Due romanzi ormai dimenticati: "Il maestro di Vigevano" di Lucio Mastronardi (1930-1979) e "La vita agra" di Luciano Bianciardi (1922-1971), insieme ai film ispirati a tali romanzi e che portano i medesimi titoli, sarebbero da recuperare al più presto. Il loro merito principale fu quello di individuare le occulte e diaboliche trappole che ormai da qualche anno erano state abilmente inserite dai capitalisti che allora detenevano il potere, nella vita e nel modo di pensare del popolo italiano durante il famoso periodo del "boom economico", ovvero all'inizio degli anni '60. Questi meccanismi che avrebbero portato a una serie di aberrazioni collettive come il consumismo sfrenato, l'invidia sociale, l'esibizionismo senza limiti, la corruzione dilagante e tanto altro ancora, oggi si sono moltiplicati, anche se una crisi economica senza precedenti sembra che stia mettendo in seria crisi un sistema che però, probabilmente, continuerà a dominare il mondo ancora per un bel po'.
LIBRI
Lucio Mastronardi, "Il maestro di Vigevano", Einaudi, Torino 1962.
Luciano Bianciardi, "La vita agra", Rizzoli, Milano 1962.
FILM
"Il maestro di Vigevano", di Elio Petri, con Alberto Sordi e Claire Bloom, Italia 1963.
"La vita agra", di Carlo Lizzani, con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, Italia 1964.
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
mercoledì 20 giugno 2012
domenica 17 giugno 2012
Roma d'estate
In un volumetto della collana "Roma Tascabile", pubblicato dall'editore Newton Compton nel 1995 (da me trovato chissà dove, probabilmente una decina di anni dopo), lessi un frammento di Gabriele d'Annunzio (1863-1938), che originariamente faceva parte di un articolo pubblicato nella rivista «La Tribuna» del 20 luglio 1887 (il titolo era "L'estate di Roma"). In questo frammento si parla della ineguagliabile bellezza della capitale italiana durante la stagione estiva. Le parole del D'Annunzio mi piacquero molto, perché ripensando alle mie frequenti sortite nelle strade e nelle piazze del centro di Roma, durante le estati di circa trent'anni fa, vi ritrovai le medesime sensazioni (è pur vero che la città descritta dallo scrittore abruzzese, di un secolo e mezzo fa, era assai diversa). In quegli anni, il capoluogo laziale si svuotava quasi completamente nei mesi più caldi dell'anno: luglio e agosto. Era quindi possibile, per chi come me rimaneva in città (anche se in periferia), godere appieno la magnificenza di Roma: passeggiare per i vicoli assolati deserti; fermarsi a bere l'acqua fresca di una delle tante fontane che ci sono al centro; riposare un po' su una panchina di qualche piccola piazza e guardare con ammirazione e stupore il paesaggio circostante… Purtroppo, ho saputo che oggi Roma non è già più come era in quegli anni: ho saputo - non per esperienza diretta - che la città non si svuota più come accadeva allora, ed è quindi impossibile ritrovare quell'atmosfera tutta particolare, che si poteva vivere soltanto nei mesi estivi più caldi, passando nelle strade del centro storico di una tra le più belle città del mondo. Restano i ricordi, per chi li ha, e restano le parole veritiere di D'annunzio, che visse a Roma più di cento anni or sono.
Io ho sempre avuto una profonda compassione di tutta quella gente che dalla propria dignità e dalla consuetudine è costretta a star lontana da Roma nei mesi d’estate. E la mia compassione, in verità, è anche più profonda per tutta quella gente che, pur rimanendo a Roma, si vergogna di mostrarsi per le vie e passa le lunghe ore del giorno in un sopore affannoso, esalando l'intera angoscia in lamentazioni e querele, gonfiandosi di acque tinte, facendosi vento con un ventaglio giapponese o tergendosi il sudore dall'orribil fronte... Oh, povera gente, a cui sono ignoti e saranno forse ignoti per sempre gl’infiniti diletti che Roma, anche d’estate, può dare ai suoi fedeli!
