Quasi sempre, nei versi di questi poeti, si fa riferimento alla croce cristiana, a cui viene spesso aggiunto il calvario quale simbolo di sofferenza, di estremo dolore ma anche di purificazione e, ovviamente, di divino. In alcune poesie la croce assume la forma di un simbolo funesto, sia perché sta a ricordare fatti violenti e luttuosi, sia per il motivo che, rifacendosi alla tradizione cristiana, essa ha rappresentato e tuttora rappresenta la morte. In due composizioni c'è anche l'abbinamento Rosa-Croce: simbolo fondamentale dell'esoterismo cristiano e dell'intero occidente, dove si uniscono il dolore umano e la gloria universale.
LA CROCE E LE ROSE
di Antonino Anile (1869-1943)
Una Croce col Cristo s'erge
in fondo sull'ampia radura,
appena l'alba di sua pura
luce i cieli opachi deterge.
Della Croce solenne al piede
(poi che l'Aprile ha già disciolto
i rivoli pei campi) un folto
rosaio fiorire si vede.
Le rame, perlate di brine,
si snodano, meravigliose
di vivi boccioli di rose,
attorno alle membra divine.
Pei fianchi del Cristo morente
si tendono l'ardue volute,
e salgono, e, sotto le mute
labbra, s'apre una rosa ardente;
e salgono, e tutta la bionda
cesarie del pio Nazareno,
la fronte reclina, ecco, un pieno
serto di corolle circonda.
Al nuovo trionfo la grande
soave pupilla pensosa
sorride; e nella luminosa
aria quel sorriso si espande:
e passa su tutte le aiuole
e va coi fiumi tributari,
e brilla sui ceruli mari
co'l vasto sorriso del Sole.
Par che le rose, in un giocondo
anelito, siano salite
a detergere le ferite
di tutto il dolore del mondo.
La Croce solenne, di nera
tagliata ròvere rubesta,
come albero novo si desta
al soffio della primavera.
Le rose dischiuse fiammanti
abbracciano il Cristo che geme;
e paion bocche che a supreme
ebbrezze s'aprano anelanti;
e pare che il sangue divino
sia tutto passato alle rose,
che effondono con odorose
parole un linguaggio divino;
e par che la trama del fiore
schiuso appena, la trama d'ogni
petalo, sia quella dei sogni
che s'aprono di un Dio nel cuore.
Ritenne la Terra nell'ime
profondità il Verbo celeste;
e, quando di fiori si veste,
quel Verbo per gli uomini esprime.
Per ogni speranza, sfiorita
dentro le stanche anime umane,
ridono le balze montane
e i piani di nuova fiorita.
Per le vigilie dolorose,
pei cuori da l'Odio ritorti,
per l'ultimo sogno dei morti
la Terra fiorisce di rose.
Pel sangue fraterno, che 'n guerra
fumiga ancora su le zolle,
parole d'amore, in corolle
di rose, dischiude la Terra.
(Da "La Croce e le rose", Ricciardi, Napoli 1909)
LA CROCE
di Giuseppe Casalinuovo (1885-1942)
In fondo della strada, che protende
l'ultima curva al ciglio del ripiano,
le larghe braccia, in pio gesto cristiano,
la croce solitaria al ciel distende.
Qualche cosa d'ignoto essa contende
sempre nel sole o in mezzo all'uragano,
ed un senso di tragico e di umano
in quel suo gesto supplice risplende.
La croce è nuda, sola, senza il pondo,
tra le sue braccia immobili sospeso,
del vecchio Cristo eternamente biondo.
Ma, con il corpo martoriato e leso,
sta crocifisso tutto quanto il mondo,
alle sue braccia eternamente appeso.
(Da "La lampada del Poeta", Zanichelli, Bologna 1929)
LA CROCE
di Marcus De Rubris (Marco Rossi, 1885-?)
Sotto il Simbolo immenso, che il Calvario
profilato ne 'l ciel di Galilea
un giorno a Gerosolima tenea,
L'Artefice dispose in modo vario
la Forza e l'Umiltà divinamente,
ne i muscoli marmorei conteste
a luci inarrivate ed a profonde
ombre tenaci. - Rivelò l'ardente
sogno quest'opra di superba veste,
cui sono vita l'alme tremebonde
ne 'l gran mistero che la Croce asconde.
Effigiando quest'ardimentosa
opera, certo volle, l'ansiosa
anima, rivelare il Solitario.
(Da "Anima nova", Streglio, Torino-Genova-Milano 1906)
LA CROCE GLORIATA
di Luigi Fallacara (1890-1963)
Dal profondo di terre oscure alzata,
ripida d'oltre ogni costellazione,
in ansia d'orizzonti attraversata,
o Croce aperta in ogni direzione!
O Croce di dolore gloriata,
sullo spazio perduto in creazione
l'interezza d'amor t'ha dilatata,
e l'universo ha nome Passione.
Profondità, distanza, perdutezza
d'astri che si ricolmano d'assenza,
ardendo impietosi di desio,
lontananza che sei sola pienezza,
Passione, vastissima presenza,
dell'universo che dolora Iddio.
(Da "Illuminazioni", Casa dei poeti, Varese 1925)
ALLA CROCE
di Giulio Gianelli (1879-1914)
Un dì che mi parevi irta di spine
estenuato dal tuo peso immenso
proruppi: - tu non mi darai compenso,
voglio un rogo innalzar per la tua fine!
Io voglio, o croce, rotto quel confine
che non si varca mai per tuo consenso,
tutto il piacere... poi, mille rovine!
Ma perdonami, o croce; ecco, felice
oggi grido abbracciandoti: - il Calvario
è la più amena e florida pendice.
In lui coversi tutto il mio desio:
vivere amando, pianger solitario,
né ricrearmi che lassù, con Dio.
(Da "Mentre l'esiglio dura", Castellotti, Torino 1903)
LA CROCE NEL TRONCO
di Arturo Graf (1848-1913)
Tu, che scolpisti nel core
Di questo lugubre legno
Il formidabile segno
Dell’immortale dolore;
O vïator sconosciuto,
O sognator vagabondo,
O nauseato del mondo,
Le tue vestigia saluto!
Ancora vivi? Gli ascosi
Greppi e le selve erri ancora?
O nell’oscura dimora,
Placato alfine, riposi?
In grembo alla madre antica,
Sotto le morbide zolle,
Ove si cheta la folle
Smania e la vana fatica?
E se ancor vivi, rammenti
L’ora del tuo passaggio
Per questo bosco selvaggio,
Ignoto quasi ai viventi?
E ti sovviene il pensiero,
Che in te qui fisse l’artiglio,
Qui, dove manca sul ciglio
Dell’erma balza il sentiero?
Ah, se ancor vivi, di certo
Ricordi il tutto: l’accesa
Fede, l’inganno, l’offesa...
Questo silenzio deserto.
E se non vivi... La scura
Tua piaga vive nel segno;
Che lacera questo legno,
E incancellabile dura.
(Da "Le rime della selva", Treves, Milano 1906)
IL CROCIFISSO
di Guido Marta (1882-?)
C'è una finestra con le sbarre in croce,
a cui m'affaccio immobile, proteso
verso il cielo sereno, alto, disteso
come un fiume d'azzurro — ampio — alla foce:
e la mia vita — stretta all'inferriata —
sospesa sotto il cielo sull'abisso,
appare, a un tratto, logora e sbiancata,
come un povero sogno crocifisso.
(Da "La neve in giardino", Il Giornale dell'Isola, Catania 1922)
LA CROCE
di Fausto Maria Martini (1886-1930)
Penso quell'ore, e mi si sgrana ognuna
(quell'ore!) come avemarie seguaci,
se l'altra sorga e non ancora l'una
si spenga con un murmure di baci...
Così, per te, mi son fatto un rosario,
da dirsi ogni mattina a bassa voce,
se mai m'esorti a questo mio calvario...
finché non trovo in fondo, ahimé! la croce.
