sabato 13 luglio 2024

L'ultima antologia dedicata ai poeti "minori" dell'Ottocento

 Torno a parlare di un'antologia di cui mi ero già occupato in un post di alcuni anni fa: Poesia italiana dell'Ottocento, a cura di Maurizio Cucchi, pubblicata dall'editore Garzanti di Milano nel 1978. L'ho definita come ultima antologia dedicata ai "poeti minori" dell'Ottocento perché, sebbene non si trovi nessun riferimento del genere nel titolo, di questo si tratta. A conferma di ciò, l'introduzione del curatore inizia parlando, appunto, dei poeti definiti a torto «minori» dai critici di un passato ormai lontano. I 46 poeti qui selezionati, non sono affatto «minori», casomai, possono essere definiti «maggiori» coloro che qui non compaiono: Foscolo, Manzoni, Leopardi, Giusti, Carducci, Pascoli e D'Annunzio. Ne riparlo, perché in queste pagine ebbi l'opportunità di leggere per la prima volta versi di alcuni poeti che conoscevo soltanto per sporadiche citazioni in saggi critici. Mettendo da parte i poeti della prima metà dell'Ottocento, che non m'interessavano più di tanto allora, e ancor meno m'interessano oggi; volendo trascurare anche gli ultimi romantici della metà del secolo: Aleardo Aleardi e Giovanni Prati, così come i versi patriottici di Arnaldo Fusinato, Luigi Mercantini e Goffredo Mameli; il primo gruppo di poeti che attirarono la mia attenzione è composto da figure diverse tra di loro: l'abate Giacomo Zanella (soprattutto coi sonetti de "L'Astichello"), Costantino Nigra, Riccardo Vincenzi di Lantosca e i fratelli Giambattista e Giuseppe Maccari. Ma, più di questi, furono i tre maggiori esponenti della poesia scapigliata: Emilio Praga, Igino Ugo Tarchetti e in particolar modo Giovanni Camerana, a farmi rendere conto di quanti e quali legami ci fossero tra la nuova poesia italiana del XX secolo, rappresentata dai crepuscolari e dai futuristi, e la poesia di costoro. Proseguendo nella lettura, m'imbattei in altri poeti più o meno legati alle primissime poetiche del Novecento: i carducciani Enrico Nencioni, Enrico Panzacchi e Giovanni Marradi; gl'intimisti Vittorio Betteloni, Edmondo De Amicis, Pompeo Bettini e Vittoria Aganoor ecc. Discorso a parte merita invece Olindo Guerrini, di cui già conoscevo pochi versi grazie a qualche vecchia antologia scolastica. Ma in quanto a grado d'importanza, in cima - parlando sempre di gusti personali - metterei, insieme al Camerana, Domenico Gnoli, Arturo Graf e Adolfo De Bosis. Ritengo che questi ultimi quattro poeti siano stati determinanti per la nascita e lo sviluppo della poesia italiana del primo Novecento (almeno fino al 1915). Camerana (1845-1905) lo è stato perché fu uno dei pochissimi, nel nostro paese, a proporre e portare avanti quella corrente simbolista (nata in Francia verso la metà dell'Ottocento) che, quasi in modalità sotterranee, si dimostrò importantissima e seguitissima - la si ritrova spesso nei primi quarant'anni della storia della poesia italiana novecentesca (dai crepuscolari agli ermetici per capirci) -. Gnoli (1838-1915) fu personaggio unico, capace di fantasiose trasformazioni poetiche, e nell'ultima parte della sua vita fu capace di farsi credere un giovane di nome Giulio Orsini, autore di versi "nuovi", che praticamente inaugurarono il nuovo secolo all'insegna di un rinnovamento da lui stesso profetizzato. Anche per De Bosis (1863-1924) e per la rivista da lui diretta: Il Convito, vale lo stesso discorso riferito ad un percorso di rinnovamento efficace, seppur differente rispetto a quello portato avanti dallo Gnoli. Graf (1848-1913), infine, andrebbe a mio avviso considerato alla stessa stregua del Pascoli e del D'Annunzio, perché - pensando soprattutto alla poesia dei crepuscolari - il poeta ateniese fu un vero e proprio "maestro" (famose sono le sue lezioni tenute nell'Università di Torino nei primissimi anni del Novecento) per Gozzano, Vallini, Chiaves e Oxilia, ovvero per i gruppo "torinese" del crepuscolarismo. Ebbene, di tutti questi buoni od ottimi poeti, nelle antologie scolastiche dei miei tempi non v'era traccia, e Poesia italiana dell'Ottocento fu l'unico volume trovato sugli scaffali delle librerie che frequentavo a quei tempi, in grado di soddisfare le mie curiosità; soltanto nelle pagine di questo volume mi fu possibile leggere alcuni versi di poeti trascurati o ignorati, eppure importanti. 




