuoi occhi,
ora che nel giorno sbiadisce il sole
freddo e giallo che scavasti
nel buio della terra:
zolfo sole morto
sull'erba saziata di caldo e calpestata.

Tu non sai il sole,
compagno zolfataro,
e le cose della vita
che portano calura e hanno voce.

Solo la lampada che tieni nel ritorno
illumina il tuo mondo:
un passo dopo l'altro
prima della notte
e due scarpe aperte
nel breve cerchio della luce
che macchia il nero della strada.

La ruota del carretto sullo stradone
è sempre il cuore che batte
senza memoria
nella notte di Sicilia.
Ma quanto pane sognano i tuoi figli,
compagno zolfataro.

(Da "Tabacco nero e Terra di Sicilia", Flaccovio, Palermo 1951)




IL GREGARIO
di Gianni Rodari (1920-1980)

Filastrocca del gregario
corridore proletario,

che ai campioni di mestiere
deve far da cameriere,

e sul piatto, senza gloria,
serve loro la vittoria.

Al traguardo, quando arriva,
non ha applausi, non evviva.

Col salario che si piglia
fa campare la famiglia

e da vecchio poi si acquista
un negozio da ciclista

o un baretto, anche più spesso,
con la macchina per l'espresso.

(Da "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960)




GLI SPALATORI
di Raffaele Carrieri (1905-1984)

Chiedono neve gli spalatori.
La sognano l'inverno
Come il pane dei poveri
Che viene dal cielo.

(Da "La giornata è finita", Mondadori, Milano 1963)




IL GEOMETRA
di Arnaldo Beccaria (?-?)

E un uomo piccolo cammina
con una bolla d'aria, ed un'asta
a scacchi bianchi e rossi.
È colui che scandisce
sull'unità di misura
appezzamenti di terra.
È colui che munito
di un filo a piombo
innalza muri.
Egli è colui che sacrifica il mattino
coi suoi semplici, puri
strumenti di misura.
Il metro,
la squadra,
il filo a piombo,
la livella,
la balina,
la stadia.
O Misura: respiro della terra.
E l'Ordine: sua suprema lindura.

(Da "Sull'orlo del cratere", Mondadori, Milano 1966)




GLI IMBIANCHINI SONO PITTORI
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Arrivò prima il figlio, in quell’ora
lucente dopo il pasto il sole e il vino,
eppure silenziosa, tanto che
si sentiva il pennello sul muro
distendere il celeste. Non guardava
fuori, la sua giovinezza
e salute gli bastava, attento
alla precisione dei bordi turchini
entro cui asciugando già l’azzurro
scoloriva com’era giusto. Allora
venne il padre che recava uno stampo,
il verde il rosso e il rosa,
e la stanchezza degli anni e il pallore.
Doveva su quel cielo preparato
con cura far fiorire le rose,
ma il verde stemperato per le foglie
non gli andava, non era un verde quale
ai suoi occhi deboli brillava all’esterno
con disperata intensità appressandosi
la sera che si porta via i colori.
Le corolle vermiglie ombrate in rosa
fiorirono più tardi la stanza,
una qua una là, accordate
alle ultime dell’orto, e il buio,
fuori e dentro, compì un giorno
non inutile che lascia a chi verrà,
e dormirà e si sveglierà fra questi
muri, la gioia delle rose e del cielo.

(Da "Viaggio d'inverno", Garzanti, Milano 1971)


Pellizza da Volpedo, "Il Quarto Stato"





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