La croce! Quella che sola ci resta
d'ogni dolcezza: ancora, qualche odore
d'incenso... sera d'un giorno di festa...
Singhiozzo d'una lampada che muore...
(Da "Poesie provinciali", Ricciardi, Napoli 1910)
UN SOLO PROFUMO DI ROSA
di Arturo Onofri (1885-1928)
Un solo profumo di rosa
In calda atmosfera veloce,
beato di sé, si riposa
nell’ombra che ha forma di croce.
È solo un profumo: è sospiro
Di farsi bontà volontaria,
che induce a color di zaffiro
il nimbo di sole dell’aria.
La terra solleva dall’ombra,
con braccia d’eterno avvenire,
il duro dolor che la ingombra,
sognando altri cieli fiorire.
E ignara ogni vita si sposa,
dall’ombra che ha forma di croce,
a un cielo che odora di rosa,
in calda atmosfera veloce.
(Da "Terrestrità del sole", Vallecchi, Firenze 1927)
LA CROCE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)
Laddove le vie fan crocicchio,
poggiata a un cipresso è la Croce.
Sul nero del legno risplendono i numeri bianchi:
ricordo del giorno.
La gente passando si ferma un istante
e sol con due dita toccando leggero quel legno,
fa il Segno di Croce.
(Da "I cavalli bianchi", Firenze 1905)
CROCE INCISA SUL PRATO
di Romualdo Pantini (1877-1945)
Fu nel rigoglio della primavera:
l'uom de la villa un suo fratello uccise.
Il fratello cadendo gli sorrise,
e sorridendo entrò ne la sua sera.
Al cospetto dei monti, croce nera
non sorse a benedir le zolle intrise;
ma col sasso un pastor due solchi incise
per lo scongiuro della diavolera.
La vernata non fu mite di nevi:
la pioggia imperversò per entro i brevi
solchi, li deformò peggio che buca.
Ora al maggio novello, molte spine
chiudono i pochi fili d'erba fine.
La pecora sogguarda e non vi bruca.
(Da "Antifonario", L'arte del libro, Vasto 1906)
OGNI MATTINO FU COME UNA CROCE
di Federigo Tozzi (1883-1920)
Ogni mattino fu come una croce
dove l'anima mia stette inchiodata.
E la luna, allo strazio, senza voce
restava in cielo come disperata.
Ogni mattino il canto si sovvenne
che lacrimava tutto l'infinito;
dove vedea passar le eterne penne
come un silenzio che nessuno ha udito.
(Da "Le poesie", Vallecchi, Firenze 1981)
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
domenica 15 giugno 2014
sabato 7 giugno 2014
Gli animali in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo (II)
VOLO DI COLOMBE A NOTTE
di Luigi Bartolini (1892-1963)
Volo,
volo
nero,
s'ode
per le oscure
balze
della notte,
per le oscure
vele
della notte,
salire in cielo.
E' di colombe
disperse
che cercano
altre colombe
collarine.
Volo
volo nero
volo grigio
volo d'argento
s'ode
che sale
dalle balze,
per le oscure
torme,
della notte,
al primo cielo.
(Da "Poesie 1911-1963", Rebellato, Cittadella 1964)
LA MUCCA SULLA VETTA DELLA MONTAGNA
di Umberto Bellintani (1914-1999)
Salita era la mucca sulla più alta montagna,
e da lassù lanciava il suo muggito al cielo
e si poteva ben crederla il più grandioso dio.
S'udiva il suo muggito calare alla valle.
S'udiva il suo muggito salire alle stelle.
E quella mucca sulla montagna era ancor visibile;
perciò ogni uomo aveva gli occhi rivolti lassù.
Era la sera e il cielo era chiarissimo.
E nessuno si chiedeva di chi fosse l'animale,
poiché era un fatto grandioso e quel mugghiare
affascinava ogni spirito e incuteva timore.
Poi fu la notte densa di oscurità;
e le lanterne si accesero per salire sul monte.
Ma già la mucca era scesa e attraversava il paese
come sempre aveva fatto col suo silenzio bovino.
(Da "E tu che m'ascolti", Mondadori, Milano 1963)
IL GIBBONE
di Giorgio Caproni (1912-1990)
No, non è questo il mio
paese. Qua
- fra tanta gente che viene,
tanta gente che va -
io sono lontano e solo
(straniero) come
l'angelo in chiesa dove
non c'è Dio. Come,
allo zoo, il gibbone.
Nell'ossa ho un'altra città
che mi strugge. E' là.
L'ho perduta. Città
grigia di giorno e, di notte,
tutta una scintillazione
di lumi - un lume
per ogni vivo, come,
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
- mai, - mi ricondurrà.
(Da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1993)
GABBIANI
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
(Da "Poesie", Mondadori, Milano 1958)
GALLO
di Libero De Libero (1906-1981)
A registro della notte
di Luigi Bartolini (1892-1963)
Volo,
volo
nero,
s'ode
per le oscure
balze
della notte,
per le oscure
vele
della notte,
salire in cielo.
E' di colombe
disperse
che cercano
altre colombe
collarine.
Volo
volo nero
volo grigio
volo d'argento
s'ode
che sale
dalle balze,
per le oscure
torme,
della notte,
al primo cielo.
(Da "Poesie 1911-1963", Rebellato, Cittadella 1964)
LA MUCCA SULLA VETTA DELLA MONTAGNA
di Umberto Bellintani (1914-1999)
Salita era la mucca sulla più alta montagna,
e da lassù lanciava il suo muggito al cielo
e si poteva ben crederla il più grandioso dio.
S'udiva il suo muggito calare alla valle.
S'udiva il suo muggito salire alle stelle.
E quella mucca sulla montagna era ancor visibile;
perciò ogni uomo aveva gli occhi rivolti lassù.
Era la sera e il cielo era chiarissimo.
E nessuno si chiedeva di chi fosse l'animale,
poiché era un fatto grandioso e quel mugghiare
affascinava ogni spirito e incuteva timore.
Poi fu la notte densa di oscurità;
e le lanterne si accesero per salire sul monte.
Ma già la mucca era scesa e attraversava il paese
come sempre aveva fatto col suo silenzio bovino.
(Da "E tu che m'ascolti", Mondadori, Milano 1963)
IL GIBBONE
di Giorgio Caproni (1912-1990)
No, non è questo il mio
paese. Qua
- fra tanta gente che viene,
tanta gente che va -
io sono lontano e solo
(straniero) come
l'angelo in chiesa dove
non c'è Dio. Come,
allo zoo, il gibbone.
Nell'ossa ho un'altra città
che mi strugge. E' là.
L'ho perduta. Città
grigia di giorno e, di notte,
tutta una scintillazione
di lumi - un lume
per ogni vivo, come,
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
- mai, - mi ricondurrà.
(Da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1993)
GABBIANI
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
(Da "Poesie", Mondadori, Milano 1958)
GALLO
di Libero De Libero (1906-1981)
A registro della notte
il gallo nomina astri
e fuochi alle stagioni.
Guardiano del sonno
gli è febbre l'aurora
nell'ala rinata, strepita
d'alba il suo canto
e tutta l'aria s'impenna,
è del suo regno
la giornata guerriera.
Padrone dell'ora
è la sua cresta una legge,
onore della giostra,
al bel tempo e al vento
del suo grido si arma la luce.
E se col morto sole patisce
rapido sfugge alla catena,
già nel suo occhio stretto
un altro mattino s'indora.
(Da "Scempio e lusinga. 1930-1956", Mondadori, Milano 1972)
L'ORSO
di Luciano Erba (1922-2010)
Dovevi imparare dall'orso
che cosa?
la solitudine nei boschi, la monogamia
oggi
non puoi essere che un orsetto di pezza
un bigio orsacchiotto
in braccio allo stato sociale.
