domenica 16 novembre 2025

I rumori nella poesia italiana decadente e simbolista

I rumori, nei versi di questi poeti hanno diverse origini e variegate simbologie. La Aganoor, associa il suono delle sonagliere nel cuore della notte a pensieri “miti” e “mansueti” di “rinuncia”. Un rumore notturno è anche quello udito da Enrico Annibale Butti, seppure di diversa natura: il poeta infatti viene bruscamente svegliato da una sorta di sibilo; difficile è capire quale sia l’origine del rumore percepito dall’uomo, il quale si fa delle domande al riguardo, non trovando alcuna risposta. Notturni sono anche i passi del poeta Dino Campana, che cammina sulla prora di una nave e rimane quasi incantato dal ritmico battere delle sue scarpe sul pavimento dell’imbarcazione. Rimanendo in ambito notturno, inquietante a dir poco è il suono di un misterioso squillo di tromba udito dagli esseri umani di ogni parte del globo terrestre che, spaventati da quell’intenso e improvviso rumore si riversano sui campi e sulle strade cittadine in cerca dell’origine di quel suono che si perpetua in una notte infinita, e sembra annunciare la fine del mondo. Ancora la notte, e ancora dei rumori inquietanti sono i protagonisti della poesia di Satta, dove il poeta non può riposare perché infastidito e tormentato dal martellare continuo di un corvo su “rotte rupi”, così come dal ronzio ininterrotto del fuso che fila una parca: entrambi i rumori simboleggiano qualcosa di sinistro, forse le ossessioni che angustiano lo stesso poeta. Assillante, continuo e infinito è anche il rumore provocato dai colpi di un’accetta, proveniente dalla parte più profonda di un parco, presente nella poesia di Guelfo Civinini; ovviamente è misteriosa l’origine di questi colpi, anch’essi di valore simbolico. Il ronzio di un bombo che sbatte sul vetro esterno della finestra di una casa, diviene, nella poesia del Pascoli, qualcosa di particolarmente enigmatico: è come se l’insetto cercasse di entrare nell’abitazione del poeta, perché fortemente intenzionato a riferirgli una notizia importante, che lo riguarda direttamente; oppure nel bombo potrebbe essersi reincarnata una persona deceduta, cara al poeta, ansiosa di rimettersi in contatto con lui. Due tarli: uno reale ed uno simbolico, sono i protagonisti della poesia di Arturo Colautti; il primo è quello che erode il legno del vecchio letto che si trova nella casa dove vive, e dove vissero i suoi antenati; il secondo invece dimora nella testa del poeta, e scava anche lui – non il legno ma il cervello del malcapitato – che si affligge perché incerto sulla sincerità dell’amore dichiaratogli dalla donna che lui sa di amare alla follia.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Vittoria Aganoor: "Sonagliere" in "Nuove liriche" (1908).

Ugo Betti: "Il cuore sepolto" in "Il Re pensieroso" (1922).

Enrico Annibale Butti: "Sonno interrotto" in "Dai nostri poeti viventi" (1903).

Dino Campana: "Batte botte" in "Canti Orfici" (1914).

Enrico Cavacchioli: "Rêverie" in "L'Incubo Velato" (1906).

Francesco Cazzamini Mussi: "Veglia" in «Poesia», ottobre 1909.

Giovanni Alfredo Cesareo: "Il campanello" in "Poesie" (1912).

Guelfo Civinini: "L'accetta" in "I sentieri e le nuvole" (1911).

Arturo Colautti: "Il tarlo" in "Canti virili" (1896).

Alessandro Giribaldi: "Su l'alba" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).

Arturo Graf: "Lo squillo" in "Morgana" (1901).

Angiolo Orvieto: "Selva e mare" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Aldo Palazzeschi: "La ferita del silenzio" in "I cavalli bianchi" (1905).

Giovanni Pascoli: "Il nunzio" in "Myricae" (1900).

Francesco Pastonchi: "Tramontata è la luna" in "Il pilota dorme" (1913).

Antonio Rubino: "Cavalcata" in «Poesia», ottobre 1908.

Sebastiano Satta: "Notte tra i monti" in "Canti barbaricini" (1910).

Mario Venditti, "Notturno" in "Il terzetto" (1911).

 

 

 

Testi

 

LA FERITA DEL SILENZIO

di Aldo Palazzeschi

 

Fa un lento romore costante

la fonte ch'è sotto l'arcata del ponte

che il monte riunisce pel passo dei treni.

 

(da "I cavalli bianchi. Lanterna. Poemi", Empirìa, Roma 1996, p. 27)

 

 

 

 CAVALCATA

di Antonio Rubino

 

Varca i cieli un velario di festoni

straziato dal vento a brano a brano:

in sui confini dei settentrioni

rigurgita di nembi l'uragano.

 

Le mostruose conflagrazioni

covano un sordo brontolio lontano:

flagella il vento gli ermi torrioni

dell'erma rupe, mugolando vano.

