domenica 15 giugno 2025

Invocazione

 Invocazione è il titolo della prima poesia della raccolta Dialoghi d'Esteta, di Romolo Quaglino (Milano 1871 - ivi 1938). Occupa le pagine 3, 4 e 5 del volume che fu stampato dall'editore Treves di Milano 1899. Tale libro rappresenta, secondo l'opinione di vari critici, una delle opere poetiche più importanti del simbolismo italiano. Questa poesia è, sostanzialmente, un inno dedicato all'Opera, ovvero alla creazione poetica. Già dalle prime battute, l'Opera viene paragonata ad una serie di concetti alti, che comprendono l'estasi sensoriale a tutto tondo; nello stesso tempo essa viene associata a qualcosa di immateriale, di rarefatto e di misterioso. Nella seconda parte della poesia, Quaglino precisa maggiormente la sua concezione di “Opera”, mettendo in risalto anche lati che potrebbero essere definiti "negativi", ma che comunque contribuiscono ad elevarla, a renderla perfetta; qui entra in gioco anche la natura, che è parte stessa dell'Opera e che è determinante in tutte le sue forme esistenti, in tutti i suoi sterminati luoghi e le sue infinite manifestazioni. La terza parte è parzialmente simile alla seconda, ma il poeta qui cerca di mettere in maggior risalto i concetti legati al dolore, alla sofferenza e perfino alla crudeltà: tutti elementi a volte necessari, a volte vitali per la nascita di un'Opera poetica che possa divenire eterna per la bellezza che racchiude; accanto a questi concetti decisamente negativi, figurano anche, in contrapposizione, quelli di passione carnale ed elevazione spirituale, in cui si intuisce (anche perché c'è una citazione in tal senso) quanto sia determinante la presenza femminile, che in molte opere poetiche diviene protagonista assoluta. Nell'ultima parte della lirica, Quaglino propende per la parte più spirituale dell'Opera, definendola come qualcosa che rispecchia e rivela le anime fragili; infine la definisce miracolo a la fede, a l'arte, a l'amore: una creazione umana e nello stesso tempo divina, che aiuta e sospinge gli uomini che la amano, ed è anche "fulcro", ovvero un sostegno di massima importanza, un caposaldo della mente umana.

 

 


 

Opera! solennità di parola:

   il profumo e l'armonia,

   la bellezza e la bontà,

   la parvenza del sogno lontana,

   la bolla sospirosa,

   che ascende, su dal mistero,

   dal mar de l'idee.

 

Opera! tragica forma:

   tanto d'amore, che la illumini,

   tanto di rinuncia, che l'affini;

   equità sempre, ragion di vita,

   se terrena ruggisca,

   come un alato trasvoli,

   o indugi nel grembo a li oceani;

   se porga ai solchi il corrotto,

   come una viola,

   verzichi tra chiare acque,

   pallida ninfea,

   o a l'etere, spirital cibo,

   come il fiore de l'aria,

   protenda le sobrie radici.

 

Opera: sfinge suprema,

   bacio di vane labbra e carnali,

   copula mal secura

   d'amor voluto e inconscio,

   alba gaudiosa del cuore,

   miraggio breve de l'ingegno,

   passione e martirio del braccio, -

   creatura strana,

   creatura maledetta e adorata,

   come una femminile unità,

   che riaccenda, improvvisa

   al tepor de le nuove fiamme,

   la sanguinosa angoscia

   de le antiche piaghe.

 

Opera! specchio e rivelazione

   de le fragili anime,

   de le grevi sustanze;

   miracolo a la fede, a l'arte, a l'amore;

   opera, sferza e fulcro.

 

domenica 8 giugno 2025

Riviste: "Hermes"

 Hermes è il titolo di una rivista d’arte e letteratura pubblicata a Firenze tra il 1904 ed il 1906; nella veste di direttori si alternarono Giuseppe Antonio Borgese ed Enrico Corradini. La periodicità di Hermes non fu sempre regolare; in totale ne uscirono dodici fascicoli. Tra i collaboratori di questa rivista fiorentina, vi furono Domenico Giuliotti, Giovanni Papini, Marcello Taddei ed Emilio Cecchi. Politicamente e ideologicamente Hermes fu molto vicina ad altre prestigiose riviste di quel preciso periodo storico, come Leonardo e Il Regno; letterariamente parlando, coloro che vi pubblicarono prose e versi, mostrarono una spiccata affinità con la scrittura di Gabriele D’Annunzio, specialmente per quel che concerne il formalismo estetico. Chiudo riportando tre poesie tratte dalle pagine di questa rivista del primissimo Novecento.

