Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
domenica 5 aprile 2015
I versi dell'infanzia
lunedì 30 marzo 2015
La Settimana santa in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo
Manca una settimana alla santa Pasqua: arriva la Settimana Santa. Quanti ricordi infantili, mi suscita questo periodo dell’anno! Ricordi prettamente infantili, quando, a metà della settimana, cominciavano le vacanze pasquali, e non si andava a scuola fino alla metà della settimana successiva; non erano lunghe come quelle natalizie, ma erano comunque bellissime. Poi c’erano i riti religiosi che la mia famiglia, essendo cattolica, seguiva scrupolosamente; nel pomeriggio tardo del venerdì santo si andava in chiesa, a visitare i Sepolcri; nello stesso giorno non si mangiava alcun tipo di carne; la sera, poi, si assisteva alla Via Crucis che era trasmessa dalla televisione. Il sabato iniziavano i preparativi per il giorno della Pasqua. Ora che è passato quasi mezzo secolo, mi rendo conto di quanto siano belli questi ricordi, così lontani che mi occorre frugare con insistenza nella memoria per farli riemergere. Pur avendo perduto da decenni la fede, ricordare questi eventi mi procura un benessere indescrivibile, poiché appartengono al periodo più felice della mia esistenza.
di Nicola Moscardelli (1894-1943)
Le ore passano frettolose quasi timorose d'essere riconosciute.
Dietro i cancelli belano gli agnelli come se sapessero d'essere già stati venduti. Il loro belato purifica l'aria. Se il profumo delle margherite avesse una voce sarebbe simile a quella dell'agnello. La giornata passa presto tra sole e nuvolo come di marzo. Se un canto di donna si leva, subito si spegne.
Gli abitanti del paese sono distratti e sui calzoni di tutti i giorni portano la giacca nuova, perché la giornata è metà lavoro e metà festa.
Il tramonto arriva quando meno ci si pensa: rosso come d'estate.
Il belato degli agnelli nella sera che odora come un prato si ode appena appena, come se il sangue del tramonto fosse il loro.
(Da "Le grazie della terra", Carabba, Lanciano 1928)
LE MANI DI GIUDA
di Nicola Valenza (1890-?)
Ne l'ultima Cena
appena Gesù dice:
"La mano di colui che mi tradisce
è meco a tavola"
gli occhi dei Discepoli
inorriditi si spiano
ma quelli di Giuda
fiori di precipizio
vorrebbero sorridere al Maestro.
E mentre tutte le mani tremano d'angoscia
come a carezzare il cuore sanguinante del Signore
quelle di Giuda
pian piano sotto la mensa scivolano
e pur celate
si sentono perdute.
Vorrebbero, gelide, avvincersi...
Ma come stroncate
da monconi pendono.
(Da "Getsemani", Milia Russo, Caltanissetta 1927)
GIOVEDÌ SANTO
di Biagia Marniti (1921-2006)
Un crepuscolo continuo rende umida la notte.
La luna velata d'azzurro sorride di luce.
L'infinito tace e si ascolta.
Più gli alberi
verso l'imo da cui scesero,
immoti calici ricevono
le voci sommerse dell'acqua
dalle fistole bianche che tremano.
I tesi rami
cercano il mistero che scorre.
Un bisbiglio. Si sporgono.
È volata una foglia.
Più chiare oscillano
le varie fiammelle dell'aria.
L'aria candida, pudica
si spoglia, anela il vento che manca.
Si è mossa la ghiaia.
Un'ombra entrata nell'ombra.
Odi un passo? È nell'orto la Morte.
(Da "Nero amore rosso amore", Fiumana, Milano 1951)
GESÙ ENTRA NELL'ORTO
di Elena Bono (1921-2014)
La carne è stanca.
Gli uomini non veglieranno con me.
Voi grandi alberi
che sempre parlate col vento,
notturni uccelli
che non dormite,
notte che accogli nel grembo
tutte le cose
vegliate voi con me,
non mi lasciate.