Due poesie di Giorgio Vigolo

 Linea della vita è una fondamentale raccolta poetica di Giorgio Vigolo (Roma 1894 - ivi 1983). Pubblicata nel 1949, rappresenta - come lui stesso affermò in un articolo - un punto di svolta nel suo scrivere versi; in Conclave dei sogni (1935), che può essere definita la sua prima opera totalmente in versi, sussiste ancora una visionarietà che contraddistingue anche le prose dello scrittore romano, pubblicate in riviste o in volumi negli anni precedenti. Quando, all'inizio della Seconda Guerra mondiale, Vigolo fu richiamato per la seconda volta alle armi (aveva già combattuto nella Grande Guerra), subentrò in lui un trauma psicologico che sconvolse anche il suo modo di scrivere: non più pagine in cui sono descritti dei "sogni ad occhi aperti", ma versi che esprimono disillusione, disagio, rassegnazione e pessimismo. Accanto a questi prevalenti stati d'animo, alcune poesie di Vigolo racchiuse in questo volume sembrano ancora manifestare una vitalità, una voglia d'entusiasmarsi per gli spettacoli offerti dalla città di nascita del poeta: la sua amatissima Roma, di cui sempre parlerà nei suoi versi, fino al suo ultimo volume, uscito un anno prima che morisse. Ma c'è, in Linea della vita, anche una sezione intitolata Parlo con l'eco: 14 poesie brevi, in cui a volte si palesa una presenza femminile, alquanto sfumata, con cui il poeta, molto probabilmente, ha avuto un rapporto sentimentale. Ed ecco che, solamente nei versi di questa sezione, Vigolo unisce alla magnificenza dei luoghi che frequenta ogni giorno, la presenza quasi divina di una donna; si crea allora una magica osmosi che induce spesso il poeta a parlare di felicità, di dolcezza e d'amore; allo stesso tempo, quando Vigolo scrive parole entusiastiche nei confronti della presenza femminile usando verbi al passato o all'imperfetto, e, nel contempo, in altri versi si lamenta dell'assenza per non si sa quali ragioni di quel "volto amato", si ha la netta impressione che questa passione reale o immaginaria sia durata ben poco. Rimane il fatto che in queste 14 pagine si respiri un'altra aria rispetto al resto del libro, e che qui vi siano alcuni dei capolavori poetici "assoluti" dello scrittore capitolino. Eccone due esempi in cui si nota la costante presenza e l'estrema importanza della luce del sole: elemento imprescindibile affinché si crei un'atmosfera magica o, ancor meglio, ultraterrena.






Da "PARLO CON L'ECO"


II

Una luce si stacca dalla luce,

un'immagine di lontano

mi viene incontro

nel sole degli alberi

variato d'ombre

come il pensiero che chiede,

che ancora non crede;

tanto dubita l'animo

quando la felicità s'avvicina

e teme di non riconoscerla.





 

XIII


Sorgo alla luce

di questo giorno d'estate

col pensiero di te che mi sale

nel petto, pieno di raggi

e al respiro mette le ali;

sorgo come il sole

alla corsa nel cielo

che d'un morso abbagliante

staccato dal monte

ha nell'alba

la cresta violetta;


  perché so di vederti

oggi e il giorno ha uno scopo.

Una musica guida le ore.


(da "Linea della vita", Mondadori, Milano 1949, p.  166 e 177)


Alcune opinioni personali sulla poesia

 La mia passione, praticamente esclusiva, per la poesia italiana, non m'induce affatto a pensare che in altre nazioni e in altre lingue non esistano versi più belli di quelli nostrani. Tutt'altro. Sono perfettamente conscio del fatto che, storicamente parlando, paesi come la Francia e la Germania - ne potrei citare anche altri - hanno avuto poeti eccezionali, probabilmente migliori dei nostri (soprattutto, mi vien da pensare al XIX secolo). Ciò che mi ha indotto a preferire di gran lunga la poesia in lingua italiana è la mia scarsa (per non dire nulla) conoscenza delle altre lingue. Sono convinto del fatto che, per apprezzare a pieno una poesia, sia necessario avere un'assoluta padronanza della lingua in cui tale poesia è stata scritta. Questo discorso è ancor più valido se si parla di forme chiuse. Per fare un esempio, quando leggo dei versi tradotti in italiano, che originariamente furono scritti in lingua inglese o francese, mi accorgo che questi versi perdono qualcosa della loro originalità e, nello stesso tempo, acquisiscono degli elementi che appartengono al traduttore. 