 

Ma un inno, un corruscar d'armi lucenti,

vivi rompendo dai più folti grembi,

pervadono il dominio dei venti;

 

qual fremito di trilli e di nitriti

corre, o Notte, la tua chioma di nembi,

o Notte, o madre dei cantanti miti?

 

(da «Poesia», ottobre 1908, p. 5)

 

 

Ferdinand Hodler," Holzfaeller"
(da questa pagina Web)

domenica 9 novembre 2025

Antologie: "Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995"

 Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995 è il titolo di un'antologia che fu pubblicata nella collana dei Meridiani della Mondadori di Milano nel 1996; i curatori dell'opera sono Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi. Personalmente ricordo che, subito dopo l'uscita di questo libro, uno dei due curatori partecipò ad una trasmissione televisiva di Rai Tre, il cui argomento principale era la letteratura; io guardavo regolarmente questo programma che, se non erro, andava in onda dal lunedì al venerdì; quel giorno, insieme al curatore dell'antologia, erano presenti nello studio televisivo diversi poeti inclusi o meno nelle pagine dell'antologia citata; rimasi colpito dalle accese discussioni, nate sulla struttura e su altri dettagli riguardanti questo nuovo libro, che evidentemente non piacque a tutti. Io non mi feci certamente influenzare da tali discussioni e, qualche giorno dopo mi recai in una libreria ad acquistare l'opera antologica, sapendo che vi avrei trovato cose interessanti. Così, ebbi modo di fare ulteriori scoperte, nell'ambito della poesia italiana del secondo Novecento. Il periodo preso in considerazione, giustamente parte dal 1945: anno cruciale per l'Europa e per il mondo intero, perché fu proprio nel '45 che terminò la guerra più devastante del XX secolo. Il termine, per far sì che venga considerato un intero cinquantennio, è il 1995. La selezione comprende in tutto sessanta poeti ed è divisa in dodici sezioni; si parte dai "maestri", ovvero dalla generazione dei poeti nati negli anni Dieci del Novecento, e che poeticamente esordì prima del 1945; si arriva agli "Anni Ottanta", ossia alla generazione di coloro che nacquero negli anni Cinquanta. Soltanto due poeti: Andrea Zanzotto e Giovanni Giudici, occupano intere sezioni a loro dedicate. Sempre parlando personalmente, furono tre gli scrittori che "scoprii" grazie a quest'antologia: Giampiero Neri, Michele Ranchetti e Giuseppe Piccoli; presenti in sezioni diverse, questi poeti sono stati sicuramente trascurati dai critici, almeno per quel che concerne la fase iniziale della loro attività poetica; qualcuno, sebbene in ritardo, è stato in seguito rivalutato e consacrato ed oggi gode di buona fama; qualcun altro, scomparso prematuramente, ancora oggi è negletto. Da leggere attentamente sono sia l'introduzione che le presentazioni dei poeti, scritte dai due curatori dell'opera; meticolosa e dettagliata è la parte intitolata Profili biobibliografici degli autori, che si trova a conclusione del libro. Chiudo, come sempre, riportando i nomi di tutti i poeti compresi in quest'antologia, inseriti nelle sezioni di cui ho parlato. 



POETI ITALIANI DEL SECONDO NOVECENTO






LA PRESENZA DEI MAESTRI

Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni.


OFFICINA

Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, Roberto Roversi.


QUARTA GENERAZIONE

Luciano Erba, Nelo Risi, Bartolo Cattafi, Giorgio Orelli, Rocco Scotellaro, Maria Luisa Spaziani, Umberto Bellintani, Alda Merini.


ZANZOTTO, L'ONTOLOGIA DEL LINGUAGGIO

Andrea Zanzotto.


L'AVANGUARDIA

Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Amelia Rosselli.


GIUDICI, LA VITA IN VERSI

Giovanni Giudici.


L'ETICA DEL QUOTIDIANO

Giovanni Raboni, Giancarlo Majorino, Giampiero Neri, Giorgio Cesarano, Tiziano Rossi.


QUATTRO PERCORSI APPARTATI

Lucio Piccolo, Lorenzo Calogero, Fernando Bandini, Michele Ranchetti.


IN DIALETTO

Tonino Guerra, Albino Pierro, Franco Loi, Raffaello Baldini, Franco Scataglini.


NARRATORI POETI

Elsa Morante, Giorgio Bassani, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Alberto Bevilacqua, Nico Orengo.


IL PUBBLICO DELLA POESIA

Dario Bellezza, Cesare Viviani, Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Gregorio Scalise, Giuseppe Conte, Mario Santagostini, Giuseppe Piccoli, Biancamaria Frabotta, Paolo Ruffilli, Vivian Lamarque.