 

 


 

 

L'OSPITE

di Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952)

 

No, no, non aprire. Se picchiano tu non aprire;

se battono tutta la notte, e tu non udire.

All' alba egli si stancherà.

 

Sta fermo, egli udrà; non respirare, rannicchiati

nell' ombra. Se ode i tuoi passi, egli picchia

più forte. È la pioggia che colma la gora e trabocca

o ancora le ferree sue nocche?

 

Chiudi gli occhi, non ascoltare. Perché

     tremi? Hai l’ arma tua presso di te?

Dormi, egli forse non torna.

 

Crederà che tu dorma. Non aprire: vorresti vederlo

          col volto nascosto nel lungo mantello

          grondante di pioggia? Sentir le pupille ferine

          traverso le palpebre chine?

 

Ahimè! quel suo piccolo rosso fanale,

     giallo rossastro come occhi di micidiale!

     Chi, rincasando tardivo, ne vide il lucor per le scale,

     tremò d’un tremore mortale.

 

Accendi il tuo lume. Lampeggia. Nell’oscurità

          tremi. Senti? non picchia. Ora se ne va.

Hai messo alla porta il paletto e la stanga?

Non credere ch’egli rimanga,

non credere ch'egli ti aspetti.

                          Perché non accendi?

Perché con terrore le braccia protendi?

Ah! la tua lampada è là.

La lampada rossa nell’oscurità!

 

(da "Hermes", novembre 1904)

 

 

 

 

PICCOLA CASA DI MORTI

di Riccardo Forster (1869-1938)

 

Qui noi salimmo uniti per la rampa

ad un asil di genti primitive.

Sul poggio splende il sole come lampa,

cinta da mille lampade votive.

 

Qui l'uomo contro l'uomo non s'accampa.

Non beve la sua bocca alle sorgive

fonti più r aure : in petto non gli avvampa

follia di sogni, di divine rive.

 

Salimmo con la Gioja tutta in fiore!

Ora sembra che giungano nell' orto,

crocisegnato l' ombre, e che ogni morto

 

della mia stirpe chieda al nostro amore,

nell'alta solitudine romita,

per la sua tomba un brivido di vita.

 

(da "Hermes", maggio-giugno 1904)

 

 

 

 

IL RAGNO

di Federico Valerio Ratti (1877-1944)

 

Poi che la ultima nota

via dileguò ne la sera

verso una speranza ignota,

tornò eguale la tastiera.

 

Prima sciacquavano l’onde

contro una scala di marmi

politi, fiorian le sponde

di rose e l'aria di carmi;

 

prima era tutto un immenso

domo d’oro splendente,

dove fra nubi d’incenso

si officiava al Sol nascente:

 

or, poi che l’ ultimo lagno

vanì del cembalo bello,

tutto disparve, e un ragno

solo abita il mio cervello.

 

(da «Hermes», luglio 1906)

 

martedì 3 giugno 2025

I ritratti nella poesia italiana decadente e simbolista

 L'importanza dei ritratti nella poesia e nella prosa dei simbolisti è senz'altro indiscutibile, basti pensare al romanzo famosissimo di Oscar Wilde: Il ritratto di Dorian Gray. Da quest'ultimo si può intuire il motivo dominante che determina la simbologia dei ritratti ovvero il carattere e la psiche degli esseri umani; esplicativo a tal proposito è il titolo ed il contenuto di una poesia di Corrado Govoni: La psicologia dei ritratti, che è una delle poesie riportate alla fine di questo post.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Gustavo Brigante-Colonna: "Nella cornice impero" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Luigi Capuana: "Ritratto fotografico" in "Semiritmi" (1888).

Cosimo Giorgieri Contri: "Dietro un ritratto" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Cosimo Giorgieri Contri: "Vecchi album" in «Nuova Antologia», aprile 1907.

Corrado Govoni: "Davanti ad un ritratto" in "Le Fiale" (1903).

Corrado Govoni: "La psicologia dei ritratti" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).

Guido Gozzano: "L'Antenata" in "Il Piemonte", settembre 1904.

Luigi Gualdo: "Ritratto" (3 poesie) in "Le Nostalgie" (1883).

Giuseppe Lipparini: "Ginevra" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).

Remo Mannoni: "X" in «Rivista d'Amore», luglio 1903.