(Da "Negli spazi intermedi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1998)
IL VERDONE DI MARE
di Nico Orengo (1944-2009)
Il verdone di mare,
che tra le alghe
prova la resistenza
della coda, ignora
che tra i rami dell'ulivo
un uccello simile nel nome
guizza, per conoscere
l'elasticità delle sue ali.
(Da "Cartoline di mare vecchie e nuove", Einaudi, Torino 1999)
PER UNA FARFALLA
di Anna Maria Ortese (1914-1998)
Dormi da ieri sera.
Nella spazzatura
ti eri rifugiata.
Niente ti ha svegliata.
Neppure il sole.
Neppure un geranio
verde e rosso.
Com'è strano
il tuo sonno - perché
mai hai parlato,
e neppure ieri,
e neppure stamane,
e intanto ti sfai.
Ma forse sei un'ombra,
di Te - che ora vai
volando nell'oro
nel verde, sui fiori,
sul biancospino
di un fresco giardino,
su una sponda
o l'altra
delle tumultuose adoranti
Costellazioni.
(Da "Il mio paese è la notte", Empirìa, Roma 1996)
L'UCCELLINO DEGLI ADDII
di Alessandro Parronchi (1914-2007)
Da uno strappo di fumo
nel tetto delle pensiline
frulla e sfiora la morchia risecchita
sulle rotaie e su un nonnulla
di piccoli rifiuti
saltella infine e becchetta
l'uccellino degli addii, il felice abitante
della tetra stazione, che sa tutto
di chi parte e di chi rimane,
di chi cerca e cercherà senza fine,
di chi deve lasciar quel che ha trovato
e di chi fugge e abbandona.
A un fischio vola via, rinfila la leggera
volta, balza, scompare al viaggiatore
nell'atto di partire, ma col cuore
tremante di chi arriva
la prima volta a una città straniera.
(Da "Coraggio di vivere", Garzanti, Milano 1961)
L'OMO E LA SCIMMIA
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)
L’Omo disse a la Scimmia:
- Sei brutta , dispettosa:
ma come sei ridicola!
ma quanto sei curiosa!
Quann’io te vedo, rido:
rido nun se sa quanto!...
La Scimmia disse: – Sfido!
T’ arissomijo tanto!
(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1951)
(Da "Scempio e lusinga. 1930-1956", Mondadori, Milano 1972)
L'ORSO
di Luciano Erba (1922-2010)
Dovevi imparare dall'orso
che cosa?
la solitudine nei boschi, la monogamia
oggi
non puoi essere che un orsetto di pezza
un bigio orsacchiotto
in braccio allo stato sociale.
(Da "Negli spazi intermedi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1998)
IL VERDONE DI MARE
di Nico Orengo (1944-2009)
Il verdone di mare,
che tra le alghe
prova la resistenza
della coda, ignora
che tra i rami dell'ulivo
un uccello simile nel nome
guizza, per conoscere
l'elasticità delle sue ali.
(Da "Cartoline di mare vecchie e nuove", Einaudi, Torino 1999)
PER UNA FARFALLA
di Anna Maria Ortese (1914-1998)
Dormi da ieri sera.
Nella spazzatura
ti eri rifugiata.
Niente ti ha svegliata.
Neppure il sole.
Neppure un geranio
verde e rosso.
Com'è strano
il tuo sonno - perché
mai hai parlato,
e neppure ieri,
e neppure stamane,
e intanto ti sfai.
Ma forse sei un'ombra,
di Te - che ora vai
volando nell'oro
nel verde, sui fiori,
sul biancospino
di un fresco giardino,
su una sponda
o l'altra
delle tumultuose adoranti
Costellazioni.
(Da "Il mio paese è la notte", Empirìa, Roma 1996)
L'UCCELLINO DEGLI ADDII
di Alessandro Parronchi (1914-2007)
Da uno strappo di fumo
nel tetto delle pensiline
frulla e sfiora la morchia risecchita
sulle rotaie e su un nonnulla
di piccoli rifiuti
saltella infine e becchetta
l'uccellino degli addii, il felice abitante
della tetra stazione, che sa tutto
di chi parte e di chi rimane,
di chi cerca e cercherà senza fine,
di chi deve lasciar quel che ha trovato
e di chi fugge e abbandona.
A un fischio vola via, rinfila la leggera
volta, balza, scompare al viaggiatore
nell'atto di partire, ma col cuore
tremante di chi arriva
la prima volta a una città straniera.
(Da "Coraggio di vivere", Garzanti, Milano 1961)
L'OMO E LA SCIMMIA
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)
L’Omo disse a la Scimmia:
- Sei brutta , dispettosa:
ma come sei ridicola!
ma quanto sei curiosa!
Quann’io te vedo, rido:
rido nun se sa quanto!...
La Scimmia disse: – Sfido!
T’ arissomijo tanto!
(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1951)
sabato 31 maggio 2014
I muri nella poesia italiana decadente e simbolista
I muri possono riferirsi, a seconda dei casi, ad una sensazione di prigionia ovvero quella di trovarsi in uno stato di isolamento dal resto dell'umanità (e i motivi possono essere svariati), la cosa può portare alla deduzione che l'intera vita, rappresentata da "una muraglia | che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia" sia nient'altro che una prigione da dove è impossibile evadere. Ma i muri (o le mura) esprimono anche enigmaticità e mistero, visto che a volte il poeta si trova davanti a un muro alto che non permette alcuna possibilità di scavalcamento, e allora si chiede cosa ci sia al di là, riuscendo a percepire soltanto alcuni rumori che fanno nascere in lui più di una ipotesi; è, in sostanza, tutto ciò che nasce nella mente umana guardando l'immensità dell'universo: luogo che, per quanto ci si sforzi, non permette una comprensione totale. In altri versi i muri sono popolati da fantasmi, effigiati nei dipinti e nei disegni appesi alle pareti, che nutrono una sorta di risentimento nel vedere i nuovi inquilini di quelle che erano le loro ville, profanare i loro "templi". Altre volte ancora il muro diviene la "mente" dolorosamente trafitta da un "chiodo-pensiero". C'è infine il caso in cui il muro vuol simboleggiare una separazione da altra persona o dal mondo, per incomprensione, mancanza di amore o malattia.
MURO DI CINTA
di Adelchi Baratono (1875-1947)
Sì, basso, ma orlato di punte,
di scheggie, di vetri. I monelli
che vengono a dar la scalata,
si tirano su su su, e, giunte
le mani a toccar la crestata,
ricadon lasciando i brandelli.
Quel muro recinge una valle
angusta, una conca d'ombrati
riposi; gli alberi, tanti!
lì dentro. Di fuori va il calle
bruciato di sole. Davanti
un'erta aridità di prati.
Ieri passò una bambina;
che bella! pe 'l caldo il sudore
madeva l'ovale del viso.
Guardò quell'ombrìa dalla china
segnando con gli occhi un sorriso,
ma poi sentì piangere il cuore!
(Le chiesi:
- Quant'anni hai, bambina? -
Rispose: - Mammina
ha detto, nove anni e tre mesi. -)
Null'altro? E no. Sono come
un piangere, questi paesi.
C'è il sole che affoca... e quei muri...
Domani ci torno. So un nome
che brucia. Lo incido, che duri
sul muro nove anni e tre mesi.
(Da "Sparvieri", Stab. tip. Montorfano, Genova 1900)
IL CHIODO
di Vittorio Emanuele Bravetta (1889-1965)
Come avvenga non so, né per che modo,
battere sento nel silenzio oscuro
un martello.... chi mai batte nel muro?
stupidamente al cupo rombo godo.
Ne l'alta notte quando più mi rodo,
quando più per l'insonnia mi torturo,
io ne la stolta illusion perduro:
chi batte, penso, ne la pietra un chiodo?
Ma sussulto, che poi sento feroce
penetrare una punta entro il cervello
e, ricreduto, a me confesso: errai.
Muro è la mente, il pensier chiodo atroce,
Ve lo pianta il dolor come un martello:
e il muro cede e non si spezza mai!