ANNI OTTANTA

Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Roberto Mussapi, Gianni D'Elia.

domenica 2 novembre 2025

'A livella

 Non è certamente il caso di spendere ulteriori parole riguardanti lo straordinario e direi ineguagliabile talento che appartiene all'attore Totò (pseudonimo di Antonio De Curtis, Napoli 1898 - Roma 1967); in questo post voglio invece ricordarlo come artista a tutto tondo, ovvero come poeta (fu anche autore di canzoni famose come Malafemmena). Non sono sicuramente io a scoprire Totò da questo punto di vista, poiché la poesia di seguito riportata, è assai celebre, probabilmente più di tante altre scritte da poeti insigni. È - come tutte le altre di Totò - in dialetto napoletano, ma questo non significa minimamente che vi siano delle parti poco chiare. Il tema di 'A livella - così s'intitola la poesia, prendendo a simbolo uno strumento di misura utilizzato per determinare la pendenza di una superficie rispetto a un piano orizzontale di riferimento -, è quello della morte quale equiparatrice di tutte le ineguaglianze della vita. In un cimitero, nel giorno della commemorazione dei defunti, un uomo per caso si ritrova presso due tombe assai differenti tra loro; all'interno ci sono i corpi e le anime di due personaggi appartenenti a ceti sociali totalmente opposti: un marchese e uno spazzino. Il marchese è sepolto all'interno di una tomba lussuosa, ornata da vistosi lumi e da fiori particolarmente belli; lo spazzino invece è stato seppellito sotto un mucchio di terra, e per ricordarlo ci sono solamente un lumicino e una scabra croce di legno con su scritto a mala pena il suo nome. Nei versi di Totò è come se, dopo il trapasso, le anime del marchese e dello spazzino dimorassero proprio nelle loro tombe, e avessero quindi anche il modo d'incontrarsi e colloquiare. È ciò che accade quel giorno davanti agli occhi increduli dell'occasionale visitatore; tra i due fantasmi nasce una discussione, poiché il marchese si lamenta della presenza - accanto al suo sepolcro - di una tomba così misera, che nulla ha a che vedere con la sua; dopo aver sollecitato lo spazzino ad allontanarsi da lui, e dopo che quest'ultimo ha umilmente presentato le sue scuse al marchese, attribuendo la colpa dell'accaduto alla moglie, i toni si alzano e in seguito alle reiterate lamentele del marchese, il poveruomo reagisce in modo rabbioso, cercando di far comprendere all'altro defunto quale sia la realtà dei fatti: in vita esistono i marchesi e gli spazzini ovvero i ricchi e i poveri, ma una volta giunta la morte, tutti quanti sono uguali e non esistono differenze sociali; le tombe sono state edificate dai vivi, e rappresentano quei valori sbagliati che secondo i viventi hanno gli individui: i ricchi sono sepolti in tombe monumentali, i poveri sotto un po' di misera terra. Il fatto è che i morti, dovunque si trovino i loro tumuli, non solo sono impossibilitati a qualunque azione, ma - secondo il pensiero di Totò - hanno o dovrebbero avere atteggiamenti più realistici e consapevoli perché, come recita l'ultimo verso della poesia: nuje simmo serie... appartenimmo â morte!



'A LIVELLA


Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza

per i defunti andare al Cimitero.

Ognuno ll'adda fa' chesta crianza;

ognuno adda tené chistu penziero.


Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,

di questa triste e mesta ricorrenza,

anch'io ci vado, e con dei fiori adorno

il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.


St'anno m'é capitato 'n'avventura...

dopo di aver compiuto il triste omaggio

(Madonna!), si ce penzo, che paura!

ma po' facette un'anema e curaggio.


'O fatto è chisto, statemi a sentire:

s'avvicinava ll'ora d''a chiusura:

io, tomo tomo, stavo per uscire

buttando un occhio a qualche sepoltura.


«QUI DORME IN PACE IL NOBILE MARCHESE

SIGNORE DI ROVIGO E DI BELLUNO

ARDIMENTOSO EROE DI MILLE IMPRESE

MORTO L’11 MAGGIO DEL TRENTUNO.»


'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...

...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;

tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:

cannele, cannelotte e sei lumine.


Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore

nce stava 'n ata tomba piccerella,

abbandunata, senza manco un fiore;

pe' segno, sulamente 'na crucella.


E ncoppa 'a croce appena se liggeva:

«ESPOSITO GENNARO NETTURBINO».

Guardannola, che ppena me faceva

stu muorto senza manco nu lumino!


Questa è la vita! 'Ncapo a me penzavo...

chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!

Stu povero maronna s'aspettava

ca pur all'atu munno era pezzente?


Mentre fantasticavo stu penziero,

s'era ggià fatta quase mezanotte,

e i' rimanette 'nchiuso priggiuniero,

muorto 'e paura... nnanze 'e cannelotte.


Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano?

Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...

Penzaje: stu fatto a me mme pare strano...

Stongo scetato... dormo, o è fantasia?


