Ecco altre dieci
poesie che parlano della Resistenza e della 2° Guerra Mondiale. Le pubblico nel giorno 25 aprile,
per ribadire, in tempi in cui vanno troppo di moda stupide nostalgie, quanto
sia fondamentale per la nostra esistenza la liberazione dal nazifascismo.
Alcuni versi descrivono gli orrori di una guerra che fu tra le più tremende
della storia dell'umanità; altre vogliono celebrare i partigiani italiani, così
importanti per il raggiungimento dell'obiettivo, così coraggiosi se si pensa
alle torture di cui furono vittime molti di loro, e alle conseguenti morti avvenute,
spesso, in giovane età. Sono, tutti, versi bellissimi, perché sinceri, spontanei,
e perché la migliore poesia nasce anche e soprattutto da esperienze dolorose.
HO DORMITO L'ULTIMA
NOTTE
di Elio Filippo
Accrocca (1923-1996)
Ho dormito l’ultima
notte
nella casa di mio
padre
al quartiere
proletario.
La guerra, aborto
d’uomini
dementi, è passata
sulla
mia casa di San
Lorenzo.
Il cuore ha le sue
distruzioni
come le macerie di
spettri,
eppure il cuore
ancora grida,
geme, dispera, ma
vive
come la madonna di
Raffaello
salvata tra i sassi
della mia casa
e un paio di calzoni
grigioverdi.
(Da
"Portonaccio", Scheiwiller, Milano 1949)
RETROVIA
di Giorgio Bassani
(1916-2000)
Non li vedi, tu, gli
angeli tutelari
che còmpitano la tua
croce.
Hanno come te gli
occhi chiari,
quasi puerile la
voce.
Li vedessi, forse
sorrideresti.
Non portan clamidi
stole o tocchi;
polverosi, sono,
rotti
di fatica: hanno tute
celesti.
Parlano. Li senti
bisbigliare
di non sai che pace,
che speranza:
in un paese di là dal
mare
questa è sera di
vacanza.
Nella sera il monte
odora
oleandri da una tomba
di sassi.
la vita non è più,
ora,
per te che un
dileguare di passi.
(Da "Storie di
poveri amanti", Astrolabio, Roma 1946)
CANTO DEGLI ULTIMI
PARTIGIANI
di Franco Fortini
(1917-1994)
Sulla spalletta del
ponte
Le teste degli
impiccati
Nell'acqua della
fonte
La bava degli
impiccati.
Sul lastrico del
mercato
Le unghie dei
fucilati
Sull'erba secca del
prato
I denti dei fucilati.
Mordere l'aria
mordere i sassi
La nostra carne non è
più d'uomini
Mordere l'aria
mordere i sassi
Il nostro cuore non è
più d'uomini.
Ma noi s'è letta
negli occhi dei morti
E sulla terra faremo
libertà
Ma l'hanno stretta i
pugni dei morti
La giustizia che si
farà.
(Da "Foglio di
via e altri versi", Einaudi, Torino 1946)
ANNIVERSARIO
di Alfonso Gatto
(1909-1976)
Io ricordo quei
giorni: nell’ignoto
mattino ove a
svegliarci era il terrore
d’esser rimasti soli,
udivo il cielo
come una voce morta.
E già la luce
abbandonata dai
morenti ai vetri
mi toccava la fronte,
sui capelli
lasciava l’orma del
suo sonno eterno.
Un grido umano che
s’udisse, nulla
solo la neve - e
tutti erano vivi
dietro quel muro a
piangere, il silenzio
beveva a fiumi il
pianto della terra.
Oh, l’Europa gelata
nel suo cuore
mai più si scalderà:
sola, coi morti
che l’amano in
eterno, sarà bianca
senza confini, unita
dalla neve.
(Da "La storia
delle vittime", Mondadori, Milano 1966)
MORTE DEL PARTIGIANO
di Corrado Govoni
(1884-1965)
Dorme nei suoi
capelli, vegetali
fili che il sole e il
vento scioglieranno
vivi all’alba: una
buia sventagliata
di mitra lo sferzò
tra capo e collo
come brusca manata di
un amico:
così cadde supino,
per voltarsi
a riconoscerlo e a
scambiare il colpo.
Non sentì
allontanarsi per la riva
i passi dei
fucilatori, dopo
che gli diedero un
calcio per saluto
gridandogli:
«Carogna!», e dentro il fiume
scaricarono l’arma e
un po’ più avanti
graffiarono
rabbiosamente il ponte
di bombe a mano:
troppo poco a fare,
anche se così
complice od assente,
che la notte straripi
di terrore
per un sol sparo
secco. Dorme, dorme
lungo disteso,
stretto il gonfio collo
nella sciarpa di
sangue larga e morbida
sempre più gelida; e
il lungo cappotto
indurito di brina è
il suo sepolcro.