Non lasciatemi solo col mio cuore.
(Da "Alzati Orfeo", Milano 1958)
VENERDÌ SANTO
di Fausto Maria Martini (1886-1930)
Nulla, credi, è più dolce per i nostri
occhi di questo giorno senza sole,
con i monti velati di viole
perché la primavera non si mostri...
Venerdì santo! E ieri sera tu
ti rimendavi quest'abito, tutto
grigio, un abito come a mezzo lutto
per la morte del povero Gesù...
Traevi dalla tua cassa di noce
qualche grigio merletto secolare:
così vestita, accoglierà l'altare
la buona amante con le mani in croce...
Prega per me, prega per te, pel nostro amore,
per nostra cristiana tenerezza,
per la casa malata di tristezza,
e per il grigio Venerdì che muore:
Venerdì santo, entrato in agonia,
non ha la sua campana che lo pianga...
come un mendico, cui nulla rimanga,
rassegnato si muore sulla via...
Prega, e ricorda nella tua preghiera
tutte le cose che ci lasceranno:
anche il ramo d'olivo che l'altr'anno
ci donò, per la Pasqua, Primavera.
Quante volte l'olivo benedetto
vide noi moribondi nel piacere,
e vide le nostre due anime, in nere
vesti, per noi pregare a capo al letto!
E pregavamo, come se morisse
qualcuno: un poco, sempre, morivamo...
Ma sempre sull'aurora nuova, il ramo
d'olivo i lieti amanti benedisse!
Ora col nuovo tu lo cambierai:
anche devi pregare per gli specchi
velati, per i libri, per i vecchi
abiti che tu più non vestirai...
È sera: un riso labile si perde
sulle tue labbra, mentre t'inginocchi:
io guardo, dietro la veletta, gli occhi...
due perle nere in una rete verde.
(Da "Poesie provinciali", Ricciardi, Napoli 1910)
VENERDÌ SANTO
di Francesco Tentori Montalto (1924-1995)
Torna l'inverno, torna
l'ufficio delle tenebre.
Pasqua intrisa di pioggia, che non osa
far sonare le squille della gioia
ma a capo chino ripete il confiteor,
i salmi della penitenza.
Gocciano lacrime i ceri,
vestita a lutto va la processione
tra le oscure crociere e gli ambulacri
che sospirano ai verdi porticati.
(Da "Migrazioni", Passigli, Firenze 1997)
VIA CRUCIS
di David Maria Turoldo (1916-1992)
La bocca rotta dalla pena
i denti legati
dal dolore.
Intanto la luna si alza
e una musica arriva
sul selciato delle case
a morire.
(Da "Io non ho mani", Bompiani, Milano 1948)
L'ORA SESTA
di Franco Berardelli (1908-1932)
Il sangue scorre da la bionda testa
coronata di spine, lungo il viso,
e asconde ai fili l'ultimo sorriso.
Urla la folla e ondeggia. È l'ora sesta.
Guardate intorno, voi che fate festa
e schiamazzate per averlo ucciso!
Il velo del gran tempio s'è diviso:
s'apre la terra e mugge la tempesta.
Mirate! Il ciel si schianta, il sol s'oscura,
sfolgora il lampo, rumoreggia il tuono;
grida al delitto e freme ogni creatura.
È l'ora nona. Dal divino trono
il Padre placa, a un cenno, la natura,
e pace ai peccatori offre e perdono.
(Da "I sonetti", Tip. Mantellate, Roma 1931)
PER IL SABATO SANTO 1953
di Gherardo Del Colle (1920-1978)
Il gallo s'è sgolato per millenni.
E Cefa ha pianto. E dondolò dall'albero
lo scheletro di Giuda. - Balza fuori
rovescia sopra il tetro nostro suolo,
o Signore, la pietra che Ti chiude.
Te Risorto presentono nei solchi
turgide gemme e pallidi frumenti.