Ate che fantasia; era 'o Marchese:

c'o' tubbo, 'a caramella e c''o pastrano;

chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;

tutto fetente e cu 'na scopa mmano.


E chillo certamente è don Gennaro...

'omuorto puveriello...'o scupatore.

'Int' a stu fatto i' nun ce veco chiaro:

so' muorte e se ritirano a chest'ora?


Putevano stà 'a me quase 'nu palmo,

quando 'o Marchese se fermaje 'e botto,

s'avota e, tomo tomo... calmo calmo,

dicette a don Gennaro: «Giovanotto!


Da Voi vorrei saper, vile carogna,

con quale ardire e come avete osato

di farvi seppellir, per mia vergogna,

accanto a me che sono blasonato?!


La casta è casta e va, sì, rispettata,

ma voi perdeste il senso e la misura;

la vostra salma andava, sì, inumata;

ma seppellita nella spazzatura!


Ancora oltre sopportar non posso

la vostra vicinanza puzzolente.

Fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso

tra i vostri pari, tra la vostra gente».


«Signor Marchese, nun è colpa mia,

i' nun v'avesse fatto chistu tuorto;

mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,

i' che putevo fa' si ero muorto?


Si fosse vivo ve farrie cuntento,

pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse,

e proprio mo, obbj'... 'nd'a stu mumento

mme ne trasesse dinto a n'ata fossa.»


«E cosa aspetti, oh turpe malcreato,

che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?

Se io non fossi stato un titolato

avrei già dato piglio alla violenza!»


«Famme vedé… - piglia 'sta violenza...

'A verità, Marché', mme so' scucciato

'e te sentì; e si perdo 'a pacienza,

mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...


Ma chi te cride d'essere... nu ddio?

Ccà dinto, 'o vvuò capì, ca simmo eguale?...

...Muorto si' tu e muorto so' pur'io;

ognuno comme a 'na'ato è tale e qquale.»


«Lurido porco!... Come ti permetti

paragonarti a me ch'ebbi natali

illustri, nobilissimi e perfetti,

da fare invidia a Principi Reali?»


«Tu qua' Natale... Pasca e Ppifania!!!

T''o vvuo' mettere 'ncapo... 'int''a cervella

che staje malato ancora e' fantasia?...

'A morte 'o ssaje ched'è?... è una livella.


'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo,

trasenno stu canciello ha fatt''o punto

c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme:

tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?


Perciò, stamme a ssentì... nun fa' 'o restivo,

suppuorteme vicino - che te 'mporta?

Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:

nuje simmo serie... appartenimmo â morte!»


(da 'A livella e Poesie d'amore, Newton Compton, Roma 1995, pp. 31-35)




domenica 26 ottobre 2025

Poeti dimenticati: Tullio Colsalvatico

 Tullio Colsalvatico è lo pseudonimo con cui artisticamente si firmò Tullio Pascucci (Camporotondo 1901 – Tolentino 1980): poeta e narratore marchigiano che visse a Roma in gioventù e nella capitale italiana conobbe diversi intellettuali che lo incoraggiarono ad iniziare la sua attività letteraria, la quale si concretizzò dapprima in collaborazioni saltuarie a riviste nazionali ed estere, per proseguire con pubblicazioni di volumi di versi, romanzi e novelle. Nelle liriche di Colsalvatico (come afferma, tra le altre cose, il poeta Davide Rondoni nella prefazione che precede una raccolta antologica del poeta marchigiano) spesso si nota uno stupore ed una malinconica sorpresa di fronte alla bellezza dei colori che contraddistinguono i luoghi dove lo scrittore nacque e trascorse gran parte della sua vita. Sempre Rondoni, avvicina i versi di Colsalvatico a quelli di Camillo Sbarbaro, del primo Giorgio Caproni, del giovane Attilio Bertolucci e dell’ultima Ada Negri. Certamente, quella del poeta marchigiano è una poesia di ottima qualità, che andrebbe perciò maggiormente ricordata.

 

 

Opere poetiche

 

“L’anima bagnata di lacrime”, Tip. Filelfo, Tolentino 1924.

“Domani riprenderò la mia strada”, Tip. Filelfo, Tolentino 1925.

“Rapsodia Prima”, Sperling-Kupfer, Milano 1937.

“Rapsodia Seconda”, Sperling-Kupfer, Milano 1939.

“Strada d’argento”, Bardi, Roma 1950.

“La casa perduta”, Istituto “La Casa”, Milano 1954.

“Trasparenze”, Ceschina, Milano 1966.

“Solitudini”, Ceschina, Milano 1969.

“Montefano”, Città Armoniosa, Reggio Emilia 1978.

“Poesie (1954-1978)”, Circolo Culturale “Tullio Colsalvatico”, Tolentino 2001.

 

 


 

Testi

 

 

SORRISO

 

Bastò un sorriso che gettasti ignara

perch'io dimenticassi di quel giorno

e d'altri giorni un tragico presagio.