Nella prosa - purché non si tratti di prosa poetica - questo sostanziale difetto si riduce alquanto, o, comunque, non è determinante nella valutazione della qualità e della originalità del testo, perché quest'ultimo si pone un diverso obiettivo: la narrazione di una qualsivoglia vicenda. 

Anche la poesia dialettale, purtroppo, non mi ha mai attirato (se si eccettuano alcune poesie napoletane e romanesche). In questo ambito, però, più che dei limiti nella conoscenza linguistica, si tratta di gusto personale. 

C'è, infine, una terza categoria: le poesie non italiane che diventano canzoni nella loro lingua originale, e poi sono tradotte da cantautori italiani nella nostra lingua. Come ho già detto in passato, parlando di canzoni (o sarebbe meglio dire canzonette), la presenza di una base musicale confonde e contamina il genere poetico, che rimane tale solamente quando ci si trovi davanti a parole nude, scritte o stampate su carta.

lunedì 8 luglio 2024

Il camuffamento in una poesia di Trilussa

 Sebbene non sia il periodo del carnevale, voglio lo stesso parlare di "maschere". Ma le maschere protagoniste di questo post, non sono quelle reali, usate nelle feste e negli spettacoli: sono quelle che si esteriorizzano in generalizzati comportamenti pubblici, assai diffusi oggi, dove, per nascondere una realtà fatta di sconfitte, di privazioni e d'infelicità, certi individui si mostrano assai differenti da come sono, palesando, tramite immagini o filmati personali, atteggiamenti gioiosi e sguaiata allegria. C'è, in questo tipo di presentarsi agli occhi altrui, una profonda paura di essere giudicati in modo negativo; il timore di passare per "sfigati" (termine volgare che da un po' di anni a questa parte va di moda), ovvero per dei falliti, degli sconfitti. Tale timore è ancor più accentuato dal fatto che i cosiddetti "sfigati", molto spesso, vengono additati con totale disprezzo, da personaggi che, seppur non meritino alcuna importanza, vengono reputati dei "vincenti". Ma per convincere tante e tante persone a scegliere la via del mascheramento, basta la frequentazione dei "social network" (molto si potrebbe discutere sui lati positivi e quelli negativi di tali servizi); in questo contesto, situato tra il virtuale ed il reale - ma purtroppo a prevalere è la prima caratteristica -, viene apprezzato soltanto chi dimostra di possedere quei requisiti (falsi o veri che siano) riconducibili alla categoria dei "vincenti". Insomma, a questo ballo moderno e diabolico, chi non si maschera ha perso.

Passando ora alla poesia di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950) intitolata, appunto, La maschera, il geniale poeta romano, nel suo dialetto, colloquia con una vecchia maschera da lui usata molti anni prima, e ancora presente nella sua casa. Come è consueto nella poesia di Trilussa, il dialogo diviene qualcosa di fantastico, perché l'oggetto ha la magica possibilità di parlare col poeta; e quando quest'ultimo gli chiede come riesca a mantenere quel sorriso ampio che la contraddistingue in qualsiasi situazione, essa risponde affermando la totale inutilità di qualsiasi stato d'animo diverso dall'ilarità, consigliando infine all'interlocutore di atteggiarsi allo stesso modo, e di mascherare sempre sia il dolore che la tristezza. Il poeta dà retta alla maschera, ma il suo nuovo proporsi pubblicamente, gli causa soltanto dei giudizi negativi, poiché viene scambiato per un egoista ed un menefreghista. Questi versi ricordano un po' la favola di Esopo intitolata Il contadino, il figlio e l'asino, visto che l'uomo, qualunque tipo di comportamento decida di portare avanti, trova sempre valutazioni negative: falsa commiserazione, compatimento, ampia disapprovazione mista a disprezzo. Quindi, alla fine è meglio non dare alcuna importanza ai metri di giudizio della maggior parte degli esseri umani, mostrandosi sempre e comunque per quelli che si è veramente. 




LA MASCHERA


Vent'anni fa m'ammascherai pur'io!

E ancora tengo er grugno de cartone

che servì p'annisconne quello mio.