Ripercorrono ansiosi i Due di Emmaus
l'antica strada. E là Maria di Magdala
nell'orto attende che Tu la sorprenda.
Hora est jam: il tedio e il lamento
vano, che noi tardi di cuore a credere
a guardia riponemmo del Sepolcro,
un Tuo urlo disperda, o Tu più forte
d'ogni morte, Gesù: de somno surge.
E gli Angioli, alleluja, e le campane
annuncino, alleluja, che Tu ritorni.
Per domani, Signore? Oh, da domani
s’inizino coll’alba i giorni nuovi,
alleluja, viso Domino. Alleluia!
(Da "Biancospino", La locusta, Vicenza 1957)
SABATO SANTO
di Francesco Gaeta (1879-1927)
Ritornavo: morìa sabato santo.
M'ero stancato i suoi piedi a baciare;
su quei piccoli piedi avevo pianto
le insensate mie lacrime più rare.
Movevan negri nuvoli lor manto
lacero su 'l baglior crepuscolare
di primavera; l'aer tutto quanto
echeggiava di reduci fanfare.
E il brulicar pasquale, e un repentino
odor di terra smossa con la brezza,
tra case alte accigliate, da un giardino,
pareanmi, tra il bruciar de le mie cave
mani, una mia seconda fanciullezza
accompagnare d'un sorriso grave.
(Da "Sonetti voluttuosi ed altre poesie", Roux & Viarengo - Roma-Torino 1906)
sabato 28 marzo 2015
Poeti dimenticati: Edvige Pesce Gorini
Opere poetiche
"Il ritorno", Bemporad, Firenze 1922.
"Natività", Mondadori, Milano 1924.
"Le sette fontanelle", SEI, Torino 1933.
"Respingo il sole", Marzocco, Firenze 1953.
"Il tempo è uguale", Marzocco, Firenze 1956.
"Erbe tra i sassi", Barbera, Firenze 1964.
"Labirinti della memoria", Barbera, Firenze 1970.
"Alla finestra", Barbera, Firenze 1979.
Presenze in antologie
"La fiorita francescana", a cura di Tommaso Nediani, Istituto italiano d'arti grafiche, Bergamo 1926 (pp. 355-356).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VI, pp. 104-108).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 450-451)
"Antologia della Poesia Italiana Cattolica del Novecento", a cura di Mario Nanteli, UPSCI, Roma 1959 (pp. 273-275).
Testi
IO SONO MAMMA
Io sono mamma! Ho un angelo sul petto
che si nutre di me, dei miei pensieri,
che ha fatto il nido suo presso il mio letto,
e i sogni guida in limpidi sentieri.
Io sono mamma! E bacio l'angioletto
che schiude agli occhi miei nuovi misteri:
nulla chiedo alla vita e nulla aspetto,
da che ridono a me quest'occhi neri.
S'è dileguato il senso d'ogni noia
nella casa che palpita serena
come l'anima mia pronta alla gioia.
O figlio, figlio mio, con te vicino
buona la vita sento, dolce e piena,
sento compiuto tutto il mio destino.
(Da "Natività")
lunedì 23 marzo 2015
I vènti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo
Il vènto, quanto è fastidioso! Sia di tramontana, gelido e penetrante, che non riesci a proteggerti neppure se indossi due cappotti; sia di scirocco, che ti procura un malessere generalizzato, che fatichi persino a respirare e non sai dove trovare scampo; sia di libeccio, poiché le famigerate libecciate sono potentissime, e spazzano via ogni cosa che incontrano (perfino tu barcolli quando cammini controvènto); sia di maestrale, che non è gelido, ma freddo sì, ed anche intenso; e poi c'è il grecale: il più freddo dei vènti che, alcune volte, ci porta la neve. No, non amo le giornate vèntose, e quando arrivano preferirei di gran lunga rimanere in casa, aspettando che i vènti cessino e che torni la calma.
di Carlo Betocchi (1899-1986)
Io, qui in turrite case
ràbido cane t'attendo:
miro le stelle invase
da un celestiale sgomento;
e in aere deserto il cielo
morir sul tuo rapido gelo.