Or ti cerco ogni volta ch'è più greve

il mio peso, e smemoro al ricordo.

Ma se ti penso so che ti ho perduta

senza mai averti, e accresci la mia angoscia.

 

(da "Strada d'argento", Bardi, Roma 1950, p. 36)

 

 

 

 

SPIRA UN GELIDO VENTO

 

Sospeso in aria dalle nebbie, il treno

s'appende al fischio, che ferisce il buio.

La stazioncina aspetta rivestita

di luci, e tu mi guardi con stupore:

la muta sofferenza cambia il volto.

Arde una vita dietro ogni parola…

che si perde nel fremito del pianto.

Dietro di te la casa s'allontana

più che non il tuo passo la distacchi.

Non sei partita e già vivo il ritorno.

Il tuo ricordo è il mio solo domani.

 

(da "Trasparenze", Ceschina, Milano 1966, p. 59)

 

 

 

 

CONSUNTO DAI RICORDI

 

Consunto dai ricordi di una vita

che non vissi, cammino sotto il peso

di ciò che non ho più; tutto m'è ignoto

e, più d'ogni altra cosa, il nostro cuore.

Della mia pena, Dio, non ho saputo

farne un canto, ma un rauco urlo nel vuoto.

Per ardue forme di cristallo, il sogno

cercato ha invano il suo slancio perenne.

 

(da "Solitudini", Ceschina, Milano 1969, p. 41)

domenica 19 ottobre 2025

La poesia di Nino Oxilia

 Angelo Oxilia (Nino era il suo nome d'arte) nacque a Torino nel 1889 e morì sul Monte Tomba, durante un cruento combattimento nel corso della Prima Guerra Mondiale, nel novembre del 1917. Il primo sanguinosissimo conflitto bellico che sconvolse l'Europa, portandosi via un numero altissimo di giovani uomini, pose fine a una vita artistica decisamente geniale e in fase evolutiva, quale era quella di Oxilia: un talento poetico, ma anche e soprattutto teatrale e cinematografico, visto che fu l'autore, insieme a Sandro Camasio (1886-1913), della celebre commedia Addio giovinezza!; significative anche le sue partecipazioni, da sceneggiatore, aiuto regista e regista, in diverse pellicole del secondo decennio del XX secolo. Oxilia, dopo aver pubblicato dei versi su qualche rivista piemontese, debuttò ufficialmente nel mondo della poesia italiana a venti anni, con una raccolta che mostra le sue vicinanze al crepuscolarismo, e in particolare a quell'ambiente torinese di giovani scrittori che frequentarono le lezioni di storia della letteratura, tenute in un'aula dell'Università di Torino da Arturo Graf nei primi anni del Novecento. Purtroppo, a causa della sua precoce dipartita, Oxilia non fece in tempo a pubblicare un secondo volume di versi, uscito postumo e incompleto un anno dopo la sua scomparsa. Qui, si nota un drastico cambiamento, sia dello stile che delle tematiche; pur rimanendo fedele agli stilemi crepuscolari, Oxilia inserisce spunti decisamente moderni, che lo avvicinano al Futurismo; inoltre si fa sempre più evidente una propensione all'ironia e allo sbeffeggiamento, che probabilmente derivano da illustri poeti più o meno coetanei come Gozzano e Palazzeschi. Quello che si può affermare con pressoché assoluta certezza, è che Oxilia, dotato di un talento artistico non indifferente, se non fosse caduto durante la guerra, avrebbe proseguito la sua carriera teatrale, cinematografica e poetica, elaborando e sviluppando ancor di più i suoi lavori in chiave modernistica. Ma il suo vigoroso ed entusiasta percorso - e ciò rammarica alquanto - fu interrotto da una stupida, inutile e quanto mai sanguinosa guerra, simile a tutte quelle che la precedettero e la seguirono, e che causarono solamente lutti su lutti. Chiudo riportando i titoli delle opere poetiche di Oxilia, seguiti da tre sue composizioni in versi.


Sandro Camasio e Nino Oxilia



Opere poetiche


"Canti brevi", Spezia, Torino 1909.

"Gli orti", Alfieri & Lacroix, Milano 1918.

"Poesie", Guida, Napoli 1973.



Testi


O MIO CUORE...


O mio cuore, o mio cuore dai fremiti selvaggi

che a la voragine guati 


e ridi e soffri e ghigni del vuoto ove cadrai

con tutti gli altri cuori,


povero vecchio cuore, il pianto che ti viene

è quello della vita.


Ascolta ancora e sempre. Pria di cader nel buio 

discernerai le voci.


Voci lunghe di pianto e ululati di vinti,

risa livide e bieche.


Il fischio dell'egoismo, il tremito dell'ira,

le melodie dell'odio.


Orgoglio e gelosia, invidia, accidia, insidia,

forte tra sé cozzanti.


