Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
giovedì 3 gennaio 2013
Gennaio in 10 poesie di 10 poeti italiani del '900
FLORA NIVALIS
di Arturo Graf (1848-1913)
Bianco di neve, lucido di gelo,
Grandeggia il bosco in cupo sonno immerso:
Scintillante di stelle, algido, terso,
Traspar fra i rami irrigiditi il cielo.
E la crescente luna di gennajo,
Che nel sommo del ciel splende falcata,
Sembra una squamma d’oro intarsïata
In uno specchio di brunito acciajo.
Trema per l’alta notte e pei divini
Soporati silenzii a quando a quando
Teneramente doloroso e blando
Un gorgheggio di flauti e di clarini.
Chi è costei che così sola e franca
Per la foresta, in mezzo all’ombre, incede,
E segna appena con lo scarso piede
In suo cammin la intatta neve e bianca?
Chi è costei che in verde gonna, cinta
L’aureo capo di sì pia corona,
Raggia da tutta la gentil persona
Il dolce lume onde l’aurora è tinta?
Di quanti fior la primavera i piani
Allieta e i clivi ed ogni erboso lembo,
Tu fiorite hai le trecce e pieno il grembo,
E piene, o cara, ambe le bianche mani.
O donzelletta, cui benigno elesse
A così nova meraviglia il cielo,
Stringe ogni gleba aspro e tenace il gelo:
Tu dov’hai colta sì gioconda messe?
O cara e pia! se amor non anche è morto,
Spargi lungo la via; spargi i tuoi fiori:
Troppo è la via selvaggia ed aspra, e i cuori
Vengon men per l’angoscia e lo sconforto.
(Da "Morgana", Treves, Milano 1901)
GENNAIO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)
Ormai passò la rosea cavalcata
dei giovinetti mesi ingannatori,
che vestita l'avean tutta di fiori
e di sole e d'azzurro incappucciata.
Or ripensa la grande traviata
d'Aprile i ricci e i facili rossori;
e derelitta guarda i suoi squallori
e fa l'ammenda delle sue peccata.
E viene per perdono a fra' Gennaio,
dicendo l'atto di contrizione,
e s'umilia e gli bacia il vecchio saio.
«Padre - gli dice - voglio farmi monaca.»
E quei sorride incredulo e le impone
di neve fugacissima una tonaca.
(Da "Resine", Caimo, Genova 1911)
14 GENNAIO
di Giovanni Papini (1881-1956)
C'è sulla terra, in mezzo a tanti scompigli, una gran pace anticipata. Par d'essere di già in primavera. Un sole chiaro e tepido di marzo si glorieggia sui ponti scoperti e sui marciapiedi sereni, sul capo dei ragazzi e sulle bucce dei mandarini. Rispondono, tra i fili fitti dell'erba bambina, le pupillone gialle delle prime margherite. Non c' è zoppo che non t'offra manne di violette dall'undici alle cinque; le mostre dei fiorai son paradisi di rose sotto vetro: rose rosse come gote di ballerine; rose di carnato insensibilmente giallo come la pelle diaccia delle creole. E da parecchie mattine c' è uno strazio di rami stroncati di mandorlo, infiocchettàti di bianchezze innaturali.
(Da "Giorni di festa", Libreria della Voce, Firenze 1919)
GENNAIO
di Alfredo Baccelli (1863-1955)
Pure notti dall'alito di gelo,
dal terso plenilunio d'alabastro,
quando, berillo o diamante ogni astro,
d'occulto incendio disfavilla il cielo.
Solo nel prato il pallido asfodelo:
canuto di pruine l'oleastro:
nel presepe il pastor col suo vincastro:
ischeletrito il pero e 'l grisomelo;
ma nelle membra insolito vigore,
chiara e serena luce entro il pensiero,
e nell'intimo cuor lieto calore,
ché il nuov'anno promette, ed è foriero
di Primavera Inverno, e presto il fiore
smalterà i verdi labbri del sentiero.
(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1929)
23 GENNAIO: SOLE
di Carlo Betocchi (1899-1986)
Anzi, quando l'onda è azzurra
devi pensar - non è nulla;
un sole bianco sul campo
è il manzo che riposa stanco.
Gennaio dai mille aghi sciolti
nel bianco fiore sepolti,
manca la viola al prato,
adunque tepor dissennato.
Che fa! ma gorgoglia bianca
l'onda che la riva incanta,
il sole giunge, si sfalda,
brilla, tocca l'acqua, salta.
I candidi ponti, le case,
un fervido biondo invase,
e il mendico, in solare palma
si distende con fede calma.
Al declinare impallidito
ti vedo, giorno infinito;
va la solitaria luna,
terra, sassi, deserta schiuma.
(Da "Realtà vince il sogno", Il Frontespizio, Firenze 1932)
GEMME DI GENNAIO
di Angiolo Orvieto (1869-1967)
Verdi gemme, bocciolini
chi vi ha fatto saltar fuori?
Non è ancor tempo di fiori
sugli spini.
Pur vedervi di gennaio
spande in me nuova dolcezza
e m'infonde tenerezza
per rosaio.
Quasi che il mio cuore stesso,
del suo verno al limitare,
speri ancor gli sia concesso
di gemmare.
