lunedì 25 aprile 2016

La Resistenza in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ecco altre dieci poesie che parlano della Resistenza e della 2° Guerra Mondiale. Le pubblico nel giorno 25 aprile, per ribadire, in tempi in cui vanno troppo di moda stupide nostalgie, quanto sia fondamentale per la nostra esistenza la liberazione dal nazifascismo. Alcuni versi descrivono gli orrori di una guerra che fu tra le più tremende della storia dell'umanità; altre vogliono celebrare i partigiani italiani, così importanti per il raggiungimento dell'obiettivo, così coraggiosi se si pensa alle torture di cui furono vittime molti di loro, e alle conseguenti morti avvenute, spesso, in giovane età. Sono, tutti, versi bellissimi, perché sinceri, spontanei, e perché la migliore poesia nasce anche e soprattutto da esperienze dolorose.




HO DORMITO L'ULTIMA NOTTE
di Elio Filippo Accrocca (1923-1996)

Ho dormito l’ultima notte
nella casa di mio padre
al quartiere proletario.

La guerra, aborto d’uomini
dementi, è passata sulla
mia casa di San Lorenzo.

Il cuore ha le sue distruzioni
come le macerie di spettri,
eppure il cuore ancora grida,

geme, dispera, ma vive
come la madonna di Raffaello
salvata tra i sassi della mia casa

e un paio di calzoni grigioverdi.

(Da "Portonaccio", Scheiwiller, Milano 1949)




RETROVIA
di Giorgio Bassani (1916-2000)

Non li vedi, tu, gli angeli tutelari
che còmpitano la tua croce.
Hanno come te gli occhi chiari,
quasi puerile la voce.

Li vedessi, forse sorrideresti.
Non portan clamidi stole o tocchi;
polverosi, sono, rotti
di fatica: hanno tute celesti.

Parlano. Li senti bisbigliare
di non sai che pace, che speranza:
in un paese di là dal mare
questa è sera di vacanza.

Nella sera il monte odora
oleandri da una tomba di sassi.
la vita non è più, ora,
per te che un dileguare di passi.

(Da "Storie di poveri amanti", Astrolabio, Roma 1946)




CANTO DEGLI ULTIMI PARTIGIANI
di Franco Fortini (1917-1994)

Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell'acqua della fonte
La bava degli impiccati.

Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull'erba secca del prato
I denti dei fucilati.

Mordere l'aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d'uomini
Mordere l'aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d'uomini.

Ma noi s'è letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà
Ma l'hanno stretta i pugni dei morti
La giustizia che si farà.

(Da "Foglio di via e altri versi", Einaudi, Torino 1946)




ANNIVERSARIO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Io ricordo quei giorni: nell’ignoto
mattino ove a svegliarci era il terrore
d’esser rimasti soli, udivo il cielo
come una voce morta. E già la luce
abbandonata dai morenti ai vetri
mi toccava la fronte, sui capelli
lasciava l’orma del suo sonno eterno.

Un grido umano che s’udisse, nulla
solo la neve - e tutti erano vivi
dietro quel muro a piangere, il silenzio
beveva a fiumi il pianto della terra.

Oh, l’Europa gelata nel suo cuore
mai più si scalderà: sola, coi morti
che l’amano in eterno, sarà bianca
senza confini, unita dalla neve.

(Da "La storia delle vittime", Mondadori, Milano 1966)




MORTE DEL PARTIGIANO
di Corrado Govoni (1884-1965)

Dorme nei suoi capelli, vegetali
fili che il sole e il vento scioglieranno
vivi all’alba: una buia sventagliata
di mitra lo sferzò tra capo e collo
come brusca manata di un amico:
così cadde supino, per voltarsi
a riconoscerlo e a scambiare il colpo.
Non sentì allontanarsi per la riva
i passi dei fucilatori, dopo
che gli diedero un calcio per saluto
gridandogli: «Carogna!», e dentro il fiume
scaricarono l’arma e un po’ più avanti
graffiarono rabbiosamente il ponte
di bombe a mano: troppo poco a fare,
anche se così complice od assente,
che la notte straripi di terrore
per un sol sparo secco. Dorme, dorme
lungo disteso, stretto il gonfio collo
nella sciarpa di sangue larga e morbida
sempre più gelida; e il lungo cappotto
indurito di brina è il suo sepolcro.
E la sua patria è l'erba.