Il banchetto di Satana sugli avanzi di Dio:

dopo il prete becchino.


O mio cuore saluta quella forza che rugge,

inchinati e saluta!


Tu non sei degno ancora della città sovrana,

attendi o cuore e impara.


(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, p. 43)





IO PORTO IN ME UN'OASI DI LUCE


I

Noi andavamo. La notte in alto moriva, trafitta

da piccole stelle rare.

L’automobile chiusa parea scivolare

nella tenebra fitta.

Pareva scivolare come oasi di luce errabonda

e il riflesso svelava all’improvviso

un casolare, un viso,

apparsi, riassorbiti nella tenebra profonda.

Tu, rannicchiata tra i cuscini bianchi,

illimitavi nell’oasi di luce la testa bionda

e gli occhi stanchi.

Tuo marito nel frac

pareva più corpulento

e discorreva con viso contento

delle vergogne del Parlamento

e degli articoli di Rastignac.

Tu sorridevi... Fuori la notte senza vento.

Dentro la luce sui lisci legni e i velluti, tra

i cristalli e i cuscini: un’illusione palese

di immobile velocità...

Tu sorridevi... Il cane giapponese

ti mordeva la caviglia

sottile.

E tuo marito discorreva: «Oxilia,

creda. La folla è vile.

Occorre un gesto. Bisogna decidere.

Un gesto...».

                     Tu continuavi a sorridere.

E l’oasi di luce vagabonda

svelava all’improvviso alberi in fuga

nella tenebra profonda...

— «Sì, certo. Lottare, educare

le masse...». Una piccola ruga

sulla tua chiara fronte lineare

palpitò lieve

come va l’ombra d’un insetto alato

sulla neve...

— «È un dovere portarsi a deputato».

I piccoli denti del cane

strisciavano sulla seta lucida

della caviglia sottile.

L’oasi di luce rivelò lontane

chiome di pini, un arco, un campanile,

una casa sucida.

E cantammo le canzoni napoletane.



II

Come le suore in atto di preghiera 

premono tra palma e palma 

l'immagine della Vergine Maria, 

così porto nel mio cuore 

un'oasi di luce, un'armonia, 

di sorriso e di calma.

E più profonda è l'ombra, più riluce.

La porto nella pace e nella guerra,

tra gli esseri diversi, ove si vive

e si piange e si spera;

per le pianure della terra,

per i viottoli della chimera;

tra donne caste e femmine lascive;

tra le ortiche e tra i rosai;

ove il cuore s'infanga, ove s'inciela;

e l'oasi di luce mi rivela

cose che gli altri non han visto mai.

La porto nelle bolge 

dell'acciaio, tra i tentacoli

vibranti

della folla onesta o truce,

nell'impeto del tempo che travolge,

e più sono gli ostacoli

difficili a superarsi,

più godo a balzi ferini

divorare lo spazio,

perché sento illimitarsi

la serena oasi di luce

come un lago che sconfini

nel mio cuore di topazio.


(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, pp. 113-115)





MA NON LE DISSI NULLA...


Le nubi erano chine

sugli alberi violetti come l'onda

delle sue ciglia sopra la profonda

orbita azzurra. - Delle sue divine

forme la grazia acerba

modellava la veste

del colore che ha il collo del pavone.

Come una ninfa agreste

Ella sedea sull'erba.

Era il mattino: il tempo delle buone

frutta e dei baci e dei madrigaletti.

Ella taceva e ai lenti gesti stanchi

suonavano i suoi venti braccialetti

sui polsi bianchi.


Il suo cache-nez sbattendo i lembi gialli

m'inebriava gli occhi.

Ella tenea le mani sui ginocchi

uniti e sulle mani il volto pallido. -

...Ma non le dissi nulla.


Si chiudeva sugli alberi più basso

il gioco delle nubi e sui sereni

occhi le ciglia molli. Sulle reni

si drizzò, si levò, Ella. Ed il passo


dei suoi piccoli piedi ridea sulla

verde pianura in atto

leggiadro. Il cuor mi si confuse, a un tratto.

Ma non le dissi nulla.


Poi della veste un lembo,

mi sfiorò lieve e ne tremai. Con molto

garbo appoggiata a un tronco di betulla,

Ella prese a cantare

acconciando sul grembo

i fiori che aveva raccolto:

io mi sentii mancare.

Ma non le dissi nulla.


Io non le dissi nulla e non mi mossi

perché un nuovo pensiero mi teneva.

Ella correva

sotto i penduli rami e tra le foglie,

dietro i cespugli rossi.

Ed io pensavo. Ella sarà mia moglie.


E pur oggi, al ricordo

di quel giorno di calma,

io non corro alla casa di sua madre,

ma battendo palma a palma

tento il ritmo di un accordo

con rime leggiadre,


perché nel nostro amore musicale

tutta la nostra vita è travolta

senza parole, come qualche volta

io travolgo il mio palpito mortale

in una lirica sciolta.