Enzo Marcellusi: "Il ritratto" in "I canti violetti" (1912).

Federigo Tozzi: "Ritratto medioevale" in "La zampogna verde" (1911).

 

 

 

Testi

 

 

DIETRO UN RITRATTO

di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

 

Occhi limpidi e tristi, occhi adorati,

dolce bocca per me senza parole

fronte sottil, forse ad un sogno aperta,

 

io vi riveggo e la tristezza incerta,

come un profumo di fior morti al sole,

si risolleva da' bei dì passati.

 

Non sorrider di me, pia creatura:

amo amarti così: ti sento lunge,

tutta l'anima mia verso te migra.

 

Questa triste di tedio anima pigra,

pigra così che non desìo la punge

di saper se tu sei qual ti figura.

 

Tanto, a che vale? D'ogni folle amore

ch'io nutrii per tanti anni, oh non è questo

il più folle, o mia dolce, è questo il saggio.

 

Io che lo so non fermo il mio viaggio:

ti saluto passando e al cenno mesto

tutti i fior dell'oblio m'empiono il cuore.

 

1891.

 

(da "Il convegno dei cipressi", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1894, p. 77)

 

 

 

 

LA PSICOLOGIA DEI RITRATTI

di Corrado Govoni (1884-1965)

 

Ne le cornici d'ebano, i ritratti

quante storie secrete si raccontano

piano, tra loro, quanti mesti fatti

i cui ricordi friabili già smontano!

 

In un quadro le dagherrotipie

ritraggon tutte de le vecchie dame,

de le dame da le fisionomie

vizze e da le gonnelle col fiorame:

 

de le duchesse con il guardinfante

e i larghi sboffi, e la scriminatura,

qualche riproduzione d'un Infante

biondetto da la torva guardatura.

 

In un altro de le fotografie

moderne mostrano dei neonati

e de le placide fisionomie

d'avole e di defunti dissanguati:

 

una vecchietta porta una sottana

fuori di moda, una pettinatura

di foggia ingenua, un'altra una collana

di coralli di nobile natura;

 

un bel giovine (che sia morto etico?)

perpetua la tristezza del suo sguardo,

una sposa in un suo dito ermetico

tiene un anello d'argento, testardo

 

testimone d'una felicità

seppellita da chissà mai quanto!

(quel corpo fatto per la voluttà

ora è cenere dentro un camposanto...)

 

Pupille ancora vive, labri

come sfogliati, rughe approfondite,

e pomelli digiuni di cinabri,

chiome svanite, mani rattrappite.

 

Un bambolino, morto, sul suo letto,

pallido, sotto il vetro à il suo mannello

di capelli e sul bianco lenzuoletto

contro il cuore il giocattolo novello.

 

Qualche educanda d'un conservatorio

regge in mano con edificazione

un parrocchiano lucido d'avorio

o il bouquet de la prima comunione.

 

(da "Armonia in grigio et in silenzio" di Corrado Govoni, Lumachi, Firenze 1903, pp. 40-42)

 

 

 

 

X

di Remo Mannoni (1883-1966)

 

Un ritratto sbiadito

m'è venuto tra mano;

pallido volto umano

d'un essere sfinito,

 

semispento, colpito

da un morbo disumano;

pure ha un fascino strano

come un fiore avvizzito.

 

Un pallido sorriso

di Sfinge urge le buone

sembianze di fanciulla,

 

- Chi scolorì quel viso?

quale ardente passione

la diede in braccio al Nulla?

 

(da «Rivista d'Amore», luglio 1903)


Bessie MacNicol, "Self-portrait"
(da questa pagina web)




domenica 25 maggio 2025

Antologie: "Poesia delle Marche. Il Novecento"