Roma è sovranamente bella e grande e dilettevole in tutte le stagioni. Ma non la Roma invernale tutta color d'oro sotto il pallido cielo di gennaio, come una città dell'Estremo Oriente; né la Roma primaverile, tutta fiorita di rose e di viole come un verziere, ridente nell'azzurro con le sue fontane serene e con le sue chiese argentee; né la Roma d'autunno, immersa nella pura dolcezza della taciturna pace che le piovono i cieli sparsi di nuvole bianche, può venire al paragone con l'ignea Roma estiva che arde solitaria e grandiosa in mezzo alla sua campagna.
(da: Gabriele D'Annunzio, "Roma fine Ottocento", a cura di Paola Sorge, Newton Compton, Roma 1995, p. 57)
venerdì 15 giugno 2012
Il viaggio definitivo
...E me ne andrò. E resteranno gli uccelli
a cantare;
e resterà il mio giardino, col suo verde albero
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido;
e suoneranno, come suonano stasera,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese rinnoverà di gente ogni anno;
e nell'angolo, là, del mio giardino fiorito e incalcinato,
vagherà, nostalgico, il mio spirito...
E me ne andrò; e sarò solo, senza casa, senz'albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido...
E resteranno gli uccelli a cantare.
(Juan Ramon Jiménez)
Da "Poeti del Novecento italiani e stranieri", Einaudi, Torino 1960

È una bellissima poesia di Juan Ramon Jiménez incentrata sulla morte e sulla vita. La morte che sancisce la perdita di tutto ciò che abbiamo: dei nostri luoghi cari, delle persone che ci hanno amato; per questo il poeta s'immagina, avvenuto il trapasso, che il suo spirito vaghi, inconsolabilmente solo, nel suo giardino fiorito, accorgendosi che oramai è morta tutta la gente da lui conosciuta, perché la vita va avanti inesorabilmente, e le generazioni si susseguono. È, in sostanza, un'amara constatazione: ciò che a noi fu più caro e prezioso scomparirà per sempre con la nostra dipartita e nulla rimarrà oltre ai luoghi che ci videro vivere, gioire ed amare. Un altro poeta, Camillo Sbarbaro, ribadisce il medesimo concetto in questi versi tratti da un'altra splendida poesia: «Di ciò che abbiam sofferto / di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore / non rimarrà il più piccolo ricordo».
a cantare;
e resterà il mio giardino, col suo verde albero
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido;
e suoneranno, come suonano stasera,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese rinnoverà di gente ogni anno;
e nell'angolo, là, del mio giardino fiorito e incalcinato,
vagherà, nostalgico, il mio spirito...
E me ne andrò; e sarò solo, senza casa, senz'albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido...
E resteranno gli uccelli a cantare.
(Juan Ramon Jiménez)
Da "Poeti del Novecento italiani e stranieri", Einaudi, Torino 1960

È una bellissima poesia di Juan Ramon Jiménez incentrata sulla morte e sulla vita. La morte che sancisce la perdita di tutto ciò che abbiamo: dei nostri luoghi cari, delle persone che ci hanno amato; per questo il poeta s'immagina, avvenuto il trapasso, che il suo spirito vaghi, inconsolabilmente solo, nel suo giardino fiorito, accorgendosi che oramai è morta tutta la gente da lui conosciuta, perché la vita va avanti inesorabilmente, e le generazioni si susseguono. È, in sostanza, un'amara constatazione: ciò che a noi fu più caro e prezioso scomparirà per sempre con la nostra dipartita e nulla rimarrà oltre ai luoghi che ci videro vivere, gioire ed amare. Un altro poeta, Camillo Sbarbaro, ribadisce il medesimo concetto in questi versi tratti da un'altra splendida poesia: «Di ciò che abbiam sofferto / di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore / non rimarrà il più piccolo ricordo».
martedì 12 giugno 2012
La poesia di Carlo Michelstaedter

"Scritti (volume I)", Formiggini, Roma 1912.
"Poesie", Adelphi, Milano 1987.
Presenze in antologie
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 286-287).
"Lirica del Novecento. Antologia di poesia italiana", a cura di Luciano Anceschi e di Sergio Antonielli, Vallecchi, Firenze 1953 (pp. 101-106).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 519-522).
"Poeti italiani del XX secolo", a cura di Alberto Frattini e Paolo Tuscano, La Scuola, Brescia 1974 (pp. 106-116).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio, Garzanti, Milano 1980 (vol. I, pp. 245-254).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Elio Pecora, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 99-104)."Poesia del Novecento italiano. Dalle avanguardie storiche alla seconda guerra mondiale", a cura di Niva Lorenzini, Carocci, Roma 2002 (pp. 83-85).