Là, dove son romite
valli monotone, spente,
acque lacustri e trite
stagnandovi sonnolente
nasci, e per sete del mondo
balzi nel cielo profondo.
Come colui che in caccia
affronta montagne e valli
fiuti l'azzurra traccia
dei venti, e il selvaggio hallalli!
hallalli! latri, selvaggio
nemico del dolce maggio.
Con la tua alta fame
che niuno sa di che fatta
urli vittorie strane,
sibili e scrolli la fratta,
e rechi, nel cielo fosco,
la gialla morte del bosco.
Conquistator d'inverno
che, dunque, porti in tua palma?
col tuo urlo d'inferno
sulla morente campagna?
Balzi, e com'aquila infesta
vola l'invitta tempesta.
(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984)
IL VENTO, ECCO IL MIO VENTO AUTUNNALE
di Giovanni Descalzo (1902-1951)
Il vento, ecco il mio vento autunnale
con la sua salda frenesia di scoppi
tra le rame impigrite e il mugghio sordo
dell'onde che travolge.
Mi sento avvolto nella corrente
quale pianta che lascia
predare foglie e speranze.
(Da "La vana fatica", San Marco dei Giustiniani, Genova 2002)
IL VENTO
di Luisa Giaconi (1870-1908)
Qualcuno spinge la mia porta, l'agita violento;
qualcuno piange con dei lunghi gemiti stasera,
uno che corse sibilando per la notte nera...
È il vento che si leva, è il vento.
Egli ha la voce delle turbe pazze di spavento,
egli ha lo scroscio degli oceani, l'ansar delle selve,
e par che aspetti con un lungo bramito di belve...
È il vento che si lagna, è il vento.
Ora, dopo un mormorio stanco di sistri d'argento
sosta, come chi troppo, troppo lungamente pianse,
come nell'ansia d'una prece che un singhiozzo franse...
È il vento che riposa, è il vento.
In vano sotto al fioco lume che fiammeggia lento
io schiusi il libro che i momenti deserti consola,
in vano io tesi anima e sensi a un'altra parola...
È il vento che mi chiama, è il vento.
Nell'ombra, che come un oceano mi circonda, sento
che passa e passa senza fine un'ignota pesta,
un soffio sveglia ora la lunga mia tosse funesta...
È il vento che cammina, è il vento.
Ecco, e alla fine con più fieri gemiti irruento
egli spalanca la mia porta ch'io gli opposi dura;
s'odon misteriosi schianti per la casa oscura...
È il vento che mi cerca, è il vento.
Ei volta al libro le profonde pagine violento,
le straccia come in una vana ansia della fine,
e abbassa e spegne la tremante lampada alla fine...
È il vento che c'incalza, è il vento.
(Da "Tebaide", Zanichelli, Bologna 1912)
TRAMONTANA
di Adriano Grande (1897-1972)
La tramontana ti porta ai mattini
di fanciullezza, al gelo
sulle fontane, a quando, con le dita
spaccate dai geloni,
pulivi le vetrine del merciaio
e t'incantavi a contemplar le frange
delle sciarpe di seta
che ad ogni colpo del tuo strofinaccio
salivano dal fondo verso i vetri
come fibre marine nell'acquario.
Anche rivedi, in oscillante abbaglio
d'acetilene, il mondo
sguaiato delle maschere ch'entrava
usciva dal nevischio e che una notte
intiera ti costrinse dentro l'àndito
d'una gargotta, impaniate le penne
dell'anima da risa grossolane.
I calcinosi visi dei pupazzi
viventi, i brevi sprazzi
di luce colorata,
i goffi tonfi dell'ossessionante
musica dalla sala, travolgevano
la tua tristezza in un lucido inferno.