E la sua patria è
l'erba.
(Da "Stradario
della primavera", Neri Pozza, Venezia 1958)
CANTO POPOLARE DEL
PATRIOTA MARCHIGIANO
di Franco Matacotta
(1916-1978)
Fucile e baionetta
l'ho gettato
Sputando sangue e
fiele ad una svolta
Al mio paese sono
ritornato
Per riabbracciare i
cani d'una volta.
Ah più non credo, più
non spero in nulla.
Troppe certezze sono
già cadute.
Addio, vacca rognosa,
o Roma, culla
D'angeli neri e rosse
prostitute.
E qua chi cerco? Dove
sono i campi
Perduti nei
crepuscoli viola?
Nel fragoroso turbine
dei lampi
Ritrovo la mia casa
vuota e sola.
Sono fuggiti mio
padre e mia madre
Fuggito è il gatto,
fuggito il cavallo.
Salvo allo scempio
delle folle ladre
È restato a cantare
solo il gallo.
Almeno nelle botti il
vino austero
Fosse rimasto alla
mia gola secca.
Presso la chiesa un
cane magro e nero
Su una chiazza di
sangue a lungo lecca.
Trac! Dalla finestra
dirimpetto
Qualcuno ha
sventagliato la mitraglia.
Un ragazzo col capo
entro il petto
Sanguina in mezzo al
fango ed alla paglia.
Madonna mia, Gesù.
Una donna ha urlato
Nel labirinto fetido
dei vicoli.
La succosa nipote del
curato
Sta alla finestra per
rifarsi i riccioli.
L'amico sputa fuoco
sull'amico.
Il fratello è in
agguato del vicino.
E devo torturarmi se
il panìco
Non c'è più per
sfamare il canarino?
No, non posso più
piangere, non posso
Più gridare né a
Cristo né alle stelle.
Che colpa abbiamo se
ci scroscia addosso
La risata frenetica e
ribelle?
Siamo accecati d'odio
e di dolore.
Mordiamo a sangue
l'aria dura e avara.
Ma per salvarti
abbiamo ancora il cuore,
O Italia, cagna nera,
patria cara!
(Da "Fisarmonica
rossa", Darsena, Roma-Milano 1945)
TU NON SAI LE COLLINE
di Cesare Pavese
(1908-1950)
Tu non sai le colline
dove si è sparso il
sangue.
Tutti quanti fuggimmo
Tutti quanti gettammo
l’arme e il nome. Una
donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno
chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro,
tacendo.
Ora è un cencio di
sangue
e il suo nome. Una
donna
ci aspetta alle
colline.
(Da "Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi", Einaudi, Torino 1951)
ALLE FRONDE DEI
SALICI
di Salvatore
Quasimodo (1901-1968)
E come potevano noi
cantare
Con il piede
straniero sopra il cuore,
fra i morti
abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di
ghiaccio, al lamento
d’agnello dei
fanciulli, all’urlo nero
della madre che
andava incontro al figlio
crocifisso sul palo
del telegrafo?
Alle fronde dei
salici, per voto,
anche le nostre cetre
erano appese,
oscillavano lievi al
triste vento.
(Da "Giorno dopo
giorno", Mondadori, Milano 1947)
I LUPI
di Nelo Risi
(1920-2015)
La mia città deserta
un nero vento invade,
la mia città dolora
all'alba delle case.
Il muro non misura
più di tre metri: il
sonno
di quel ragazzo steso
a lato è un peso
eterno
I lupi sono scesi
visitano le strade,
autunno o primavera
non mutano paese
La mia città deserta
ha occhi di rovina,
le rose del suo
sangue
c'è già chi le
coltiva.
(Da
"L'Esperienza", Edizioni «La Meridiana», Milano 1949)
IL PERIODO
CLANDESTINO
di Mario Tobino
(1910-1991)
Fu un amore, amici,
che doveva finire;
credemmo che gli
uomini fossero santi,
i cattivi uccisi da
noi,
credemmo diventasse
tutta festa e perdono,
le piante stormissero
fanfare di verde,
la morte premio che
brilla
come sul petto del
bambino
la medaglia alle
scuole elementari.
Con pena, con lunga
ritrosia,
ci ricredemmo.
Rimane in noi il
giglio di quell’amore.
(Da "L'asso di
picche", Vallecchi, Firenze 1955)