(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, pp. 143-144)


domenica 12 ottobre 2025

Le campane in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Ho sempre amato il suono delle campane, e i primi ricordi che ho in tal senso, naturalmente, sono legati al periodo infantile. Era piuttosto lontana dall'abitazione della mia famiglia l'unica chiesa presente nella frazione in cui vivevo e vivo: soltanto quando ero  nei pressi della casa dei nonni materni riuscivo a udire i lievi rintocchi delle campane, proveniente dalla Basilica di Sant'Aurea. Ma quante volte mi trovai proprio davanti a questo piccolo ma incantevole edificio religioso, e potei sentire ben forte quel suono caratteristico, che col tempo divenne familiare. Era il periodo in cui frequentavo la chiesa perché andavo regolarmente a messa, oppure perché ero un catechista. Da allora, credo, cominciai ad amare il suono delle campane, e negli anni seguenti - quelli della giovinezza e della maturità - ricordo di averlo ascoltato sempre con piacere, dovunque mi trovassi e per quanto fosse forte o fievole. È una sorta di balsamo per l'anima, e mi trasmette una dolcezza interiore imparagonabile, così come una sensazione di pace e di tranquillità che, forse, neppure una musica soave può eguagliare. Oggi non mi succede quasi più di ascoltare quel dolce suono, ammenoché mi trovi in qualche borgo sperduto dell'entroterra italiano. Penso che alle nuove generazioni sia del tutto estraneo il fascino mistico del suono delle campane. 



LE CAMPANE IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



CAMPANA D'ALBA

di Francesco Arcangeli (1915-1974)


Che sono addormentati i campanari

in buie stanze ancora, angeli in bianche

rustiche vesti scendono, su stanche

corde vanno tentando con amari


sorrisi un tremito.


                             Corre le pale,

sugli altari di Rimini, un respiro

d'ultima estate, in un piccolo giro

d'orizzonte è già nato maestrale.


               *


Risorge il canto della voce sola

e angelica, brandisce in cielo il nome

triste e fiero che porti. Non consola


più di sé il volto diafano, le chiome

non han più cenere soave. Sola

voce, e condanna dolcemente, un nome.


(da "Polvere del tempo", Vallecchi, Firenze 1943, p. 77) 





CAMPANE DI SERA

di Sandro Baganzani (1889-1950)


Andare mi piace

per questa distesa di orti

a macchie verdi-rosse

con gli alberi dei peschi morti

che si specchiano nelle fosse,

col campanile all'orizzonte che taglia

l'oro smunto della nuvolaglia

al tramonto.


Cavedagna tra due siepi

di spine aguzze del Signore

che sa appena d'umidore

di terra vangata,

dove il fiume giunge appena

con la sua girovaga cantilena.


Cosa mi conti?

Bene stassera si tace e si ascolta

già che i monti

s'incappucciano d'ombria distante.


Chi ci starà lassù,

si siede davanti la tavola

tutti insieme, senza pensieri.

C'è l'orto

c'è il fuoco,

c'è il pane,

anche c'è il cane che si chiama

Fido.


È la mia casa.

Pensa, la casa mia, la nostra casa

senza malinconia.

Si andrebbe su bel bello

al suono delle campane…

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Campane randagie per il cielo

che singhiozzano

a torrenti versando

il rombo insistente

da non so dove, dal buio,

sul mio capo forse sospese,

che ci fermiamo d'improvviso ad ascoltare

con un brivido per tutto il corpo,

come suonassero a morto,

Amore, Tristezza,

per noi

che non troviamo la via

d'arrivare lassù!


(da "Senzanome", Mondadori, Roma-Milano 1924, pp. 147-150)





C'È, A NOTTE, UNA CAMPANA

di Mario Bergomi (1913-?)


C'è, a notte, una campana

che più nessuno ascolta;

entro una tomba d'aria,

da secoli, sepolta.


Una campana enorme

e crepolata e ròsa,

che tutto il giorno dorme

nella sua torre ignota.


Poi, come in gran volume

d'acque oscillando sola,

gorgoglia il suo rintocco

notturno, entro la gola.


E le campane intorno

vibrano, come in onda

affioran morti cerchi,

se un morto peso affonda.


(da "Le liriche", Vallecchi, Firenze 1947, p. 27)





LE CAMPANE

di Ugo Betti (1892-1953)


Quando le città prendono fuoco, a sera,

Ognuno esce dal covo come una fiera.

Le donne, vestite di seta vermiglia,

Hanno un riso, battono le ciglia...

Ognuno ride, i denti hanno un bagliore... 

— O fratello, tra le tue braccia

Che porti, come una grave bisaccia?

— Porto il mio cuore!

E nel fuoco lo voglio buttare

Perché nel fuoco si deve consumare! —

Allora dall'ombra, cauto come un lupo,

Ognuno esce col suo cuore cupo.