 Certamente si potrebbe discutere sul senso o sul valore che possono avere le antologie poetiche dedicate ad una sola regione italiana; è pur vero che ne esistono moltissime, e riguardano quasi tutte le regioni della nostra nazione. In questo preciso post voglio brevemente parlare del volume intitolato La Poesia delle Marche. Il Novecento, pubblicato dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata e dalla Società editrice Il lavoro editoriale nel 1998. Il curatore di quest'antologia è Guido Garufi. Già nel risvolto della copertina, viene citata un'altra opera antologica simile a questa, uscita quasi trentacinque anni prima, e intitolata Poeti delle Marche del '900; tale opera, curata da Carlo Antongini, evidentemente ha avuto un ruolo significativo per Garufi, che praticamente ha apportato degli aggiornamenti necessari - visto che nel frattempo si era quasi concluso il secolo preso in esame - riguardante sia i saggi dedicati ai poeti presenti, sia delle aggiunte di nomi importanti, affinché sia possibile avere una panoramica completa dei cento anni di poesia cui si riferisce il titolo. È però lampante, per chi cominci a sfogliare la parte prettamente antologica, che vi siano delle assenze, riferite in particolar modo ai poeti nati prima del 1892. Per il resto si può affermare che questo libro si presenti assai bene, sia per il formato che per la grafica, che infine per i contenuti. L'opera si divide in tre parti. Nella prima, si trova l'introduzione del curatore, seguita dalla presentazione dei poeti selezionati (sono in tutto ventiquattro, compresi i dialettali), dai testi e da una biobibliografia degli stessi. Nella seconda parte si prendono in considerazione nuove generazioni e ulteriori scuole poetiche; si inizia con La scuola di Urbino, che include solamente cinque poeti; si prosegue con Una nuova generazione, comprendente sette poeti; si conclude con L'attività letteraria, in cui vengono brevemente commentate le opere poetiche di autori più o meno giovani e comunque meno importanti rispetto agli altri. Segue una parte esclusivamente saggistica (intitolata per l'appunto Saggi), con diversi articoli inerenti la poesia e i poeti delle Marche nel XX secolo. Si passa poi ad una parte per metà dedicata alle illustrazioni e per metà saggistica, intitolata Repertorio iconografico delle riviste e materiali critici. Chiude il volume una bibliografia divisa in due settori: il primo si occupa delle opere antologiche e non, che fanno riferimento alla poesia italiana del Novecento, ma che comunque hanno un'attinenza anche con l'attività poetica nelle Marche; la seconda è invece incentrata sul Novecento marchigiano.

Ecco, infine, i nomi dei poeti antologizzati in Poesia delle Marche. Il Novecento





POESIA DELLE MARCHE. IL NOVECENTO


PRIMA PARTE

Ugo Betti, Luigi Batolini, Arcuto Vitali, Scipione, Plinio Acquabona, Franco Matacotta, Neuro Bonifazi, Alvaro Valentini, Paolo Volponi, Anna Malfaiera, Luigi Di Ruscio, Franco Scataglini, Gabriele Ghiandoni, Massimo Ferreti, Ercole Bellucci, Leonardo Mancino, Umberto Piersanti, Luigi Martellini, Eugenio De Signoribus, Guido Garufi, Marco Ferri, Francesco Scarabicchi, Gianni D'Elia, Remo Pagnanelli.


SECONDA PARTE

Amato Cini, Egidio Mengacci, Adriano Gattucci, Zeno Fortini, Maria Lenti, Tiziana Alberti, Maria Angela Bedini, Luca Cesari, Filippo Davoli, Feliciano Paoli, Roberto Piangatelli, Antonio Santori.

domenica 18 maggio 2025

Poeti dimenticati: Francesco Carchedi

 Nacque a Filadelfia, in provincia di Catanzaro, nel 1909; morì a Roma nel 1987. Pubblicò i suoi versi su alcune riviste - tra le quali Maestrale, La Fiera Letteraria e Dialoghi - e in poche raccolte poetiche che comunque coprono un arco temporale piuttosto lungo (più di quarant'anni). Le poche notizie bibliografiche rintracciabili dicono che, dopo la laurea in Lettere, iniziò ben presto a insegnare presso vari licei della capitale. Le sue liriche, decisamente lontane dall'ermetismo, mostrano evidenti simpatie per diversi prestigiosi poeti del primo Novecento, come Ungaretti, Quasimodo, De Libero, Bertolucci e Caproni. Si nota, in molte delle poesie di Carchedi, una tendenza alla meditazione, un tangibile rimpianto per il periodo dell'infanzia e dell'adolescenza trascorso nei luoghi d'origine così come una ricorrenza dei temi religiosi. 



Opere poetiche


"Buio e sole", Edizioni Michele Bonelli, Vibo Valentia 1934. 

"Vetera et Nova", Ed. Di Religio, Roma 1940. 

"L'uomo e il mare", Il secondo Novecento, Roma 1955. 

"Sono sotto le stelle", Edizioni di Dialoghi, Roma 1963. 

"Io riconobbi te antico mare", Il secondo Novecento, Roma 1978.





Testi


UDII UNA FONTANA...