Sta da vent'anni sopra un credenzone

quella Maschera buffa, ch'è restata

sempre co' la medesima espressione,

sempre co' la medesima risata.

Una vorta je chiesi: - E come fai

a conservà lo stesso bon umore

puro ne li momenti der dolore,

puro quanno me trovo fra li guai?

Felice te, che nun te cambi mai!

Felice te, che vivi senza core! -

La Maschera rispose: - E tu che piagni

che ce guadagni? Gnente! Ce guadagni

che la gente dirà: Povero diavolo,

te compatisco... me dispiace assai...

Ma, in fonno, credi, nun j'importa un cavolo!

Fa' invece come me, ch'ho sempre riso:

e se te pija la malinconia

coprete er viso co' la faccia mia

così la gente nun se scoccerà... -

D'allora in poi nascónno li dolori

de dietro a un'allegria de cartapista

e passo per un celebre egoista

che se ne frega de l'umanità!

 

(da "Poesie scelte", volume primo, Mondadori, Milano 1993, p. 151)

La morte in pochi versi di Vivian Lamarque

 Sicuramente la morte fa paura un po' a tutti gli esseri umani. Anch'io la temevo, e lo stava a dimostrare il fatto che da ragazzo e anche oltre mi rifiutassi costantemente di far visita ai miei parenti appena deceduti, per non vedere i loro volti. Ma, cogli anni, ho dovuto prendere atto che la morte è qualcosa d'inevitabile, e nascondersi per non affrontarla ogniqualvolta si presenti, portandoci via persone care dalle quali non vorremmo mai separarci, è del tutto inutile ed ancor più doloroso. Così, oltre a quella delle persone care, è necessario accettare anche la nostra morte, e guardarla in faccia, pensando che sia un evento naturale non del tutto negativo, perché se non ci fosse la morte non ci sarebbe la nascita. È giunto, insomma, che ad un certo punto ci si faccia da parte per lasciar posto ai nuovi venuti. Di versi sull'argomento "morte" ce ne sono a bizzeffe, e tanti sono anche bellissimi; ma oggi voglio proporre una breve e nello stesso tempo intensa poesia di Vivian Lamarque, in cui la parola "morte" non viene mai pronunciata, ma si capisce benissimo che è lei la protagonista della lirica. Ciò che dice è inconfutabile: la morte è con noi già nel momento in cui nasciamo, ed è simile ad un essere invisibile che ci segue per tutta la vita, e, pazientemente, aspetta il momento giusto per riportarci da dove eravamo venuti.



CI ASPETTA 


Ci aspetta paziente

in un angolino

conosce il giorno e l'ora

che noi non conosciamo ancora.


(Era entrata chissà quando

pianino, nessuno l'aveva vista

o forse un bambino.)


(da "Poesie 1972-2002", Mondadori, Milano 2002, p. 207)

domenica 7 luglio 2024

I ragni nella poesia italiana decadente e simbolista

 Quando i poeti italiani decadenti e simbolisti parlano di ragni, spessissimo fanno esclusivo riferimento alla ragnatela: trama di sottilissimi fili che gli aracnidi costruiscono per catturare le loro prede. In questi casi, sempre ne consegue un accostamento alle vicende ed ai comportamenti degli umani; c’è chi - come il Chiaves - li giudica in modo negativo, poiché sono trappole simili a quelle ordite da persone scaltre e malevole; c’è chi ammira la pragmaticità della ragnatela, al contrario della inconcludente trama di pensieri che si susseguono nella testa del poeta per l’intera giornata, e che non portano a un bel nulla; c’è anche chi ritiene le tele dei ragni come qualcosa d’estremamente effimero, che si dissolve con un po’ di pioggia e di vento; il Piazza paragona l’opera di un ragno che si trova sul soffitto della sua misera stanza, a quella del suo cervello, dal quale scaturiscono le sue “memorie segrete”; ma se il ragno, dopo un turbine di vento distruttore, pazientemente ricomincia a tessere la sua ragnatela, il poeta, che ha visto similmente la sua opera dissolversi, non è più in grado di ricreare alcunché.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Gustavo Botta: "Partenza" in "Alcuni scritti" (1952).

Enrico Cavacchioli: "Il ragno" in "Le ranocchie turchine" (1909).

Carlo Chiaves: "Ragnateli" in "Sogno e ironia" (1910).

Guglielmo Felice Damiani: "Il ragno che fila" in "Lira spezzata" (1912).

Alessandro Giribaldi: "Tela di ragno" in "I canti del prigioniero" (1940).