Intanto le campane si mettono a suonare

Perché si fa buio, e s'ha da pregare.


Ma quando l'alba appare alle finestre,

Hanno un brivido, i lumi rossi delle feste!

Tra le cortine s'affaccia un biancore...

E ognuno si ritrova col suo cuore!

Ognuno si volta come ad una voce...

E si ritrova inchiodato alla croce!

Ognuno si volta, come toccato sulla spalla

E vede la faccia bianca dell'alba!

Intanto le campane si mettono a suonare

Perché si fa giorno, e s'ha da pregare.


(da "Il Re pensieroso", Treves, Milano 1922, p. 61)





AVE

di Dina Ferri (1908-1930)


Mormoravano lievi campane,

mormoravano: Ave! Lontane.

E passava nel cielo vermiglio

un sospiro, un odore di giglio.

E solinga cantò capinera;

cosa disse alla brezza di sera?


(da "Quaderno del nulla e altri testi", Le Lettere, Firenze 2020, p. 41)





LE CAMPANE

di Corrado Govoni (1884-1965)


Nel mio cuore, in un gran celeste,

da solitudini lontane

piangono piangono campane

l'addio di sconosciute feste.


E tutte le onde del dolore

e le vicine e le lontane

sotto quel pianto di campane,

cozzan lo scoglio del mio cuore.


E tutte e tutte le tristezze

dalle profondità lontane

salgono al pianto di campane

nel cuor con tutte le amarezze.


E il cuore sotto il peso affonda

mentre il pianto de le campane

ora vicine ora lontane

lo culla adagio come un'onda.


(da "Gli aborti", Taddei, Ferrara 1907, pp. 117-118)





LE CAMPANE

di Tilde Nardi (1923-?)


Le campane della domenica

colla bocca spalancata

sia pioggia sole o vento

di buon mattino

a mezzodì

vanno vengono su e giù

su e giù

come rondini a vespro.

Più non squillano: levati va'

nella casa del Signore

a cantarne le laudi

tu, creatura prediletta,

in purezza ed umiltà,

a render grazie per la casta suora

acqua, per l'aere nubilo e sereno

per la terra paziente

e lo scintillìo delle notti.

Per la gioia, il dolore e la morte

di': sia fatta la Tua volontà.

Ma invitano: levati porta

uomo, tra il freddo balenìo dei marmi

tra gli ori appannati

nell'agonia dei ceri

nella frusciante penombra porta

l'arido cuore.

Vieni a muovere le labbra

anche se i balbettii non hanno eco

in te, se smarriti a mezza via

la navata li inghiotte e li frantuma,

se il pensiero ti vola impaziente

a ciò che lasci alla soglia.

Uscirai santificato

per sette giorni interi

da mezz'ora di genuflessioni

e da una goccia d'acqua

sulla fronte e sulle dita.


(da "Colore del tempo", Ricciardi, Milano-Napoli MCMLV, pp. 8-9) 





SUONATE SUONATE CAMPANE

di Mario Novaro (1868-1944)


                                                 a Italo Scovazzi

Suonate suonate campane

dei giorni quando ero fanciullo.

Sì è questo il sole di allora

è questo delle apriche

fasce d'ulivi il solitario riso.

Concilïato è il cuore col mondo,

passata ogni tempesta.

Il cielo è così festivo e puro, il mare in pace

e l'anima s'invola.


(da "Murmuri ed echi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1994, p. 126)





NELLA GRANDE CAMPANA VERDE

di Giorgio Vigolo (1894-1983)


Nella grande campana verde

della torre abbandonata

un pavone ha fatto il nido

un bel pavone turchino.


Quando sono entrati i soldati

hanno bivaccato

intorno alla torre abbandonata.

Era sera. Hanno veduto

la grande campana verde

da cent'anni non suonava più.


Si sono appesi alla fune.

Allora è volato via, per aria

il bel pavone turchino

e non è tornato più


(da "Lirismi. Scritti poeti giovanili 1912-1921", a cura di Magda Vigilante, Edizioni della Cometa, Roma MMIII, p. 61)





LA CAMPANA

di Mario Vugliano (1883-1964)


Fievole or sì, or no, mi reca il vento

nell'ombra vespertina una lontana

soave e mesta voce di campana

singhiozzante in un tremito d'argento.


Dan, dan, dan... forse vien da un convento:

la suona un frate nella chiesa vana;

forse romba sui monti qualche frana,

nel mondo giacque qualche umano spento.


Dan, don, dan, don..., pietà, pietà, Signore,

per quei che cadde vinto nella guerra,

pace, pietà per quei che nasce o muore.


Tutto il divino bene che rinserra

soavemente l'urna del tuo cuore,

sparga, o Signore, sopra questa terra.


(da «La Riviera Ligure», ottobre 1904)


Carlos Schwabe, "Cloches du soir"
(da questa pagina Web)