(Da "Il gonfalon selvaggio", Mondadori, Milano 1934)
TRAMONTO
di Antonia Pozzi (1912-1938)
Fili neri di pioppi –
fili neri di nubi
sul cielo rosso –
e questa prima erba
libera dalla neve
chiara
che fa pensare alla primavera
e guardare
se ad una svolta
nascano le primule –
Ma il ghiaccio inazzurra i sentieri –
la nebbia addormenta i fossati –
un lento pallore devasta
i colori del cielo –
Scende la notte –
nessun fiore è nato –
è inverno – anima –
è inverno.
S. Martino – Milano, 10 gennaio 1933
(Da "Parole", Mondadori, Milano 1939)
GENNAIO 1946
di Franco Fortini (1917-1994)
Milano, cieche viscere ti colano
per le vie, di macerie nere; i fumi
che dai camini volano
son torvi e verdi; la vita, acre e sciatta.
Ma di quassù visibili
sono, nell'aria netta, l'Alpi. Ecco
lontane, irraggiungibili,
bianche e celesti le grandi montagne.
1946
(Da "Poesia ed errore", Feltrinelli, Milano 1959)
DOVE I RAGAZZI AMMAZZANO IL GENNAIO
di Giorgio Orelli (1921)
Con un passo men cauto mi precedi,
taciturno compagno, sulla strada
gelata. Non è il fuoco delle case
che mi chiama e soverchia questa sera
nell'intatto paese, ma lo strepito
inatteso che sale
con i fiati infingardi dell'inverno
dalla riva remota, irraggiungibile,
dove i ragazzi ammazzano il gennaio.
(Da "L'ora del tempo", Mondadori, Milano 1962)
GENNAIO VENEZIANO
(dopo vent'anni)
di Alberto Mondadori (1914-1976)
Propaga angoli morti l'alba tra ciuffi d'erbe
e nulla si disperde sottacqua
nel crogiuolo dove tutto diventa vegetale.
E ogni cosa risale dal rigurgito al ritmico
colpo della pertica: la zavorra semimossa,
una tregua al riparo che non lenisce
l'ombra sepolta, la sarabanda dei silenzi
che si disperdono laggiù e qui si riaffacciano
in termini clementi, e l'iride annebbiata
per il livido tanfo che l'incrosta
è di sopravvissuti istinti. Di più, dall'arcobaleno
di nafta fuoriesce il vértice spezzato. Ogni ordine
di affetti è qui un ossuto patteggiamento
col domani nel suo vòlto marino e ha un suo arduo
peso, faticoso, spesso strozzato in una fuga ansante
da scordare al più ilare andare della gondola con te.
Non ti spaura, come me, l'enigma di brulicanti
estensioni che qui stringe col suo cappio
il primo chiaro del mattino: dopo lo scontro
delle correnti sulla pista notturna esso brusco
si scioglie e a noi appare come visto nei due specchi
del coiffeur o moltiplicato nei più che mille brani
ghiacciati dalla bora. Si fa diverso per ogni gamma
che sale il bel tempo freddo a oriente, via scivola
con il pezzo di legno attraverso la laguna sterminata
di cui spegne i segnali mentre un barbaglio accende
rosso sanguedibue sulla dogana: vince il tuo sapere
leggere nei segni. Lucente lo scroscio delle eliche
rompe il giro del cordame, si destano le cupole
semiconsunte al rimbombo improvviso del bronzo
e non ci sbugiarda, questo gennaio almeno!,
inattesa la sofisticata morgana di Venezia
che seccamente disegna la tua bilanciata verità.
1961
(Da "L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", Martello, Milano 1963)
FINIS
martedì 1 gennaio 2013
Una poesia di Eros Alesi
La poesia di cui vorrei analizzare il testo è senza titolo, comparve per la prima volta sull'Almanacco dello Specchio n. 3 del 1973; fu poi inserita in varie antologie, tra queste vorrei ricordare le seguenti: Il pubblico della poesia, a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, Lerici, 1975; Poesia degli anni settanta, a cura di A. Porta, Feltrinelli, 1979; Poesia e realtà 1945-2000, a cura di G. Majorino, Tropea, 2000; La poesia italiana oggi, a cura di G. Manacorda, Castelvecchi, 2004.