Finché non scese l'alba, illividita
dal fiato dell'inverno, a rivelare
i coriandoli sporchi
e le stelle filanti calpestate,
pian piano ti mordesti
le dita fino a farle sanguinare.
Intanto spalancavi, pur pregando
in te di non poter mai diventare
simile a quella gente
orrenda, tutte quante
le porte del tuo essere alle brame
convulse e rumorose della vita
che sentivi sbagliate.
(Da "Fuoco bianco", Ed. della Meridiana, Torino 1950)
MAESTRALE
di Eugenio Montale (1896-1981)
S'è rifatta la calma
nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s'infrange e ancora
il cammino ripiglia.
Lameggia nella chiaria
la vasta distesa, s'increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.
O mio tronco che additi,
in questa ebrietudine tarda,
ogni rinato aspetto coi tuoi germogli fioriti
sulle tue mani, guarda:
sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai:perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là»!
(Da "Ossi di seppia", Mondadori, Milano 1948)
LIBECCIO
di Mario Novaro (1868-1944)
Libeccio furioso sfrenato
tu che pieghi durevolmente gli ulivi,
che pur nella calma
a te seconde stendan le braccia:
tu vento che l'onde volgi maggiori,
che i moli oltrepassino gonfie
spumeggiando in tumulto,
belle e tremende a vedere:
libeccio, tu che soffi che soffi a gran voce
coprendo la voce del mare
(oh come tu amando lo sferzi!
fin qui sul colle gli spruzzi ne perdi!)
bruciando, rapendo
pur le foglie de' lecci tenaci,
strinando i pini
e alle palme le chiome di serpi
che per te sibilano
e urlano col mare a gara:
non mi sdegnare!
poi che sempre sempre io ti amai:
soffia, soffia, soffia,
non aver pace nel cuore mio!
oh non è in pianto
che tu rompi il tuo canto possente:
la pioggia che ti scroscia seguace
lava il cielo e la terra feconda.
(Da "Murmuri ed echi", Ricciardi, Napoli 1941)
SCIROCCO
di Lucio Piccolo (1901-1969)
E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fa sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi, nastri...
Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.
(Da "Canti barocchi e Gioco a nascondere", Scheiwiller, Milano 2001)
VENTO DI NOTTE
di Agostino Richelmy (1900-1991)
Nel silenzio notturno arriva il vento,
gonfia l'aria vagante,
diafana belva ai monti e alla pianura
fuggente e inseguitrice:
brucia nei viali i rami,
nelle vie vuote si atterrisce e raspa
sotto gli usci e agli spigoli,
tocca finestre da lunghe ore prive
di luce vegliatrice.
Ancora un poco, o sonno,
nella pausa protetta delle stanze
chiudi palpebre e menti,
con pietosa dolcezza
alle donne e agli uomini
che amandole ne spensero il brillio,
a bambini e bambine
nati da loro e di null'altro eredi
che d'assai più profondo sonno poi.
(Da "Poesie", Garzanti, Milano 1992)
GIORNO DI VENTO
di David Maria Turoldo (1916-1992)
E sono senza pietà per questo
mio cuore denudato;
come un giorno di vento
un albero batteva alla finestra
con braccia dementi
il mare era tutto un pianto;
e giù alla riva appena
respiravano le pietre
coperte di schiuma,
e c'erano rottami
di brache e di rami
e una scarpa gettata tra i sassi
e un lembo di veste;
ed io guardavo ridendo
ai vetri della cella.
(Da "O sensi miei...", Rizzoli, Milano 2002)
GRECALE
di Giuseppe Vilaroel (1889-1968)
Ore d'infanzia alla città natale,
approdo di velieri levantini.
Nelle icone del porto i suonatori
ciechi, con ronfi di chitarre e gli urli
delle sirene e il fumo dei camini
tra le raffiche nere del grecale.