(Da "Odi e canzoni", Libreria Petrini, Torino 1910)
LA MURAGLIA
di Enrico Cavacchioli (1885-1954)
Pur, nella roggia e trepida muraglia
i caprifichi stendono a viluppi
le foglie scarne, e sembra che ne' gruppi
dei rami gocci sangue a scaglia a scaglia.
Tra queste mura, sospirando, manca
l'aria. Stridendo, a volo, un pipistrello
si precipita e già pel tuo risveglio
Anima - forse - non ti senti stanca!
Ti chiamano. Un cipresso si scompiglia.
Tutto si tace: nel silenzio un rauco
pianger di bimbi ti sconvolge il core
di dolorosa e grave meraviglia;
tu, valichi il cammino ed oltrepassi
corpi di Sfingi e tronchi di Titani,
Chimere di piramidi lontane
che tendono al passante i fianchi grassi;
trovi muraglia, muraglia, muraglia,
si chiudon li occhi, il core s'addormenta,
ma nessuno rimpiange o si lamenta
di questa fuga che il sonno attanaglia.
Tu sei convinto di morire? Un velo
ricopre le pupille lacrimose:
Avanti! Avanti! Ché oltre le pensose
tregue s'à da veder stellare il cielo!
(Da "L'Incubo Velato", Edizioni di «Poesia», Milano 1906)
VECCHIE MURA
di Giovanni Chiggiato (1876-1923)
Quando i nuovi signori
muovono i passi brevi
per l'ampie sale, grevi
di fregi, stucchi e ori,
dalle antiche cornici
appese tra i parati,
gli uomini effigiati
hanno ghigni nemici:
con ira dai socchiusi
cigli inchinano sguardi
attoniti o beffardi
a squadrarne gl'intrusi.
Son giovani alti e snelli
d'una febbre consunti:
pallidi visi smunti,
mani carche d' anelli;
son vecchi venerandi:
per un'impresa eccelsa
stringon superbi un'elsa
nel pugno uso ai comandi;
son donne dai soavi
languori: lunghe e miti
labbra, occhioni spauriti
da peritanze gravi;
ma tutti han fieri cenni
d'odio contro la turba
gretta e vana che turba
i loro ozi centenni.
È giorno? il fuoco splende
nel camino di strani
guizzi, e strepiti arcani,
pur senza il vento, rende:
talor, pur senza il vento,
sbatte o brandisce un uscio;
erra di sete un fruscio
lento sul pavimento;
s'agita di sui vecchi
muri un logoro arazzo;
si sfoglia a un tratto un mazzo
giallo di fiori secchi;
s'increspa nella vasca
l'acqua; l'aria è tranquilla,
ma la lampada oscilla,
ma un vecchio libro casca,
È notte? E tenta il vento
i cardini a le imposte
ne le stanze riposte
ùggiolan di spavento
i cani; in ogni fibra
dei secolari travi
cricchia un tarlo: nel clavi-
cordio una corda vibra:
ronzano strani insetti
di contro a le specchiere;
leva il vento in leggiere
spire dai caminetti
la cenere che vela
l'illanguidir del fuoco;
con un crepitio roco
spegnesi una candela...
Contan che un re tra quelle
mura in tempi lontani
strozzasse di sue mani
un'amante ribelle.
(Da "La fonte ignota", Ist. Veneto di Arti Grafiche, Venezia 1907)
IL MURO
di Pietro Mastri (1868-1932)
Una solinga via fa capo al muro;
alto ed oscuro per crepacci antichi;
dalla cui sommità pendono intrichi
d'ellera, come ancor neri cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi...
Io non lo so, che cinga il vecchio muro.
Di là, nel vespro, il martellar d'un merlo
da invisibili frasche ora mi giunge;
ed un garrir di passeri, più lunge,
da invisibili tetti. Ma che cinga
il vecchio muro in questa via solinga,
io non lo so: né bramo di saperlo.
Che?... Forse l'orto d'un convento... Suore
pallide in volto d'un pallor di cera,
cui sa d'incenso l'ampia veste nera,
vanno per quelle aiòle; e di lor sogni
vedon fiorire, attorno, sfiorire ogni
rosa che nasce, ogni rosa che muore.
Fors'anche un cimitero abbandonato...
Ferve sulla chiesetta il passeraio?
V'è qualche siepe fatta ora sterpaio,
nido di merli?... Ed erbe in gran vigore;
ove, a tratti, un marmoreo biancore
stagna, com'acqua lucida in un prato.
O forse un dolce solitario asilo
d'amore... Ecco il viale dei sorrisi;
mani allacciate, occhi negli occhi fisi.
Bianca nel fondo sta la villa e aspetta.
La luna poi vedrà stamparsi netta
un'ombra in terra, un duplice profilo.
O, chi sa mai?, come talor si vede
retto da un vecchio un gracile bambino,
regge il muro uno squallido giardino.
E dietro, forse, un giovinetto langue;
e chino l'avo su quel volto esangue,
spengersi mira il suo ultimo erede...
Tace ogni suono ormai. Gl'intrichi neri
d'ellera, al sommo dello scabro muro,
lievemente oscillano nel puro
vespro così, com'ispidi cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi;
fronti che serban chiusi i lor pensieri.
(Da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
di Eugenio Montale (1896-1981)
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
(Da "Ossi di seppia", Gobetti, Torino 1925)
IL MURO
di Ada Negri (1870-1944)
Alto è il muro che fiancheggia la mia strada, e la sua nudità rettilinea si prolunga nell'infinito.
Lo accende il sole come un rogo enorme, lo imbianca la luna come un sepolcro.
Di giorno, di notte, pesante, inflessibile, sento il tuo passo di là dal muro.
So che sei lì, e mi cerchi e mi vuoi, pallido del pallore marmoreo che avevi l'ultima volta ch'io ti vidi.
So che sei lì; ma porta non trovo da schiudere, breccia non posso scavare.
Parallela al tuo passo io cammino, senz'altro udire, senz'altro seguire che questo solo richiamo,
sperando incontrarti alla fine, guardarti beata nel viso, svenirti beata sul cuore.
Ma il termine sempre è più lungi, e in me non v'è fibra che non sia stanca;
ed il tuo passo di là dal muro si scande a martello sul battito delle mie arterie.
(Da "Il libro di Mara", Treves, Milano 1919)
PARCO UMIDO
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)
Il parco è serrato serrato serrato,
serrato da un muro eh'è lungo
le miglia le miglia le miglia,
da un muro coperto di muffe,
coperto di verdi licheni,
grondante di dense fanghiglie.
Né un varco soltanto nel parco traspare
né un foro vi luce,
soltanto si posson le muffe cadenti
vedere, soltanto
le dense fanghiglie grondanti.
Altissimi i cedri ne passano il muro,
i pini dal fusto robusto ne sporgon l'ombrello
s' innalzan cipressi, rossastre magnolie,
e salici, e salici tanti
piangenti di pianti lontani,
che mischian sul muro cadenti
le lagrime ai verdi licheni,
a grige fanghiglie grondanti.
Di fuori ecco il parco serrato,
serrato da un muro
ch'è lungo le miglia e le miglia.
Fra l'ombre, fra l'ombre potenti
nel folto degli alberi grandi
soltanto tre donne s'aggirano lento,
bellissime donne: Regine Parenti.
S'aggirano lento in silenzio
ne l'ombre del parco serrato,
pesante trascinano il manto di lutto, le Donne,
coperte da un velo
che appena il pallore del volto ne scopre.
(Da "Lanterna", Stab. Tip. Aladino, Firenze 1907)
CANZONETTA DI FEBBRAIO TRAVERSO IL MURO
di Romualdo Pantini (1877-1945)
La Primavera torna
ed è lontana ancóra!
Ma ogni giorno più vicino torna
anche alla mia dimora.
La sento, come sento lei cantare
le canzonette sue più lunghe e care.