Straziante è già il secondo verso della lirica, in cui Alesi parla al padre avendo la sicurezza che sia da qualche parte ad ascoltarlo, forse in un mondo ultraterreno: «Tu che ora sei nei pascoli celesti, nei pascoli terreni, nei pascoli marini». Successivamente il poeta insiste sul concetto già espresso, rafforzandolo con dichiarazioni d'amore filiale che probabilmente non ebbe mai modo di fare direttamente al padre, quando era in vita. Sembra quasi che la morte di quest'ultimo non sia mai avvenuta: «Tu che ora sei chiamato morto, cenere, mondezza». Segue una parte in cui Alesi descrive il cambiamento del suo giudizio nei confronti del padre attraverso gli anni, da: «Bello - forte - orgoglioso - sicuro - spavaldo» a «violento, assente, cattivo», le parole del poeta ci mostrano una situazione famigliare particolarmente difficile, col padre che ha perso il controllo della situazione e, con l'uso della violenza, cerca disperatamente di raddrizzare un rapporto (sia col figlio che con la moglie) ormai definitivamente compromesso: «Che vedevo che tu vedevi mia madre allontanarsi. Che vedevo che tu vedevi l'inizio di un normale drammatico sfacelo». Di qui l'abuso di alcol da parte di un uomo che non trova altre alternative alla disperazione e all'allontanamento dei suoi famigliari, un padre orgoglioso, come lo aveva definito Alesi, che rimane solo con sè stesso. La conoscenza della tossicomania del figlio e dell'attesa di un bambino da parte della moglie, che nel frattempo aveva iniziato un rapporto con un altro uomo, non possono che peggiorare le cose, e ancor più le peggiorano il rifiuto totale del poeta alla possibilità di ogni tipo di pacificazione: «Che ho visto che tu hai visto la tua mano stesa in segno di pace, di armistizio. / Che ho visto che tu hai visto sulla tua mano uno sputo». E siamo giunti al momento in cui la composizione poetica raggiunge l'apice della drammaticità: «Che ho visto che hai visto 3 anni passare. Che ho visto che hai visto che il giorno 9-XII-69 non sei venuto a trovarmi al manicomio. Perchè eri morto». Queste parole sono veramente strazianti soprattutto se si pensa che tutto ciò è accaduto veramente; si resta affranti, senza voce. Ma la poesia di Alesi continua con un'altra dichiarazione d'amore illimitato nei confronti del padre, e unisce al suo anche quello di sua madre: «Che ora vedi che io vedo che mia madre rimpiange. ALESI FELICE PADRE DI ALESI EROS». Negli ultimi versi il poeta confessa la sua ennesima fuga verso la solitudine e il suo pessimismo, lo stesso pessimismo che era presente nel padre, dice Alesi: «Che tu vedi che io vedo solo grande grandissimo nero lo stesso nero che io vedevo che tu vedevi. / Che ora continuerai a vedere ciò che io vedo». L'ultimo verso evidenzia un'immedesimazione tra padre e figlio, il poeta pensa alla stessa stregua del padre e vede ciò che vedeva il padre, quasi che la mente e gli occhi non siano più i suoi ma quelli del genitore scomparso.
lunedì 31 dicembre 2012
Da "Il Piacere" di Gabriele D'Annunzio
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
(Dal Libro I, cap. I di "Il Piacere" di Gabriele D'Annunzio)
Il Piacere è il titolo di un romanzo di Gabriele D’Annunzio, pubblicato per la prima volta nel 1889 dalla Treves di Milano. Il poeta abruzzese lo scrisse nella seconda metà dell’anno precedente all’uscita (1888); dal 1895, secondo la volontà dell’autore, entrò a far parte del ciclo narrativo I romanzi della Rosa, insieme a L’innocente (1892) e Il trionfo della morte (1894). Si tratta dell’opera in prosa più importante di D’Annunzio, che con Il Piacere risulta determinante nel nostro paese, per la diffusione di un gusto “decadente” fino a quel momento praticamente assente in Italia. Il protagonista del romanzo: Andrea Sperelli, è un uomo colto e particolarmente raffinato; di famiglia aristocratica, appassionato d’arte, considera il piacere quale principale scopo della sua vita; passa così da un amore all’altro, precipitando inesorabilmente in una dissolutezza assoluta, e rimane, alla fine, da solo.
Il frammento che ho trascritto altro non è che un impressione veloce, in cui viene descritta Roma in una bella giornata di fine d’anno; talmente bella che il poeta ha la netta impressione di un ritorno primaverile.
sabato 29 dicembre 2012
Previsioni
Il 2013 sarà un anno di crescita per le Borse
Il 2013 sarà l'anno europeo dei cittadini
Il 2013 sarà "l'anno delle comete"
Crisi: il 2013 sarà peggio del 2012
Consumi: il 2013 sarà un anno orribile
Cambiamento climatico: il 2013 sarà forse il più caldo degli ultimi 160 anni
Nel Web per il 2013 sarà lotta a 4: Apple, Amazon, Google e Facebook
Nel 2013 sarà Rai contro YouTube?
Monti: "Il 2013 sarà un anno in crescita"
Bersani: "Il 2013 sarà ancora un anno difficile"
Grillo: "Il 2013 è un anno che vale la pena di essere vissuto"
Rajoy: "Il 2013 sarà duro, ma non chiediamo aiuto a Bce"
Helle Thorning-Schmidt: "Il 2013 sarà l’anno delle riforme"
Federici: “Il 2013 sarà l'anno dei cantieri"
Zamparini: "Il 2013 sarà l'anno della rinascita del Palermo"
Il 2013 sarà l'anno delle azioni?
Il 2013 sarà l'anno dell'auto elettrica?
Il 2013 sarà un altro anno orribile per il lavoro?
Il 2013 sarà l'anno del nuovo stadio della Fiorentina a Novoli?