(Da "Stradario della primavera", Neri Pozza, Venezia 1958)




CANTO POPOLARE DEL PATRIOTA MARCHIGIANO
di Franco Matacotta (1916-1978)

Fucile e baionetta l'ho gettato
Sputando sangue e fiele ad una svolta
Al mio paese sono ritornato
Per riabbracciare i cani d'una volta.

Ah più non credo, più non spero in nulla.
Troppe certezze sono già cadute.
Addio, vacca rognosa, o Roma, culla
D'angeli neri e rosse prostitute.

E qua chi cerco? Dove sono i campi
Perduti nei crepuscoli viola?
Nel fragoroso turbine dei lampi
Ritrovo la mia casa vuota e sola.

Sono fuggiti mio padre e mia madre
Fuggito è il gatto, fuggito il cavallo.
Salvo allo scempio delle folle ladre
È restato a cantare solo il gallo.

Almeno nelle botti il vino austero
Fosse rimasto alla mia gola secca.
Presso la chiesa un cane magro e nero
Su una chiazza di sangue a lungo lecca.

Trac! Dalla finestra dirimpetto
Qualcuno ha sventagliato la mitraglia.
Un ragazzo col capo entro il petto
Sanguina in mezzo al fango ed alla paglia.

Madonna mia, Gesù. Una donna ha urlato
Nel labirinto fetido dei vicoli.
La succosa nipote del curato
Sta alla finestra per rifarsi i riccioli.

L'amico sputa fuoco sull'amico.
Il fratello è in agguato del vicino.
E devo torturarmi se il panìco
Non c'è più per sfamare il canarino?

No, non posso più piangere, non posso
Più gridare né a Cristo né alle stelle.
Che colpa abbiamo se ci scroscia addosso
La risata frenetica e ribelle?

Siamo accecati d'odio e di dolore.
Mordiamo a sangue l'aria dura e avara.
Ma per salvarti abbiamo ancora il cuore,
O Italia, cagna nera, patria cara!

(Da "Fisarmonica rossa", Darsena, Roma-Milano 1945)




TU NON SAI LE COLLINE
di Cesare Pavese (1908-1950)

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
Tutti quanti gettammo
l’arme e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

(Da "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", Einaudi, Torino 1951)




ALLE FRONDE DEI SALICI
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

(Da "Giorno dopo giorno", Mondadori, Milano 1947)




I LUPI
di Nelo Risi (1920-2015)

La mia città deserta
un nero vento invade,
la mia città dolora
all'alba delle case.

Il muro non misura
più di tre metri: il sonno
di quel ragazzo steso
a lato è un peso eterno

I lupi sono scesi
visitano le strade,
autunno o primavera
non mutano paese

La mia città deserta
ha occhi di rovina,
le rose del suo sangue
c'è già chi le coltiva.

(Da "L'Esperienza", Edizioni «La Meridiana», Milano 1949)




IL PERIODO CLANDESTINO
di Mario Tobino (1910-1991)

Fu un amore, amici,
che doveva finire;
credemmo che gli uomini fossero santi,
i cattivi uccisi da noi,
credemmo diventasse tutta festa e perdono,
le piante stormissero fanfare di verde,
la morte premio che brilla
come sul petto del bambino
la medaglia alle scuole elementari.
Con pena, con lunga ritrosia,
ci ricredemmo.
Rimane in noi il giglio di quell’amore.


(Da "L'asso di picche", Vallecchi, Firenze 1955)

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