Guido Gozzano: "La statua e il ragno crociato" in "La Riviera Ligure", marzo 1913.

Arturo Graf: "Ragni" in "Medusa" (1890).

Pietro Mastri: "Ragnateli estivi" in "L'arcobaleno" (1900).

Giuseppe Piazza: "La spola" in "Le eumenidi" (1903).

Francesco ed Emilio Scaglione: "Conversazione minima" in "Limen" (1910).

 

 

 

Testi

 

RAGNI

di Arturo Graf (1848-1913)

 

Davanti a un foro per lungo e per largo

Distende il ragno la sua fragil tela;

Ed io de’ miei pensier la tela spargo

Sopra l’abisso che ogni cosa cela.

 

Ei nella rete onde si cinge intorno

Acchiappa il moscherin che in aria frulla:

Io sto sui miei pensier la notte e il giorno

E non ci colgo un maledetto nulla.

 

(da "Medusa", Loescher, Torino 1890, p. 168)

 

 

 

 

LA SPOLA

di Giuseppe Piazza (1882-1969)

 

O ragno che la ben callida rete

lavoravi sagace, or presto or lento,

mentre io, compagno a te di tetto e stento,

tessevo le memorie mie segrete,

 

poi che or le nostre opre mansuete

la violenza ruppe e spense il vento,

dopo un sussulto, giù, ratto e sgomento

percorresti la gelida parete.

 

Io non mi mossi. E pur se il tenue ordito

a rifare il tuo corpo oggi rivola,

l'angol ritroverà che 'l regga e 'l copra;

 

ma il mio cantuccio il vento ha demolito,

e ne 'l turbine ho perso anche la spola,

e la mia mano tremerebbe a l'opra.

 

(da " Le Eumenidi", Pierro, Napoli, 1903, p. 23)




Odilon Redon, "L'araignée"
(da questa pagina web)




 

giovedì 4 luglio 2024

Alcune considerazioni sul valore attribuito ai poeti ed alle poesie

 Attraverso gli anni mi sono accorto che nel mondo della poesia e dei poeti - parlo dell'Italia ma credo si possa allargare il discorso anche alle altre nazioni - vi siano delle valutazioni errate, delle ingiustificabili trascuratezze e delle sproporzioni riguardo al valore attribuito, per l'appunto, a determinati poeti e a determinate poesie. Approfondendo la conoscenza della materia, soprattutto attraverso la lettura del maggior numero di testi poetici che ho avuto la possibilità di reperire, ho notato che esistevano (ed esistono) dei poeti celebratissimi, di cui sono stati consacrati tutti i versi che hanno scritto; le tante edizioni delle loro "opera omnia" sembrano sancire una sorta d'infallibilità, ogniqualvolta si cimentassero nello scrivere poesie. Al contrario, altri poeti - che personalmente ritengo molto bravi - sono stati trascurati o, in casi più rari, ignorati dalla critica e purtroppo anche dai lettori. Per fortuna il tempo non cancella tutto, ed è possibile, per chi ne abbia la volontà, scoprire tesori nascosti anche nel campo della poesia italiana (parlo in particolar modo del XX secolo); ciò può avvenire leggendo dei saggi stampati in volume o pubblicati in riviste, in cui si parli proprio di questi poeti caduti nell'oblio. Tramite le librerie antiquarie è possibile acquistare alcuni dei volumi di questi poeti negletti, oppure, si possono leggere i loro versi presenti in riviste e giornali ormai introvabili, ma che ora, grazie alla digitalizzazione delle opere letterarie, è sempre più facile trovare nella rete (le cosiddette emeroteche digitali). Sempre su internet, in determinati siti sono a disposizione dei volumi di versi in formato ebook, di tanti e tanti poeti che nessuno conosce e che invece andrebbero letti, apprezzati e rivalutati. Io, che da quando mi sono appassionato a questa materia, ho sempre amato, al di là di chi li aveva scritti, tutti i versi "belli", non mi sono mai fossilizzato sui grandi nomi della poesia; al contrario mi hanno suscitato un'infinita curiosità quei poeti di cui, un po' per caso, avevo letto pochi versi che mi erano piaciuti alquanto, di cui non riuscivo a trovarne traccia nelle antologie e, in alcuni casi, neppure nei saggi critici. Ancora oggi, dopo tanti anni, la mia ricerca in questo campo continua; e sempre riesco - scavando e scavando - a trovare un ennesimo tesoro poetico sepolto.