Nel 2013 nevicherà a Roma
Nel 2013 salirà la disoccupazione
Nel 2013 ci sarà il TFA
Nel 2013 solo bancomat
Nel 2013 facebook chiude
Nel 2013 si pagherà l'IMU
Nel 2013 uscirà la nuova Punto
Nel 2013 resusciterà l'Uomo Ragno
Nel 2013 ci saranno disordini e rivolte
Nel 2013 ci sarà la ripresa
Nel 2013 ci sarà l'election day
Nel 2013 ci sarà l'eruzione solare
Nel 2013 ci sarà un modo per vedere le Spice Girls di nuovo tutte insieme
Nel 2013 ci sarà il Gran Premio del New Jersey
Nel 2013 autostrade più care
Nel 2013 aumentano le pensioni minime
Nel 2013 crescerà l'economia tedesca...
...e si potrebbe continuare.
mercoledì 26 dicembre 2012
L'inverno nella poesia italiana decadente e simbolista
PAESAGGIO
di Luigi Gualdo (Milano 1847 - Parigi 1898)
Senza rumore, immacolata e lieve,
Sovra il ghiaccio del lago smerigliato
In linee lunghe scende ognor la neve
E bianco sembra l'aere rigato.
E fino agli orizzonti indefiniti
Tutto è candore. In sulle opposte rive
Pendono gigantesche stalattiti
Coperte di diamanti e luci vive.
Si disegnano i rami delle piante
In bianco sovra il cielo grigio e smorto.
I fiori son spariti e tutte quante
Le frondi e l'erbe. Ed ecco tutto è morto
Per un tempo e sepolto nell'inverno.
Così tace talora ogni desìo
E sembra spento pure ciò ch'è eterno
Sotto il manto di neve dell'oblìo.
(Da "Le nostalgie", Casanova, Torino 1883)
A LORENZO DELLEANI
di Giovanni Camerana (Casal Monferrato 1845 - Torino 1905)
A quest’ora, Lorenzo, il Santuario
Del tuo intelletto e del cor mio, le arcate
Grigie, i calmi cortili e la chiesuola
Sembrano tombe;
Quattro palmi di neve, un ciel di morte,
Chiuso il dì nella bruma orrida, cupe
Più che un abisso le notti, entro i quattro
Palmi di neve;
E per gli intercolunnii del Juvara
Gemon le tube della tramontana
Lugubremente; e son, nel freddo atroce,
Gli atrii deserti.
Così, Lorenzo, nel crescente inverno,
Nella profonda sua conca di monti,
Il Santuario che adoriam sonnecchia
Triste in quest’ora;
Ma nella chiesa, dietro il queto altare,
Tra i fior, tra i lumi della cripta d’oro,
Sovra la gloria degli incensi e sovra
L’onda dei canti,
Versa dal trono il pio grave sorriso
La statua negra; fùlgura il triregno
Imperial, fiammeggia il largo petto
Pien di diamanti;
Gitta fuoco i rubini, gli smeraldi
Paion remoti astri notturni, e splende
Come un tramonto d’autunno, il topazio;
La perla è un’alba;
Così ancor splende, nel crescente inverno
Del duolo mio, la indeprecabil notte
Vincendo, arcano sole, un fascinante
Sguardo di sfinge!
(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)
TERRIBIL SIRENA INVERNALE
di Enrico Panzacchi (Ozzano dell'Emilia 1840 - Bologna 1904)
Par dentro alla neve, tra gli alberi,
la piccola casa sepolta.
Tu canti; e non sai nella tenebra
chi fuori, pensoso, t'ascolta;
t'ascolta cantare, cantare
in mesti volubili metri.
Rosseggian riflesse nei vetri
le fiamme del tuo focolare.
Ho freddo. Nei sensi, nell'anima
mi filtra un affanno mortale.
Tu evochi le care memorie,
terribil sirena invernale!
Danno echi d'angoscia e di pianti
gli avori del tuo pianoforte;
un tetro pensiero di morte
esala ne' dolci tuoi canti.
(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)
GIORNO D'INVERNO A LUNGHEZZA
di Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937)
Scende sui campi tacita la neve.
Tra gli olmi senza foglie ove gli amanti
non vengon più ridendo a passeggiare,
(quante volte a primavera e quanti
trilli di cince invitano ad amare!)
S'odono i corvi a torme crocidare
sulle rame al riparo della neve.
E la neve discende come un bianco
velo, sui campi dove tutto è muto.
Il cielo è bianco ed il terreno è bianco
morbido come un manto di velluto.
Sembra un grande paese sconosciuto
nel dominio dei ghiacci e della neve.
Io penso una goletta prigioniera
chiusa fra i ghiacci sulla via del Polo;
non un àlbatro giunge per la nera
notte al naviglio abbandonato e solo.
È come un punto sperso entro quel suolo
fragile, nel deserto della neve.
(Da "La Città di Vita", Tip. dell'Umbria, Spoleto 1896)
INVERNO
di Vincenzo Morello (Bagnara Calabra 1860 – Roma 1933)
Solo, un albero vive, flagellato,
ne la nivea campagna, e le contorte
braccia dal tronco ne la nebbia avvolto,
come una croce, lunghe e nere espande.
Giganti nubi mostruose il cielo
velocemente corrono, mutando
forme e colori. Su le nubi, un brano
d'arcobaleno. In lontananza, l'eco
di lunghi tuoni, giù, verso ponente.