L'inverno ella cantava
solo ai giorni di festa:
cantava tardi sempre in aria mesta
e piano, che parea povera schiava.
Mi giungevano incerte le parole
come vedevo sempre incerto il sole.
Ma Primavera affretta,
per ogni dito offre una violetta:
presto l'avrà per ogni suo capello,
e 'l cielo incanterà solo a vederlo.
Soffio di Primavera,
piccol'ala leggera
che volteggi nell'aria e non ti posi,
posati su quei labbri armoniosi.
Oh! lo saprò quel giorno
del tuo vero ritorno,
o languida terribil Primavera:
dall'alba canterà fino alla sera;
e il giorno dopo a compiere l'incanto,
ecco il muro fra noi scomparso, infranto!
(Da "Canti di vita", Treves, Milano 1910)
IL MURO
di Térésah (Teresa Ubertis, 1877-1964)
Pietra su pietra inesorabilmente
il muro crebbe. Lontanava il cielo;
non fu più che una striscia alta e sottile...
(pietra su pietra!)... e sparve da la mente.
Ella piegava, illanguidito stelo
di giovinezza inferma. E battè Aprile
inutilmente a l'algida vetrata.
Fuori cresceva l'opra inesorata.
S'aderse il muro tenebroso a l'alto:
ella non seppe mai quanto! Pensava
il color delle stelle e la vetrata
scossa da i venti liberi a l'assalto.
Sola una fonte da la pietra cava
gemeva il pianto delle antiche cose.
Sole e gementi, suore dolorose.
Nell'ombra eguale i matutini albori
e le lucide sere ebbero aspetto
eguale: cieli soffusi di rose
vissero, cieli gonfi di bagliori...
Ella seppe soltanto il buio eretto
nemico tra il suo capo umile e il sole.
Sussurrava indicibili parole:
udìa crescere l'erba a' piè del muro,
sognava il muschio verde su la pietra.
Sognò vive, lanciate incontro al sole,
ghirlande di rosai: vide l'oscuro
nemico vinto... E singhiozzava tetra
la fonte, eco del suo trepido cuore.
Poi ch'estate languì nel dolce ardore
de' suoi roseti, a consolar l'inferma
ne trapiantammo a piè del muro fosco.
Ella scordava il tremulo splendore
degli astri... Ma non fu simile a un'erma
bianca, nel verde! il profumato bosco
non ebbe intorno. O dolorosa, ave.
Nell'ora della morte, umile e grave
parlò dell'invincibile nemico:
io raccolsi il suo fato. Ella è dispersa
forse nei venti, cenere soave.
Ma ancor si scaglia il suo dolore antico
incontro al sole, inesorato. Versa
la fonte goccia a goccia il suo compianto
simile a un'eco di lontano pianto.
(Da "Nova lyrica", Roux & Viarengo, Torino-Roma 1904)
MURO DI CINTA
di Adelchi Baratono (1875-1947)
Sì, basso, ma orlato di punte,
di scheggie, di vetri. I monelli
che vengono a dar la scalata,
si tirano su su su, e, giunte
le mani a toccar la crestata,
ricadon lasciando i brandelli.
Quel muro recinge una valle
angusta, una conca d'ombrati
riposi; gli alberi, tanti!
lì dentro. Di fuori va il calle
bruciato di sole. Davanti
un'erta aridità di prati.
Ieri passò una bambina;
che bella! pe 'l caldo il sudore
madeva l'ovale del viso.
Guardò quell'ombrìa dalla china
segnando con gli occhi un sorriso,
ma poi sentì piangere il cuore!
(Le chiesi:
- Quant'anni hai, bambina? -
Rispose: - Mammina
ha detto, nove anni e tre mesi. -)
Null'altro? E no. Sono come
un piangere, questi paesi.
C'è il sole che affoca... e quei muri...
Domani ci torno. So un nome
che brucia. Lo incido, che duri
sul muro nove anni e tre mesi.
(Da "Sparvieri", Stab. tip. Montorfano, Genova 1900)
IL CHIODO
di Vittorio Emanuele Bravetta (1889-1965)
Come avvenga non so, né per che modo,
battere sento nel silenzio oscuro
un martello.... chi mai batte nel muro?
stupidamente al cupo rombo godo.
Ne l'alta notte quando più mi rodo,
quando più per l'insonnia mi torturo,
io ne la stolta illusion perduro:
chi batte, penso, ne la pietra un chiodo?
Ma sussulto, che poi sento feroce
penetrare una punta entro il cervello
e, ricreduto, a me confesso: errai.
Muro è la mente, il pensier chiodo atroce,
Ve lo pianta il dolor come un martello:
e il muro cede e non si spezza mai!
(Da "Odi e canzoni", Libreria Petrini, Torino 1910)
LA MURAGLIA
di Enrico Cavacchioli (1885-1954)
Pur, nella roggia e trepida muraglia
i caprifichi stendono a viluppi
le foglie scarne, e sembra che ne' gruppi
dei rami gocci sangue a scaglia a scaglia.
Tra queste mura, sospirando, manca
l'aria. Stridendo, a volo, un pipistrello
si precipita e già pel tuo risveglio
Anima - forse - non ti senti stanca!
Ti chiamano. Un cipresso si scompiglia.
Tutto si tace: nel silenzio un rauco
pianger di bimbi ti sconvolge il core
di dolorosa e grave meraviglia;
tu, valichi il cammino ed oltrepassi
corpi di Sfingi e tronchi di Titani,
Chimere di piramidi lontane
che tendono al passante i fianchi grassi;
trovi muraglia, muraglia, muraglia,
si chiudon li occhi, il core s'addormenta,
ma nessuno rimpiange o si lamenta
di questa fuga che il sonno attanaglia.
Tu sei convinto di morire? Un velo
ricopre le pupille lacrimose:
Avanti! Avanti! Ché oltre le pensose
tregue s'à da veder stellare il cielo!
(Da "L'Incubo Velato", Edizioni di «Poesia», Milano 1906)
VECCHIE MURA
di Giovanni Chiggiato (1876-1923)
Quando i nuovi signori
muovono i passi brevi
per l'ampie sale, grevi
di fregi, stucchi e ori,
dalle antiche cornici
appese tra i parati,
gli uomini effigiati
hanno ghigni nemici:
con ira dai socchiusi
cigli inchinano sguardi
attoniti o beffardi
a squadrarne gl'intrusi.
Son giovani alti e snelli
d'una febbre consunti:
pallidi visi smunti,
mani carche d' anelli;
son vecchi venerandi:
per un'impresa eccelsa
stringon superbi un'elsa
nel pugno uso ai comandi;
son donne dai soavi
languori: lunghe e miti
labbra, occhioni spauriti
da peritanze gravi;
ma tutti han fieri cenni
d'odio contro la turba
gretta e vana che turba
i loro ozi centenni.
È giorno? il fuoco splende
nel camino di strani
guizzi, e strepiti arcani,
pur senza il vento, rende:
talor, pur senza il vento,
sbatte o brandisce un uscio;
erra di sete un fruscio
lento sul pavimento;
s'agita di sui vecchi
muri un logoro arazzo;
si sfoglia a un tratto un mazzo
giallo di fiori secchi;
s'increspa nella vasca
l'acqua; l'aria è tranquilla,
ma la lampada oscilla,
ma un vecchio libro casca,
È notte? E tenta il vento
i cardini a le imposte
ne le stanze riposte
ùggiolan di spavento
i cani; in ogni fibra
dei secolari travi
cricchia un tarlo: nel clavi-
cordio una corda vibra:
ronzano strani insetti
di contro a le specchiere;
leva il vento in leggiere
spire dai caminetti
la cenere che vela
l'illanguidir del fuoco;
con un crepitio roco
spegnesi una candela...
Contan che un re tra quelle
mura in tempi lontani
strozzasse di sue mani
un'amante ribelle.