Testi
IL CANTO DELLE CRISALIDI
Vita, morte,
la vita nella morte;
morte, vita,
la morte nella vita.
Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte
filammo a questa morte.
E più forte
è il sogno della vita -
se la morte
a vivere ci aita
ma la vita
la vita non è vita
se la morte
la morte è nella vita
e la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita.
Ma se vita
sarà la nostra mortenella vita
viviam solo la morte
morte, vita,
la morte nella vita;
vita, morte,
la vita nella morte. -
(da "Poesie")
domenica 10 giugno 2012
Poeti dimenticati: Luigi Donati
Luigi Donati nacque a Lugo di Romagna nel 1870 e vi morì nel 1946. Giornalista, scrittore e bibliotecario, si interessò dell'opera poetica del suo corregionale Giacinto Ricci Signorini, curandone anche l'edizione postuma delle poesie e delle prose. Amico di Gian Pietro Lucini che scrisse una prefazione alla sua opera poetica più significativa: Le Ballate d'Amore e di Dolore (1897), fece parte di un cenacolo di poeti che per primi introdussero in Italia la poetica del simbolismo. I versi di Donati mostrano alcuni elementi neoromantici, pascoliani e decadenti.
Opere poetiche"Tentativi", Seraglio, Siracusa 1893.
"Le Ballate d'Amore e di Dolore", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1897.
"Poesia di Passione. La Grazia", Zanichelli, Bologna 1928.
Presenze in antologie"Il Verso Libero", Edizioni di "Poesia", Milano 1908 (pp. 630-632).
DOLOROSA
Come il vento fra i rami di cipresso,
Piange talvolta l'anima nel verso
Ch'io nell'enigma della vita immerso
Plasmo fra i dubbi da cui sono oppresso.
Piange, né ad essa valgono i conforti
Unica meta al mio triste viaggio:
Voi siete i fior divelti in pieno maggio
Dall'anima che omai nega ogni cosa
E piange una ballata dolorosa,
Come il vento fra i rami di cipresso.
(Da "Poesia di Passione")
Opere poetiche"Tentativi", Seraglio, Siracusa 1893.
"Le Ballate d'Amore e di Dolore", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1897.
"Poesia di Passione. La Grazia", Zanichelli, Bologna 1928.
Presenze in antologie"Il Verso Libero", Edizioni di "Poesia", Milano 1908 (pp. 630-632).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (Vol. 1, pp. 86-90; vol. 2, pp. 108-109; vol 3, p. 95).
Piange talvolta l'anima nel verso
Ch'io nell'enigma della vita immerso
Plasmo fra i dubbi da cui sono oppresso.
Piange, né ad essa valgono i conforti
Della fede i sorrisi del pensiero
Tuttora illuso da un gentil miraggio...
Ahi, voti onesti un dì ben saldi, or morti
E chiusi in qualche ignoto cimitero,Unica meta al mio triste viaggio:
Voi siete i fior divelti in pieno maggio
Dall'anima che omai nega ogni cosa
E piange una ballata dolorosa,
Come il vento fra i rami di cipresso.
(Da "Poesia di Passione")
venerdì 8 giugno 2012
Il bambino (o fanciullo) nella poesia italiana decadente e simbolista
La simbologia del fanciullo è spesso collegata ad un concetto di purezza, d'ingenuità, di semplicità e di speranza; non mancano però altri tipi di simboli che fanno riferimento al bambino, il quale, in alcuni casi, viene identificato col mondo (in Onofri per esempio) oppure con "un mondo" ovvero con la realtà tutta personale e straordinaria che riesce a percepire soltanto il fanciullo, sorta di essere dai poteri sensoriali enormemente sviluppati e dotato di un'immaginazione fantastica che gli permette di cogliere e immagazzinare elementi sconosciuti dell'universo, inaccessibili agli adulti. Se però si parla di poesia crepuscolare, il bambino o, meglio, l'infanzia diviene il periodo maggiormente rimpianto del passato, perché privo di tristezza e colmo di spensieratezza.
Poesie sull'argomento
Paolo Buzzi: "I bimbi" in "Aeroplani" (1909).
Carlo Chiaves: "Inquietudine" in "Sogno e ironia" (1910).