Io guardo e odo, stupefatto. Ei pare
che fuor di me, ne la tempesta, intorno,
il morto mondo dell'anima mia
riviva ancora. Quelle nubi nere
non son le tristi imagini del cuore
innamorato? Fra le nubi l'eco
lontana, non è l'eco del mio grido
di spavento? Non è quell'infelice
albero rotto il vergin mio pensiero
in un perenne martirio di vita?
Io guardo ed odo. E uno sgomento fiero
mi assale, mentre incalza la tempesta,
nel sentir fuor di me l'anima mia.
(Da "Pulvis et umbra", Forzani, Roma 1897)
I SANTI DI GHIACCIO
di Pier Angelo Baratono (Roma 1880 - Trento 1927)
Tre santi, tre signori
di ghiaccio, tre pallori,
dormon, gli occhi socchiusi, dentro grotte
lontane, e solo a notte
sporgono fuori i volti.
Stanno d'attorno accolti
accidiosi e torpono i paesaggi.
Attendono quei saggi
l'inverno per lasciare la dimora.
Poi vanno, ove scolora
la neve in bianco i campi ed i paesi,
a chiedere cortesi
un rifugio alle genti.
Ma dovunque si volgan quegli accenti,
ghiaccian uomini e cose.
Cercano popolose
contrade, e per le ville
lasciano a mille a mille
le vittime. Colpite
di gelo, irrigidite
formano lunghe file sul cammino.
Volgon le piante in pietre: e l'occhio sino
all'estremo confine
scorge solo rovine
di cose già vissute ed ora morte.
Ma quando le sue porte
apre nel cielo primavera, scioglie
il sole dalle spoglie
rigide quei ghiacciati.
Tornano allora i tre agli abbandonati
luoghi e alle grotte,
donde soltanto a notte
sporgono i visi bianchi.
Quivi riposan quei tre corpi stanchi,
sin che li chiami un nuovo
inverno fuori del lontano covo.
(Da "Sparvieri", Montorfano, Genova 1900)
INCIPIT VITA NOVA, III
di Pietro Mastri (Firenze 1868 - ivi 1932)
L' alba, una vasta ondata
di luce limacciosa,
tra un fluttuar di nubi senza posa,
ecco, allagava a poco a poco il cielo
di livido chiarore.
L'alba d'inverno, l'alba desolata;
muta, senza colore,
e senza un dolce sussurrar di fronda
e senza un cinguettìo che gli risponda;
sparsa di fiori morti, i fior del gelo!
Pur, come venne il giorno
melanconicamente,
io non mi vidi attorno
se non festosa gente.
Parea che il cuore prono
degli uomini, a siffatto ben non uso
e grato come d'un immenso dono,
levasse in alto, oltre quel cielo chiuso,
l'inno più lieto che levar si può.
(Da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)
SOLE INVERNALE
di Arturo Graf (Atene 1848 - Torino 1913)
Candida e lieve le indurate ajuole
Copre la neve e il nudo poggio e i prati:
Rosseggiando, fra gli alberi sfrondati
Traluce l’occhio del cadente sole.
Il sanguigno fulgor, che incerto e breve
Tra i negri rami intirizziti splende,
Falde d’accesa porpora distende
E lembi d’oro sulla bianca neve.
Terra, il novo saluto e le promesse
Del sol ricevi: ancor rinverdirai;
Ancor, sciolta dal gel, ti coprirai
Di vaghi fiori e di gioconda messe.
Ma tu, mio cor, tu dall’antico lutto
Mai più, mai più non ti sciorrai. Che giova
Il sole a te? mio cor, chi ti rinnova?
Tu non darai mai più fiore né frutto.
(Da "Morgana", Treves, Milano 1901)
NOTTE D’INVERNO
di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912)
Il Tempo chiamò dalla torre
lontana... Che strepito! È un treno
là, se non è il fiume che corre.
O notte! Né prima io l’udiva,
lo strepito rapido, il pieno
fragore di treno che arriva;
sì, quando la voce straniera,
di bronzo, me chiese; sì, quando
mi venne a trovare ov’io era,
squillando squillando
nell’oscurità.
Il treno s’appressa... Già sento
la querula tromba che geme,
là, se non è l’urlo del vento.
E il vento rintrona rimbomba,
rimbomba rintrona, ed insieme
risuona una querula tromba.
E un’altra, ed un’altra. - Non essa
m’annunzia che giunge? - io domando.
- Quest’altra! - Ed il treno s’appressa
tremando tremando
nell’oscurità.
Sei tu che ritorni. Tra poco
ritorni, tu, piccola dama,
sul mostro dagli occhi di fuoco.
Hai freddo? paura? C’è un tetto,
c’è un cuore, c’è il cuore che t’ama
qui! Riameremo. T’aspetto.
Già il treno rallenta, trabalza,
sta... Mia giovinezza, t’attendo!
Già l’ultimo squillo s’inalza
gemendo gemendo
nell’oscurità...
E il Tempo lassù dalla torre
mi grida ch’è giorno. Risento
la tromba e la romba che corre.
Il giorno è coperto di brume.
Quel flebile suono è del vento,
quel labile tuono è del fiume.