(Da "La fonte ignota", Ist. Veneto di Arti Grafiche, Venezia 1907)
IL MURO
di Pietro Mastri (1868-1932)
Una solinga via fa capo al muro;
alto ed oscuro per crepacci antichi;
dalla cui sommità pendono intrichi
d'ellera, come ancor neri cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi...
Io non lo so, che cinga il vecchio muro.
Di là, nel vespro, il martellar d'un merlo
da invisibili frasche ora mi giunge;
ed un garrir di passeri, più lunge,
da invisibili tetti. Ma che cinga
il vecchio muro in questa via solinga,
io non lo so: né bramo di saperlo.
Che?... Forse l'orto d'un convento... Suore
pallide in volto d'un pallor di cera,
cui sa d'incenso l'ampia veste nera,
vanno per quelle aiòle; e di lor sogni
vedon fiorire, attorno, sfiorire ogni
rosa che nasce, ogni rosa che muore.
Fors'anche un cimitero abbandonato...
Ferve sulla chiesetta il passeraio?
V'è qualche siepe fatta ora sterpaio,
nido di merli?... Ed erbe in gran vigore;
ove, a tratti, un marmoreo biancore
stagna, com'acqua lucida in un prato.
O forse un dolce solitario asilo
d'amore... Ecco il viale dei sorrisi;
mani allacciate, occhi negli occhi fisi.
Bianca nel fondo sta la villa e aspetta.
La luna poi vedrà stamparsi netta
un'ombra in terra, un duplice profilo.
O, chi sa mai?, come talor si vede
retto da un vecchio un gracile bambino,
regge il muro uno squallido giardino.
E dietro, forse, un giovinetto langue;
e chino l'avo su quel volto esangue,
spengersi mira il suo ultimo erede...
Tace ogni suono ormai. Gl'intrichi neri
d'ellera, al sommo dello scabro muro,
lievemente oscillano nel puro
vespro così, com'ispidi cernecchi
su certe fronti ruvide di vecchi;
fronti che serban chiusi i lor pensieri.
(Da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
di Eugenio Montale (1896-1981)
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
(Da "Ossi di seppia", Gobetti, Torino 1925)
IL MURO
di Ada Negri (1870-1944)
Alto è il muro che fiancheggia la mia strada, e la sua nudità rettilinea si prolunga nell'infinito.
Lo accende il sole come un rogo enorme, lo imbianca la luna come un sepolcro.
Di giorno, di notte, pesante, inflessibile, sento il tuo passo di là dal muro.
So che sei lì, e mi cerchi e mi vuoi, pallido del pallore marmoreo che avevi l'ultima volta ch'io ti vidi.
So che sei lì; ma porta non trovo da schiudere, breccia non posso scavare.
Parallela al tuo passo io cammino, senz'altro udire, senz'altro seguire che questo solo richiamo,
sperando incontrarti alla fine, guardarti beata nel viso, svenirti beata sul cuore.
Ma il termine sempre è più lungi, e in me non v'è fibra che non sia stanca;
ed il tuo passo di là dal muro si scande a martello sul battito delle mie arterie.
(Da "Il libro di Mara", Treves, Milano 1919)
PARCO UMIDO
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)
Il parco è serrato serrato serrato,
serrato da un muro eh'è lungo
le miglia le miglia le miglia,
da un muro coperto di muffe,
coperto di verdi licheni,
grondante di dense fanghiglie.
Né un varco soltanto nel parco traspare
né un foro vi luce,
soltanto si posson le muffe cadenti
vedere, soltanto
le dense fanghiglie grondanti.
Altissimi i cedri ne passano il muro,
i pini dal fusto robusto ne sporgon l'ombrello
s' innalzan cipressi, rossastre magnolie,
e salici, e salici tanti
piangenti di pianti lontani,
che mischian sul muro cadenti
le lagrime ai verdi licheni,
a grige fanghiglie grondanti.
Di fuori ecco il parco serrato,
serrato da un muro
ch'è lungo le miglia e le miglia.
Fra l'ombre, fra l'ombre potenti
nel folto degli alberi grandi
soltanto tre donne s'aggirano lento,
bellissime donne: Regine Parenti.
S'aggirano lento in silenzio
ne l'ombre del parco serrato,
pesante trascinano il manto di lutto, le Donne,
coperte da un velo
che appena il pallore del volto ne scopre.
(Da "Lanterna", Stab. Tip. Aladino, Firenze 1907)
CANZONETTA DI FEBBRAIO TRAVERSO IL MURO
di Romualdo Pantini (1877-1945)
La Primavera torna
ed è lontana ancóra!
Ma ogni giorno più vicino torna
anche alla mia dimora.
La sento, come sento lei cantare
le canzonette sue più lunghe e care.
L'inverno ella cantava
solo ai giorni di festa:
cantava tardi sempre in aria mesta
e piano, che parea povera schiava.
Mi giungevano incerte le parole
come vedevo sempre incerto il sole.
Ma Primavera affretta,
per ogni dito offre una violetta:
presto l'avrà per ogni suo capello,
e 'l cielo incanterà solo a vederlo.
Soffio di Primavera,
piccol'ala leggera
che volteggi nell'aria e non ti posi,
posati su quei labbri armoniosi.
Oh! lo saprò quel giorno
del tuo vero ritorno,
o languida terribil Primavera:
dall'alba canterà fino alla sera;
e il giorno dopo a compiere l'incanto,
ecco il muro fra noi scomparso, infranto!
(Da "Canti di vita", Treves, Milano 1910)
IL MURO
di Térésah (Teresa Ubertis, 1877-1964)
Pietra su pietra inesorabilmente
il muro crebbe. Lontanava il cielo;
non fu più che una striscia alta e sottile...
(pietra su pietra!)... e sparve da la mente.
Ella piegava, illanguidito stelo
di giovinezza inferma. E battè Aprile
inutilmente a l'algida vetrata.
Fuori cresceva l'opra inesorata.
S'aderse il muro tenebroso a l'alto:
ella non seppe mai quanto! Pensava
il color delle stelle e la vetrata
scossa da i venti liberi a l'assalto.
Sola una fonte da la pietra cava
gemeva il pianto delle antiche cose.
Sole e gementi, suore dolorose.
Nell'ombra eguale i matutini albori
e le lucide sere ebbero aspetto
eguale: cieli soffusi di rose
vissero, cieli gonfi di bagliori...
Ella seppe soltanto il buio eretto
nemico tra il suo capo umile e il sole.
Sussurrava indicibili parole:
udìa crescere l'erba a' piè del muro,
sognava il muschio verde su la pietra.
Sognò vive, lanciate incontro al sole,
ghirlande di rosai: vide l'oscuro
nemico vinto... E singhiozzava tetra
la fonte, eco del suo trepido cuore.
Poi ch'estate languì nel dolce ardore
de' suoi roseti, a consolar l'inferma
ne trapiantammo a piè del muro fosco.
Ella scordava il tremulo splendore
degli astri... Ma non fu simile a un'erma
bianca, nel verde! il profumato bosco
non ebbe intorno. O dolorosa, ave.
Nell'ora della morte, umile e grave
parlò dell'invincibile nemico:
io raccolsi il suo fato. Ella è dispersa
forse nei venti, cenere soave.
Ma ancor si scaglia il suo dolore antico
incontro al sole, inesorato. Versa
la fonte goccia a goccia il suo compianto
simile a un'eco di lontano pianto.
(Da "Nova lyrica", Roux & Viarengo, Torino-Roma 1904)
domenica 25 maggio 2014
Gli animali in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo (I)
Tra i moltissimi versi che i poeti italiani del Novecento hanno dedicato agli animali, sono andato a cercare quelli che, secondo i miei gusti, sono i migliori. Comincio perciò con queste dieci poesie e quindi, via via, ne aggiungerò delle altre. Come si noterà leggendole, la qualità è ottima e le categorie degli animali sono, più o meno, tutte rappresentate.