(Da "Ingresso nella notte", Vallecchi, Firenze 1943)
giovedì 19 marzo 2015
10 oggetti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo
di Pompeo Bettini (1862-1896)
L'accetta preistorica
sembra un'arme innocente,
buona a grattar la cotica
od a nettare un dente;
pur la scheggia silicea,
più valida dell'ugna,
in qualche fiera pugna
percosse ed ammazzò.
Del bisavo antropoide
essa illustrò le gesta:
forse dei cinocefali
ruppe la dura testa;
indi uccisore e vittime
giacquero in una fossa
ove con lenta possa
la terra li succhiò.
Né spenta è per millennii
l'ira di quei vissuti;
l'arme di selce ha spigoli
laceranti ed acuti
che attestano la torbida
legge di creazione:
ogni carne è boccone
e il vinto si macella.
Questa vetrina è squallida
e desrta è la sala;
un secco odore azoico
dai minerali esala:
pietre ghermite ai culmini,
o scavate dai fondi,
o cadute dai mondi
con orbite di stella.
Che profondo silenzio,
che mistero nel sasso!
Io la mano sul cranio
dubitando mi passo,
e sento che la scatola
d'osso non è ben forte;
ho un brivido di morte
all'idea del cimento.
O tomba geologica,
abisso mal frugato,
ogni vivente è nato
e ci trasmise l'anima
per incognita via;
guizzo di poesia
nell'eterno spavento!
(Da "Poesie e prose", Cappelli, Bologna 1970)
BIGLIETTO DI FERROVIA
di Luigi Capuana (1839-1915)
Questa tessera di viaggio
rimasta in mio potere
assai care cose mi rammenta,
o Lina, e dolci assai.
Con essa parto, senza riscontri,
pel bel paese del passato;
e tu mi stai sempre a fianco,
e nessuno c'importuna!
(Da "Semiritmi", Treves, Milano 1888)
IL PICCOLO FORZIERE
di Giuseppe Chiovenda (1872-1937)
Ho riaperto il piccolo forziere,
Che la storia chiudea del nostro amor;
I suoi biglietti, le sue ciocche nere,
I suoi poveri fior.
Queste reliquie ho visto nel braciere
Divampare con livido baglior;
E m'è rimasto il piccolo forziere
Vuoto come il mio cuor.
(Da "Agave", Unione cooperativa editrice, Roma 1896)
IL ROSARIO DELLA NONNA
di Emilio De Marchi (1851-1901)
Pende dal chiodo sul guancial, di grani
fitto il rosario della nonna mia:
pende e sui sonni miei torbidi o vani
l'ombra distende pia.
Fanciullo il tintinnir mi piacque e il lento
volger di questa coronina antica;
e ancor quando la tocco ancor ne sento
uscir la voce amica
dei cari giorni e dei misteri santi,
che stanno ora confitti al vecchio muro:
che non temon di dotti e di pedanti
il perfido scongiuro.
Serban le perle le ancor calde impronte
delle tue dita, o nonna, ove passasti,
quando inchinata al tuo Signor la fronte
de' tuoi pensier più casti
gli svelavi i tesori intimi, arcani;
onde non morti ancor dopo molt'anni
come piccoli cor' battono i grani
pieni dei santi affanni.
Forse già tutte consumò le nude
ossa la terra e accanto al sasso pio
della tua tomba già forse si schiude
un fior che non è mio;
ma quello che fa tuo spirto immortale
palpita e vive in questo scapolare,
che il ciel congiunge colla terra e vale
per me più d'ogni altare.
Presso qui sta di gravi opere denso
un armadio di libri, che raduna
in poco il mare della scienza immenso
che sta sotto la luna;
che la ragione delle cose amara
mi distilla nel cerebro e l'essenza
com'acido purifica e rischiara
della volgar coscienza;
a cui, del capo urtando al vecchio legno,
chiedo la notte e chiedo il dì la sorte
del viver mio, ma invan chiedo — ed un segno
che plachi un po' la morte:
che tutt'insieme il venerando stuolo
non fa più breccia, quando il cuore assale,
di quel che faccia lento un vermiciuolo
nel logoro scaffale...