È il fiume ed è il vento, so bene,
che vengono vengono, intendo,
così come all’anima viene,
piangendo piangendo,
ciò che se ne va.
(Da "I canti di Castelvecchio", Zanichelli, Bologna 1903)
RIME DELL'INVERNO
di Sergio Corazzini (Roma 1886 - ivi 1907)
Dolce l'autunno tanto
che pensammo un ritorno
al più soave giorno
d'aprile! Quale incanto
diffuse primavera
oltre i tiepidi orti
che la chiudon? ne porti,
autunno, la leggiera
anima nel tuo cuore
vecchio? C'è qualche cosa
di lei che l'angosciosa
morte con te oggi muore.
Non la tenne un'acuta
nostalgia di fiorire,
una voglia di aprire
le porte di ogni muta
villa, i cancelli di ogni
giardino, ormai diserto,
e dopo avere aperto
tutto, ridere in ogni
angolo il fresco riso
della sua giovinezza,
godere la tristezza
del vecchio inverno irriso?
Anima folle! Stanco
il dolce autunno cede.
e l'occhio tuo non vede
un lenzuolo bianco,
immenso come il cielo,
che si stende, si stende?
Non senti in cuore scendere
quasi mortale un gelo?
Come tenne l'inganno
le nostre anime, forte!
Sognavamo alla morte,
il principio dell'anno!
(Da «Gran Mondo», 26 novembre 1904)
LA NOTTE D'INVERNO
di Tito Marrone (Trapani 1882 - Roma 1967)
Non s'ode altro rumore nel silenzio
che d'una polla il roco
gorgoglio. Fioco
lume le stelle mandano.
Vigilano nell'ombra immoti gli alberi,
e non trafiata vento.
Gemere sento,
come ferita, l'anima.
Silenzio. Più non tremano
stelle nell'alto cielo.
Profondo gelo
tutte le membra invademi.
Silenzio. Più non brontola
l'acqua. Ogni cosa è morta.
S'apre una porta,
per me, nell'Ade pallida.
(Da "Liriche", Artero, Roma 1904)
MATTINO D'INVERNO
di Augusto Ferrero (Bologna 1866 - 1924)
Il sole sorge dietro la collina,
Destansi al riso luminoso i tetti
dal biancheggiar della notturna brina.
Paiono, nella limpida mattina,
rinnovellarsi i circostanti aspetti:
e fra un tumultuar dolce di affetti
tu emergi: e il cuor, tremando, a te si inchina.
Natale 1894.
(Da «Nuova Antologia», 16 settembre 1906)
ALBA D'INVERNO
di Antonino Anile (Pizzo Calabro 1869 - Raiano 1943)
Odo: par che un'ignota pianga
anima sgomenta:
che batta pei morti una vanga,
nel freddo rovaio che venta;
pare che una cetra sonora,
sotto stanche dita,
s'infranga, d'un tratto; che l'ora
suoni di un'angoscia infinita.
Una nebbia opaca diaccia
finge atri fantasmi.
Nudi i rami d'alberi braccia
paiono contorti da spasmi.
Il cielo basso, tra lo strappo
delle nubi grige,
mi sembra un funereo drappo
che serbi del mondo l'effige.
Occhi vitrei, nel dubbio lume,
si guardan tra loro.
Dove, o sole, fluttua il fiume
della tua grande anima d'oro?
A tratti, un gelido torpore
mi pervade i sensi.
O sole, o sole, che il mio cuore
naufraghi nei tuoi flutti immensi!
(Da "La croce e le rose", Ricciardi, Napoli 1909)
PELLEGRINAGGIO INVERNALE
di Carlo Chiaves (Torino 1882 - ivi 1919)
L'altro giorno - non so da qual coraggio
l'anima a un tratto mi sentissi invasa -
son tornato a la tua piccola casa
coi miei ricordi, in pio pellegrinaggio.
Sono tornato quasi in sogno: attratto
da quel senso che si compiace e appaga
come di un gioco, di inasprir la piaga,
di ravvivarla, in fondo al cuor disfatto.
Varcato il fiume, presi, lento, lento,
a salir per la via de la collina:
splendeva il sole e tanta era la brina
che ogni ramo parea quasi d'argento.
Ho rivista la panca, tutta verde
di musco; il ponticello; la fontana
ghiacciata: più non canta in voce umana
e solo a goccie giù l'acqua disperde.
Giunsi e varcai la soglia: che deserto,
il giardino! che schianto! le tue rose,
morte! e i gerani! quante morte cose!
Una donna è venuta, che mi ha aperto.
Son salito a la tua camera: nuda
come un sepolcro, tutto chiuso, oscuro!
proprio di fronte al letto, contro al muro
sai che ho trovato? una donnetta nuda!
Quella ch'io t'ho mandato, e su cui c'è
scritto... ma tu lo sai cosa c'è scritto!
io me la son ripresa, zitto, zitto,
se non ti spiace, la terrò con me.
Son ridisceso, errando pel giardino
vivo sol di memorie, quasi un'ora.
La vecchietta mi ha chiesto - E la Signora? -
Non risposi: rimasi a capo chino.
Pure comprese: tentennò la testa,
poi disse piano, ma in tono profondo:
- Come l'estate passa presto al mondo!