CHIOCCIOLA
di Bartolo Cattafi (1922-1979)
La chiocciola qui giunta
con millenaria lentezza
tutto mangia di colpo
il cespo delle idee
il groviglio dei segni
le radici di vita
e nel nulla disegna
nella piazza pulita
un arco di bava
schiuma spremuta da un guscio vuoto
parte di linea curva
d'ignote geometrie.
(Da "Segni", Scheiwiller, Milano 1986)
MISTERO
di Corrado Govoni (1884-1965)
O farfallina nata con l'aurora,
o destinata a sparire fra un'ora
come i fiori, che vivon così brevemente
che si può dire
si schiudono soltanto per morire;
grano di stella, palpito di luce,
ti crea l'uragano che travolge e romba,
o una goccia di pioggia ti produce?
Tu, forse, sai perché si nasce, si ama e muore,
tu che hai la culla, il letto e la tua tomba
nel profumato calice d'un fiore.
(Da "Il quaderno dei sogni e delle stelle", Mondadori, Milano 1924)
LA NOTTE DEI GATTINI
di Vivian Lamarque (1946)
La notte dei gattini
ti ho voluto del bene in più.
La notte dei gattini?
Sì, abbandonati come bambini.
(Da "Una quieta polvere", Mondadori, Milano 1996)
VARIAZIONE
di Giampiero Neri (Giampiero Pontiggia, 1927)
Si nasconde il gufo sul ramo
durante il giorno,
si adatta a una diversa parte
nel suo breve travestimento.
Ma col variare della luce
abbandona la sua muta inoffensiva,
nella sua forma e figura
si presenta al rituale appuntamento.
(Da "Teatro naturale", Mondadori, Milano 1998)
LE RANE
di Giovanni Pascoli (1855-1912)
Ho visto inondata di rosso
la terra dal fior di trifoglio;
ho visto nel soffice fosso
le siepi di pruno in rigoglio;
e i pioppi a mezz'aria man mano
distendere un penero verde
lunghesso la via che si perde
lontano.
Qual è questa via senza fine
che all'alba è sì tremula d'ali?
chi chiamano le canapine
coi lunghi lor gemiti uguali?
Tra i rami giallicci del moro
chi squilla il suo tinnulo invito?
chi svolge dal cielo i gomitoli
d'oro?
Io sento gracchiare le rane
dai borri dell'acque piovane
nell'umida serenità.
E fanno nel lume sereno
lo strepere nero d'un treno
che va...
Un sufolo suona, un gorgoglio
soave, solingo, senz'eco.
Tra campi di rosso trifoglio,
tra campi di giallo fiengreco,
mi trovo; mi trovo in un piano
che albeggia, tra il verde, di chiese;
mi trovo nel dolce paese
lontano.
Per l'aria, mi giungono voci
con una sonorità stanca.
Da siepi, lunghe ombre di croci
si stendono su la via bianca.
Notando nel cielo di rosa
mi arriva un ronzìo di campane,
che dice: Ritorna! Rimane!
Riposa!
E sento nel lume sereno
lo strepere nero del treno
che non s'allontana, e che va
cercando, cercando mai sempre
ciò che non è mai, ciò che sempre
sarà...
(Da "Canti di Castelvecchio", Zanichelli Bologna 1903)
AIRONE [5 (5.8.80)]
di Antonio Porta (1935-1989)
Airone, sono nati da te
(è una mia idea vera
e falsa nello stesso tempo,
fai conto che sia un gioco)
altri tipi di uccelli, no
non tutti, non esageriamo
ma è nato da te, io credo,
l'usignolo perché troppo diverso,
per riparare un errore della specie,
l'usignolo che fa tacere la notte
e dà struttura sonora alla notte, insieme
allaccia tutti i fili del silenzio lunare
ilare sorgente ultima di melodia
contro la sua assenza di voce, airone,
i tuoi striduli messaggi,
hai partorito l'invisibile usignolo.
(Da "Il giardiniere contro il becchino", Mondadori, Milano 1988)
IL VECCHIO UOMO E IL GIOVANE RAMARRO
di Gianni Rodari (1920-1980)
Storia di un vecchio uomo e di un giovane ramarro.
Il primo, considerando che il secondo sul muretto di tufo
muta la prima pelle colore del cuoio
per uscire verde nel sole una mattina d'estate,
si ricorda di quando a sua volta
lasciava le sue spoglie qua e là per la vita,
rinascendo scarno, gentile e impaziente,
senza dolore dalle vecchie ferite,
libero di sbagliare senza pentirsi,
di soffrire senza perdersi,
di perdersi senza paura,
ora che porta l'ultima pelle,
quella che lo attendeva sotto le altre
con rughe, macchie, cicatrici, tumori,
e molto è tentato di tenerla da conto,
ora che non ha più niente da regalare,
nemmeno la sua pelle che nessuno vorrebbe
perché la vecchiaia non è quotata in borsa,
prova nel petto una tristezza funesta
e afferra un sasso per schiacciare il piccolo mostro
più bello di lui, più bello di se stesso,
ma il ramarro guizza dimenticandolo immediatamente,
se ne va nella sua vita d'erba e di terra
dimenticando ogni ciottolo del tempo
e fuggendo dona un po' di vita anche al vecchio,
perché di tutto ciò che vive siamo vivi,
ma il vecchio non lo sa,
si ritira in fondo al petto con la sua tristezza,
se ne va con acrimonia agitando il bastone,
vattene, vecchio pazzo,
la vita è una storia raccontata da un ramarro
sul vecchio muro di un cimitero.
(Da "Il cavallo saggio", Editori Riuniti, Roma 1990)
LA CAPRA
di Umberto Saba (1883-1957)
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1988)
L'UCCELLINO BIANCO
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)
Come una stella in pieno giorno
è tornato l'uccellino bianco,
l'uccellino dell'altr'anno.
Vuole la mia fortuna
o il mio danno?
(Da "Mosche in bottiglia", Mondadori, Milano 1975)
I LEONI
di Sergio Solmi (1899-1981)
Urlavano i leoni nella notte,
gonfiavano nel buio, dardeggiavano
l'ugola in fiamme al fanciullo atterrito.
Di sotto al vecchio armadio, d'improvviso
si stendeva la zampa imperiosa,
si stirava, graffiava l'impiantito.
Venne un giorno, scomparvero i leoni.
Non c'erano
alla stazione di Sovilla, sotto
le nuvole ronzanti, s'anche uscivano
dal gioco scomparendo
nel grano verde e i compagni, se presso
volavano i rametti al doppio colpo
lassù, dell'arboreo cecchino.
Non c'erano
più tardi,
nella città divampante, nei laghi
di fosforo, a filo
della pistola, nella gabbia cieca
del prigioniero.
Oggi che l'ombre
della sera s'infoltano, qualcosa
nel buio si rimuove, silenziosi
dall'infanzia ritornano i leoni?
Ah, ch'io più non ne tremi, ch'io con fermo
cuore m'avvii, ridiscenda
sulla soglia, a incontrarli.
(Da "Poesie complete", Adelphi, Milano 1974)
CHIOCCIOLA
di Bartolo Cattafi (1922-1979)
La chiocciola qui giunta
con millenaria lentezza
tutto mangia di colpo
il cespo delle idee
il groviglio dei segni
le radici di vita
e nel nulla disegna
nella piazza pulita
un arco di bava
schiuma spremuta da un guscio vuoto
parte di linea curva
d'ignote geometrie.
(Da "Segni", Scheiwiller, Milano 1986)
MISTERO
di Corrado Govoni (1884-1965)
O farfallina nata con l'aurora,
o destinata a sparire fra un'ora
come i fiori, che vivon così brevemente
che si può dire
si schiudono soltanto per morire;
grano di stella, palpito di luce,
ti crea l'uragano che travolge e romba,
o una goccia di pioggia ti produce?
Tu, forse, sai perché si nasce, si ama e muore,
tu che hai la culla, il letto e la tua tomba
nel profumato calice d'un fiore.