Io fui nella notte

rinchiuso in cortice scuro.

Battevo

anelavo all'esterno

come il feto

nell'alvo materno

ed era una pena

stringere i denti

per la liberazione

ed era dolcezza

abbandonarsi all'inconscio

verso il regno del nulla.

Poi venne l'alba

udii la fontana parlare

vidi i rondoni volare

gridando

nel cielo di perla.


(da «Maestrale», Anno II, N. 9, Settembre 1941)





IN DIMIDIO


Mi era lietezza la mestizia, o mare,

ora la vita non ha vita alcuna,

semplice attesa di cose venture.

Ma tu ridammi la tristezza antica

oppur la saggezza, vecchio mare.


1945


(da "L'uomo e il mare", Edizioni "Il secondo novecento", Roma 1954, p. 52)





MA DOVE SONO…


L'immagine mia

di quel tempo

non chiedetela: 

è rimasta

sulla calcina dei muri,

tra le spine delle siepi,

panno dimenticato.

Ma dove sono

i monelli miei coetanei?


1951


(da "Sono sotto le stelle", Edizioni di «Dialoghi», Roma 1963, p. 69)


domenica 11 maggio 2025

Regina del giorno

   Invecchia la tua morte

nelle mie notti

ove rotolano sogni

come vuote botti.


  Ma di giorno sempre più giovane

sei e regina, da quando

la tua morte invecchiando

in me ti ha disciolta

in tutte le cose

che amavo una volta.


  Sei le rose

gialle e i cornicioni bruciati a taglio

di luce contro il celeste ottobre,

il barbaglio

del ditale d'oro

nel cesto da lavoro,

sei la mensa serale,

la lagrima e l'allegria,

del morire la dolce profezia.


  Tutte queste cose e altre:

ma sei tu ancora

tu sola

precisa e loquente perché

sono loro

- le cose le rose il ditale d'oro -

che sono diventate 

te.





COMMENTO

Regina del giorno è il titolo di una poesia di Luigi Santucci (Milano 1918 - ivi 1999), che si trova alle pagine 85 e 86 del volume Di te mi scorderò, pubblicato dalla Mondadori di Milano nel 1969. Santucci scrisse poche poesie, e alcune di esse le dedicò al pubblico infantile; quindi si può dire che il volume del '69 sia un'eccezione nella carriera letteraria dello scrittore milanese; peculiarità della raccolta poetica è che le sessantasette liriche ivi presenti siano incentrate su un unico argomento: la recente scomparsa della madre del poeta. In questi versi Santucci esterna tutta la sua disperazione per la gravissima perdita avuta da poco, ed è facile percepirla, perché in quasi tutte le poesie si nota una drammaticità sconvolgente e una dichiarata incapacità di continuare a vivere senza la presenza preziosissima di una mamma straordinaria. I versi che di sopra ho voluto riportare, però, sembrano superare tale senso di tragedia: qui il poeta riesce a trovare conforto alla definitiva assenza della madre pensando che essa, grazie ad una sorta d'incantesimo, si sia tramutata negli oggetti della casa di famiglia, così come nei fiori del giardino di casa; riesce ad intercettare la sua presenza anche in specifici momenti del giorno, come la abituale cena, e pure nei suoi stati d'animo particolarmente intensi - siano essi dominati dalla tristezza o dalla gioia -; la trova viva perfino ricordando certe sue frasi in cui preannunciava la sua morte. A tal proposito, tra le cose che gli ricordano più la madre, Santucci nomina un ditale d'oro (oggetto che spesso usavano le massaie nell'atto del cucire) e delle rose gialle; tutto ciò mi ha fatto ricordare che anche mia madre usava un ditale - pur se non d'oro -, nei momenti in cui si appropinquava a cucire degli strappi in indumenti come i calzini; ed anche lei amava le rose di tutti i colori possibili ed immaginabili (le piantò nel nostro giardino in gran quantità). Non potendo più avere le rose, sono andato a cercare quel vecchio ditale di mia madre, e l'ho trovato proprio in un cesto - come dice il poeta - da lavoro; la fotografia che precede questo mio commento ritrae i due oggetti della mia mamma che sono ancora qui, malgrado la sua assenza perduri da quasi un decennio; e, rifacendomi alla fantasia del poeta, anch'io oggi, giorno in cui si festeggiano tutte le mamme assenti e presenti, voglio pensare che lei viva in questi e in tanti altri oggetti ancora presenti nella "nostra" casa.