Solo l'inverno e la miseria restano! -
Che tristezza, che angoscia, nel ritorno!
Guardava io pei giardini ampi e deserti,
e tutti i luoghi mi pareano esperti
di tradimento e di pietà, quel giorno!
Cadea la sera. In basso, fra le brume,
per le tremule fiamme dei fanali,
si costellava la città di opali.
Qualche bagliore si frangea, nel fiume.
Pur, mentr'io mi sentiva il cor più stretto
da le angoscie de la malinconia,
vidi due amanti, a basso de la via,
salirne verso me, lenti, a bracetto.
Pensai - Forse ridesto da l'eterno
rimpianto, il sogno di qui mi fa ritorno? -
Ma lei diceva - Già declina il giorno:
che peccato che duri ancor l'inverno!
- Ascolta, amico, ascolta! - Ebben, che vuoi? -
- Quanta serenità! che bella sera!
ritorneremo questa Primavera?
- Cara! - ei ripose - E prima, certo! - e poi!
(Da "Sogno e ironia", Lattes, Torino 1910)
UNA SERA D'INVERNO ALLA FINESTRA
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (Ortonovo 1871 - Genova 1919)
... Una divina
malinconia mi bacia, e di sua ombra
mi ravvolge. Io sospiro. E il mar, intanto,
già irrequieto, sotto il pallor lento
de l'occaso sereno illividisce
e il gemer cresce. Quel mutar del giorno
ne la notte, io pendendo a la finestra
immobil seguo e una tristezza eterna
con disperata illusion ne libo.
Alcun forse, guardando, mi potrebbe
creder un sasso, così giunto io sono
al davanzale; o forse un vaso spoglio
di rametti e fiori, o forse un'ombra,
ma non un uomo: né pensier né cuore.
E il Tirreno s'infosca, e giù da monti
il vento con garrir lungo vi spazia;
e già la notte, i promontori, e i golfi
e le riviere oscuramente addensa
a l'orizzonte che s'appressa; e un astro
piange su quel deserto. Ahi! Che più vasta
solitudine è il cuor; né vi risplende
balen di stella; sol dubbi e ricordi
vi rimescon lor ansia con un lento
urlo di fiotti su deserto lido,
una sera d'inverno...
una sera d'inverno, Lavagna, 1907
(Da "Sonetti e poemi", Traversari, Empoli 1910)
INVERNI DI PROVINCIA
di Arturo Foà (Cuneo 1877 - 1944)
Oggi vi penso, inverni di provincia,
nelle tepide stanze, sulle strade
ove la neve a larghi mucchi gela.
Melanconia dei brevi giorni, e cara
dolcezza delle taciturne sere
fra il camino e la tavola, nel raggio
della centenne lampada custode!
Parton dal fuoco piccole parole,
onde, chi veglia, dal suo mover d'aghi,
o dal suo studio a brevi tratti sosta,
ed ascoltando, ad occhi aperti, sogna.
(Da "Le vie dell'anima", Lattes, Torino 1912)
LA VILLA D'INVERNO
di Diego Garoglio (Montafia 1866 - Asti 1933)
a Pier Lodovico Occhini
Chiusa, muta la villa solitaria
che guarda la città, la valle, i poggi
al vespero nell'aria
frigidamente adamantina roggi.
Irrigiditi gli alberi del parco
a guisa di cadaveri, la fonte
irrigidita, il varco
d'ogni recesso aperto a l'orizzonte.
Quanta tristezza! E memori del sole
i fiori nella vitrea tepente
prigione: le viole,
i mughetti, una rosa invano aulente
nella prigione per sfiorire invano!
Ma gaudiosamente, amico, il viso
tuo disse: "Per la mano
di lei son tutti per un suo sorriso!"
E il cuore a te fiorìa come un giardino
olezzante, nel sogno dell'amore,
e il vespero un mattino
ti parea, l'aria frigida un tepore
di primavera Ma triste la villa
pareva a me nella fredda agonìa
del giorno, una pupilla
trasognata ne la malinconìa!
Arezzo-Firenze, gennaio 1899.
(Da "Sovra il bel fiume d'Arno", Zanichelli, Bologna 1913)
SOLE D'INVERNO
di Arturo Onofri (Roma 1885 - ivi 1928)
Solicello d'inverno, al cui tepore
escono le vecchiette dalle tane,
e sognano gl'infermi sulle altane,
trepitando in un intimo stupore;
solicello invernale, o meraviglia
di colori, di musiche e di feste,
per tutti, ovunque, dopo le tempeste
e il freddo e il grigio tedio e la fanghiglia;
solicello d'inverno, ognun dà fede
oggi alla vita, e beve alla sua fonte
liete speranze, come chi non vede
le nuove nubi in fondo all'orizzonte.
Solicello giulìo, come sui tetti
si riscaldano i gatti sonnecchiando,
voglio anch'io fra i miei sogni prediletti
oggi poltrire in un languore blando.
(Da "Liriche", Ricciardi, Milano-Napoli 1914)
IMPRESSIONE INVERNALE
di Sandro Baganzani (Verona 1889 - ivi 1950)
Di là della strada fangosa
nel bosco di pini
che cupo dentella i confini
del'orizzonte,
sta sepolto un villaggio.