(Da "Il quaderno dei sogni e delle stelle", Mondadori, Milano 1924)
LA NOTTE DEI GATTINI
di Vivian Lamarque (1946)
La notte dei gattini
ti ho voluto del bene in più.
La notte dei gattini?
Sì, abbandonati come bambini.
(Da "Una quieta polvere", Mondadori, Milano 1996)
VARIAZIONE
di Giampiero Neri (Giampiero Pontiggia, 1927)
Si nasconde il gufo sul ramo
durante il giorno,
si adatta a una diversa parte
nel suo breve travestimento.
Ma col variare della luce
abbandona la sua muta inoffensiva,
nella sua forma e figura
si presenta al rituale appuntamento.
(Da "Teatro naturale", Mondadori, Milano 1998)
LE RANE
di Giovanni Pascoli (1855-1912)
Ho visto inondata di rosso
la terra dal fior di trifoglio;
ho visto nel soffice fosso
le siepi di pruno in rigoglio;
e i pioppi a mezz'aria man mano
distendere un penero verde
lunghesso la via che si perde
lontano.
Qual è questa via senza fine
che all'alba è sì tremula d'ali?
chi chiamano le canapine
coi lunghi lor gemiti uguali?
Tra i rami giallicci del moro
chi squilla il suo tinnulo invito?
chi svolge dal cielo i gomitoli
d'oro?
Io sento gracchiare le rane
dai borri dell'acque piovane
nell'umida serenità.
E fanno nel lume sereno
lo strepere nero d'un treno
che va...
Un sufolo suona, un gorgoglio
soave, solingo, senz'eco.
Tra campi di rosso trifoglio,
tra campi di giallo fiengreco,
mi trovo; mi trovo in un piano
che albeggia, tra il verde, di chiese;
mi trovo nel dolce paese
lontano.
Per l'aria, mi giungono voci
con una sonorità stanca.
Da siepi, lunghe ombre di croci
si stendono su la via bianca.
Notando nel cielo di rosa
mi arriva un ronzìo di campane,
che dice: Ritorna! Rimane!
Riposa!
E sento nel lume sereno
lo strepere nero del treno
che non s'allontana, e che va
cercando, cercando mai sempre
ciò che non è mai, ciò che sempre
sarà...
(Da "Canti di Castelvecchio", Zanichelli Bologna 1903)
AIRONE [5 (5.8.80)]
di Antonio Porta (1935-1989)
Airone, sono nati da te
(è una mia idea vera
e falsa nello stesso tempo,
fai conto che sia un gioco)
altri tipi di uccelli, no
non tutti, non esageriamo
ma è nato da te, io credo,
l'usignolo perché troppo diverso,
per riparare un errore della specie,
l'usignolo che fa tacere la notte
e dà struttura sonora alla notte, insieme
allaccia tutti i fili del silenzio lunare
ilare sorgente ultima di melodia
contro la sua assenza di voce, airone,
i tuoi striduli messaggi,
hai partorito l'invisibile usignolo.
(Da "Il giardiniere contro il becchino", Mondadori, Milano 1988)
IL VECCHIO UOMO E IL GIOVANE RAMARRO
di Gianni Rodari (1920-1980)
Storia di un vecchio uomo e di un giovane ramarro.
Il primo, considerando che il secondo sul muretto di tufo
muta la prima pelle colore del cuoio
per uscire verde nel sole una mattina d'estate,
si ricorda di quando a sua volta
lasciava le sue spoglie qua e là per la vita,
rinascendo scarno, gentile e impaziente,
senza dolore dalle vecchie ferite,
libero di sbagliare senza pentirsi,
di soffrire senza perdersi,
di perdersi senza paura,
ora che porta l'ultima pelle,
quella che lo attendeva sotto le altre
con rughe, macchie, cicatrici, tumori,
e molto è tentato di tenerla da conto,
ora che non ha più niente da regalare,
nemmeno la sua pelle che nessuno vorrebbe
perché la vecchiaia non è quotata in borsa,
prova nel petto una tristezza funesta
e afferra un sasso per schiacciare il piccolo mostro
più bello di lui, più bello di se stesso,
ma il ramarro guizza dimenticandolo immediatamente,
se ne va nella sua vita d'erba e di terra
dimenticando ogni ciottolo del tempo
e fuggendo dona un po' di vita anche al vecchio,
perché di tutto ciò che vive siamo vivi,
ma il vecchio non lo sa,
si ritira in fondo al petto con la sua tristezza,
se ne va con acrimonia agitando il bastone,
vattene, vecchio pazzo,
la vita è una storia raccontata da un ramarro
sul vecchio muro di un cimitero.
(Da "Il cavallo saggio", Editori Riuniti, Roma 1990)
LA CAPRA
di Umberto Saba (1883-1957)
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1988)
L'UCCELLINO BIANCO
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)
Come una stella in pieno giorno
è tornato l'uccellino bianco,
l'uccellino dell'altr'anno.
Vuole la mia fortuna
o il mio danno?
(Da "Mosche in bottiglia", Mondadori, Milano 1975)
I LEONI
di Sergio Solmi (1899-1981)
Urlavano i leoni nella notte,
gonfiavano nel buio, dardeggiavano
l'ugola in fiamme al fanciullo atterrito.
Di sotto al vecchio armadio, d'improvviso
si stendeva la zampa imperiosa,
si stirava, graffiava l'impiantito.
Venne un giorno, scomparvero i leoni.
Non c'erano
alla stazione di Sovilla, sotto
le nuvole ronzanti, s'anche uscivano
dal gioco scomparendo
nel grano verde e i compagni, se presso
volavano i rametti al doppio colpo
lassù, dell'arboreo cecchino.
Non c'erano
più tardi,
nella città divampante, nei laghi
di fosforo, a filo
della pistola, nella gabbia cieca
del prigioniero.
Oggi che l'ombre
della sera s'infoltano, qualcosa
nel buio si rimuove, silenziosi
dall'infanzia ritornano i leoni?
Ah, ch'io più non ne tremi, ch'io con fermo
cuore m'avvii, ridiscenda
sulla soglia, a incontrarli.
(Da "Poesie complete", Adelphi, Milano 1974)
lunedì 19 maggio 2014
Poeti dimenticati: Francesco Di Chiara
Francesco Di Chiara
nacque a Palermo il 6 febbraio del 1905. Sconosciuta è la data della sua morte.
La sua raccolta poetica più importante uscì nel 1929 per le Edizioni del
Ciclope col titolo "Fiabe e consacrazioni". Dei suoi pregevoli versi
si occuparono vari critici tra i quali anche Pietro Mignosi.
Opere poetiche
"Fiabe e
consacrazioni", Edizioni del Ciclope, Palermo 1929.
Presenze in antologie
"L'Adunata della
poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana
Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. CCXXXII-CCXXXV).
"Novissima
Antologia", a cura di Pasquale Ceravolo, I Quaderni di «Il Pensiero»,
Bergamo 1929 (pp. 135-137).
"La poesia
italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Edizioni del
Ciclope, Palermo 1929 (p. 123).
"La nuova poesia
religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931
(pp. 136-138).
Testi
AL SONNO
Viene la morte,
sorella taciturna, ogni sera a trovarmi,
s'accosta coi suoi
leggeri piedi calzati di buio velluto,
di tutte le mie
tristezze viene a racconsolarmi,
e perdo ogni mio
pensiero adorato o temuto.
Ed io, che so,
m'accosto con cuore giulivo a ogni sera,
con anima stanca e
ansiosa di folle libertà,
e guardo sorridendo,
di tra l'oscurità,
venire l'amante
bruna, mite, soave, leggera.
- Addio - mormoro
allora - odii ed amori, addio!
per quella via che imbocco
voi non potete seguirmi... -
E con la bocca
ansiosa, sentendo la vita fuggirmi,
bacio le tue labbra
dolci, sonno, abbandono, oblio...
(Da "Fiabe e consacrazioni")
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