Ma tu sol che ti tocchi una dolcezza
versi che definir non san le scuole:
scintilla amor e passa una carezza
su tutto ciò che duole.
Morremo e immota in suo rigor di sasso
starà dei saggi la ragion superba:
tu, povera umiltà, col picciol passo,
ove più dura e acerba
scende la via, sorreggi il piede e il fianco
alla languida vita; e sull'eterna
scala ove trema il pellegrin più stanco
innalzi una lucerna.
(Da "Vecchie cadenze e nuove", Agnelli, Milano 1899)
LA MACCHINA DA CUCIRE
di Guido Mazzoni (1859-1943)
Perché non luccica
Più né si cela
L'ago precipite
Dentro la tela?
Fermò la macchina
Le ruote, ond'era
Tanto ciarliera
E sta in un angolo
Silenziosa;
Lenta la polvere
Su vi si posa.
Le scarne, pallide
Mani a lei note,
Giacciono immote
Per sempre. Oprarono
Le tele estreme:
Sul petto rigide
Han requie insieme.
O si potessero
Sciogliere, aprire.
Per benedire!
Ma pur dal tumulo
Regge e conforta,
Dolce memoria,
La nonna morta.
Essa a la macchina
La giovinetta
Nipote affretta.
Bianchi miracoli
D'orli e costure,
Alacre artefice
Tenta ella pure.
Come rallegrasi
Tutta la stanza,
Se l'ago danza!
Con gaio strepito
La ruota vola;
Qua e là continua
Passa la spola;
L'ago precipite
Dà le puntate
De le gugliate.
E una cerulea
D'occhi fiorita
Ridendo plaude,
Ridendo incita;
Mirano attoniti
L'opera bella
De la sorella,
Che, il volto roseo
Su l'orlo intenta,
Ecco ne gli ultimi
Giri rallenta
La ruota, e timida
Discioglie il vago
Filo da l'ago.
Pensa a la povera
Nonna? Dal chino
Occhio una lacrima
Cade sul lino.
Poi, ne' suoi riccioli
Biondi, repente
Sorge ridente.
(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1913)
A UN BUON CIGARRO
di Ippolito Nievo (1831-1861)
Ier ti deposi all'ora dei sospiri,
all'ora dei sospiri or ti riprendo;
ieri il tuo fumo in indolenti giri
all'aer mesto si venia mescendo.
Né m'accorgea di loro,
né di te che dicevi: «Io moro, io moro».
Oggi le labbra han sete di conforto
né mi consente il cor che ingrato io sia;
e ti favello, e sento ch'ebbi torto
di sprezzar la tua muta compagnia,
povera foglia ardente
che il cor m'incalorisci arcanamente.
Ella mi è tolta, e tu per poco resti,
povera foglia; e bruci e ti consumi.
Così passano i dì sereni o mesti,
come passan per l'aria i tuoi profumi;
e ne riman soltanto,
cenere amara, la memoria e il pianto.
(Da "Gli amori garibaldini", Agnelli, Milano 1860)
IL COLTELLO
di Alfredo Oriani (1852-1909)
Sono lungo, son lucido,
la punta sottile;
mi appiatto in saccoccia,
mi dicono un vile;
mi offusco nell'aria,
non soffro un vicino,
la luce mi è in odio
siccome al buon vino.
Son tacito, gelido,
robusto e leggiero,
la lama bianchissima
nel manico nero,
e quasi somiglio
nell'abito bruno
la monaca pallida
dal santo digiuno.
La spada dal fodero
è lenta ad uscire;
poi romba nell'aria,
bastone al colpire.
Imita la vipera
l'antico fioretto;
ha il guizzo ed il sibilo,
ma io sol son perfetto.
Attendo invisibile
in tasca sdraiato,
immobil nel rischio
mortal nell'agguato
e irrompo, fiammeggio,
baleno, dileguo
nel corpo, nell'anima,
divido, proseguo,
ritorno, rosseggio
scompaio... son muto,
fumante, eppur gelido ;
ho vinto, ho perduto.