Non si senton cantare
campane: anima viva
non si vede camminare:
è il villaggio della favola?
Solo talvolta cigola
un carro:
(qual mano esangue
regge l'ànsima
dei cavalli decrepiti?)
Solo talvolta un cane
randagio, il naso all'aria,
viene dal villaggio
via per la campagna
solitaria.
Branchi di corvi
indolenti
spiegano allora il volo stanco
come uno sgorbio nero
nella sinfonia
del bianco.
E non si senton cantare
campane: anima viva
non si vede camminare.
È il villaggio della Morte?
(Da "Arie paesane", Taddei, Ferrara 1920)
INVERNO
di Francesco Cazzamini Mussi (Milano 1888 - Baveno 1952)
Nel mattino,
muovo per la campagna
deserta,
e ben che piana, un'erta
mi sembra o di montagna
faticoso cammino.
Pochi alberi spogli
per la terra crepata
dal gelo...
Nell'aria, non un belo;
ogni fonte seccata...
Mediti, Inverno, la tua nevicata?
Solo per quel silenzio,
cosa triste a vedere,
un vecchio che un braciere
prepara. E ha freddo, il vecchio!
Un immobile specchio
gli fa dintorno il ghiaccio.
E a lui sembran le dita
morte, e la mano stanca:
uno straccio.
Per la campagna bianca
non un soffio di vita.
O tu, grigio spazzino
che copri le lordure
e raduni le spoglie
dell'autunno, non basta
abbruciarle nel fumido mattino
denso di nebbie impure.
C'è qualcuno che aspetta,
affretta, affretta!
Oh, l'enorme catasta!
Poi, senza dir parola,
dar fuoco a rami e a foglie,
ché l'allegra fiammata racconsola.
È la vita o una selva?
Amici, non lo so,
ma quello ch'ora brucia,
lingueggiante falò,
è un abisso di porpora,
è una marea di fuoco
che rugge come belva...
Il nome conta poco...
Più tardi,
o mio vecchio spazzino,
senza tanti riguardi
tua moglie arriverà...
La tua dolce moglietta,
magra, tutt'ossa,
che aspetta aspetta aspetta,
e accende il lumicino,
dalla fiammella rossa,
oppur scende dal monte
per riderti sul muso,
vecchiettino camuso;
e poi ti bacia in fronte,
e poi ti stringe forte...
È tua moglie? Chissà, forse è la morte...
(Da "Il cuore e l'urna", Treves, Milano 1923)
MATTINO D'INVERNO
di Gian Pietro Lucini (Milano 1867 - Breglia 1914)
Sul monte un manto d’oro
S’infrangia di porpora:
massiccio e bizzarro tesoro.
Il lago s’invermiglia.
Conca di prato:
sopra il suolo gelato
l’erba è rossa.
Conca di valle:
il Cimitero è brullo come il prato
immobile e ghiacciato.
Ma i morti non patiscon le pruine.
Il muricciuolo del Cimitero
è breve, è candido,
si riscalda al sole.
Dei vecchi fra poco verranno
ad appoggiarvi le terga:
balbetteranno come fanciulli,
avran parole vane, strambe e lente,
sono dei mesti pezzenti
sdrusciti dalla lunga fatica della vita:
e si riscalderanno.
L’alberi si riveston di giojelli:
i più belli e i più smaglianti
sono i più caduchi.
Sul monte d’oro
si ricama il lavoro
delle preziosità del sole.
Le fanciulle si riguardano in volto
coll’occhio aperto:
una sincera speranza sfavilla.
E quei vecchi balbettano.
Questa notte
passò nel Cimitero
una processione.
Un Cristo crocefisso avea schiodato
le membra e s’era alzato sanguinoso.
Un mantello di neve ingiojellato
imperialmente lo ricopriva.
Molti bambini traeva con lui.
Il Cimitero non si è turbato,
e non l’ha udito, non l’ha sentito;
l’ossa dei morti non l’han riconosciuto.
A mezzanotte la processione passò;
ritornerà timida e imbarazzata.
Le fanciulle hanno l’occhi nel sole.
Vedi, sacerdotalmente, la Cima pontificare
nella limpidità fredda del cielo,
vestita a festa d’una dalmatica
ingiojellata di stalattiti.
A mezzo un cingolo di nebbie la fascia,
trine leggere di velo.
Il lago brilla verd’oro e rosso
tra l’uno e l’altro dosso
d’oscure e insanguinate malachiti.
(Da "Le Antitesi e le Perversità", Guanda, Parma 1970)
lunedì 17 dicembre 2012
L'albergo
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Tito Marrone |
del mio paese,
s’inazzurra la messa di Natale,
brulicano i lumini dei presepi.
I Re Magi viaggiano
lungo le siepi,
dietro la stella di fili d’argento,
verso la capannuccia di Gesù:
brontola il vento e la neve vien giù.
Or dove mai sarà
quel piccolo pastore
che alla sua rammendata cornamusa
appendeva il mio cuore?
Dove, la stella di fili d’argento?
Dove son io fanciullo?
Il mio presepio è brullo,
abbandonato, spento.
domenica 16 dicembre 2012
Da "Vita di Gesù" di Ernest Renan