Ala senza uno scoppio
di suon, di scintille.
Son chiuso: nel manico
mi restan tre stille —
domani tre macchie;
sarò decorato,
saran le medaglie
che danno al soldato
qual premio di gloria...
ovver saran spie.
Che importa? non mentono
i forti — son mie.
Guerriera è la sciabola,
patrizio il fioretto,
da sbirri o da comici
la daga, il stiletto.
Io sono del popolo:
battendomi attacco,
non paro, non simulo;
mi dicon: vigliacco!
Adoro le tenebre,
gli orrori, i secreti:
son come le nottole,
gli spirti, i poeti.
Severo, immutabile
tal ier, tal domane;
al colpo infallibile,
fedel più di un cane.
Non latro, non mangio
né polver, né palle:
m'avvento alla faccia
al petto alle spalle
e mordo insaziabile.
Pistole strepenti,
o tosse o sbadiglio,
vi cascano i denti;
e inutili, vacue
ad ogni latrato,
buon'arma pel vecchio,
pel vii, pel soldato.
Io sono lo slancio,
la forza, il coraggio,
violenza di fulmine,
fulgore di raggio.
D'intorno mi piovono
condanne e disprezzo;
d'intorno mi semino
paura e ribrezzo...
Coi vinti, coi poveri,
coi servi ribelle:
La vita è una insidia?!
E pelle per pelle...
(Da "Monotonie", Zanichelli, Bologna 1878)
L'ANELLO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)
Nella mano sua benedicente
l’anello brillava lontano.
Egli alzò quella mano, morente:
di caldo s’empì quella mano...
o mio padre, di sangue! L’anello
lo tenne sul cuore mia madre...
o mia madre! Poi l’ebbe il fratello
mio grande... o mio piccolo padre!
Nel suo gracile dito il tesoro
raggiò di benedizïone.
Una macchia avea preso quell’oro,
di ruggine, presso il castone...
o mio padre, di sangue! Una sera,
la macchia volevi lavare,
o fratello? che pianto fu! t’era
caduto l’anello nel mare.
E nel mare è rimasto; nel fondo
del mare che grave sospira:
una stella dal cielo profondo
nel mare profondo lo mira.
Quella macchia! S’adopra a lavarla
il mare infinito; ma in vano.
E la stella che vede, ne parla
al cielo infinito; ah! in vano.
(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1903)
TACCUINO
di Giovanni Prati (1814-1884)
Bruno compagno mio, quando son tristo
e vo pensoso per la via men trita,
io t'ho sovente nella man, provvisto
di fogliolini bianchi e di matita.
E come al giro delle cose assisto,
che porgon lume all'anima romita,
su te depongo il doloroso acquisto
che mi vien dalla morte o dalla vita:
un sogno, un'ombra, una memoria, un detto,
una celia, un sospir, lampi dell'arte,
palpiti della mente e dell'affetto;
seminuli febei, germi in lavoro,
che dentro il campicel delle tue carte
mi fioriscon sovente in mèsse d'oro.
(Da "Poesie varie", Laterza, Bari 1916)
L'ANFORA
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1871-1919)
Vive un dolce ricordo di parole,
sopra un'anfora antica: una tranquilla
luce, per occhi d'or piove il sole
nel silenzio de' vecchi alberi e brilla.
Dice il ricordo: «April, poche viole
qui fioria: e le irrorâr a sitlla a stilla
le mani degli Amanti umili e sole,
d'acqua raccolta al fonte de la Villa.»
Or da molti anni all'ombra quell'aprile
piegò il suo capo luminoso. - Amanti
e viole vanir. - Ma l'infantile
giuoco, l'Anima azzurra de la Villa
sa e ne bisbiglia per le tremolanti
ombre. L'anfora al sol levasi e brilla.
(Da "Il libro dei frammenti", Aliprandi, Milano 1895)