Guelfo Civinini: "Il poeta fanciullo" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Sergio Corazzini: "Il fanciullo" in "Le aureole" (1905).
Federico De Maria: "Il bimbo" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Willy Dias: "La bambola e la bimba" in «Poesia», novembre 1908.
Giulio Gianelli: "La fiaba" in «Riviera Ligure», luglio 1911.
Enzo Marcellusi: "I fanciulli" in "Il giardino dei supplizi" (1909).
Nicola Marchese: "Infanzia" in "Le Liriche" (1911).
Tito Marrone: "Un fanciullo" in "Liriche" (1904).
Giovanni Pascoli: "Il fanciullo" in "Pensieri e dicorsi" (1907).
Fausto Salvatori, "Il bel putto che stringe fra le bracia" in "In ombra d'amore" (1929).
G. A. Sanguineti: "Vertigine" in "La cicuta" (1911).
Francesco Scaglione: "I fanciulli vecchi" in "Le Litanie" (1911).
Emanuele Sella: "Il Sogno" in "Rudimentum" (1911).
Domenico Tumiati: "L'amorino" e "La Bambina delle spine" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Testi
IL FANCIULLO
di Giovanni Pascoli
Il nome? Il nome? L'anima io semino,
ciò ch'è di bianco dentro il nocciolo,
che in terra si perde,
ma nasce il bell'albero verde.
Non lauro e bronzo voglio; ma vivere;
e vita è il sangue, fiume che fluttua
senz'altro rumore,
che un battito, appena, del cuore.
Nei cuori, io voglio, resti un mio palpito,
senz'altro vanto che qual d'un brivido
che trema su l'acque,
fa il sasso che in fondo vi giacque.
Nell'aria, io voglio, resti un mio gemito:
se l'assiuolo geme voglio essere
tra i salci del rio
anch'io, nelle tenebre, anch'io.
Se le campane piangono piangono,
io nelle opache sere invisibile
voglio essere accanto
di quella che piange a quel pianto.
Io poco voglio; pur, molto: accendere
io su le tombe mute la lampada
che irraggi e conforti
la veglia dei poveri morti.
Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea,
nel cielo infinito;
dar nuova dolcezza al vagito.
Voglio la vita mia lasciar; pendula
ad ogni stelo, sopra ogni petalo,
come una rugiada
ch'esali dal sonno, e ricada
nella nostr'alba breve. Con l'iridi
di mille stille sue nel sole unico
s'annulla e sublima...
lasciando più vita di prima.
(Da "Pensieri e discorsi")
Poesie sull'argomento
Paolo Buzzi: "I bimbi" in "Aeroplani" (1909).
Carlo Chiaves: "Inquietudine" in "Sogno e ironia" (1910).
Guelfo Civinini: "Il poeta fanciullo" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Sergio Corazzini: "Il fanciullo" in "Le aureole" (1905).
Federico De Maria: "Il bimbo" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Willy Dias: "La bambola e la bimba" in «Poesia», novembre 1908.
Giulio Gianelli: "La fiaba" in «Riviera Ligure», luglio 1911.
Enzo Marcellusi: "I fanciulli" in "Il giardino dei supplizi" (1909).
Nicola Marchese: "Infanzia" in "Le Liriche" (1911).
Tito Marrone: "Un fanciullo" in "Liriche" (1904).
Giovanni Pascoli: "Il fanciullo" in "Pensieri e dicorsi" (1907).
Fausto Salvatori, "Il bel putto che stringe fra le bracia" in "In ombra d'amore" (1929).
G. A. Sanguineti: "Vertigine" in "La cicuta" (1911).
Francesco Scaglione: "I fanciulli vecchi" in "Le Litanie" (1911).
Emanuele Sella: "Il Sogno" in "Rudimentum" (1911).
Domenico Tumiati: "L'amorino" e "La Bambina delle spine" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Testi
IL FANCIULLO
di Giovanni Pascoli
Il nome? Il nome? L'anima io semino,
ciò ch'è di bianco dentro il nocciolo,
che in terra si perde,
ma nasce il bell'albero verde.
Non lauro e bronzo voglio; ma vivere;
e vita è il sangue, fiume che fluttua
senz'altro rumore,
che un battito, appena, del cuore.
Nei cuori, io voglio, resti un mio palpito,
senz'altro vanto che qual d'un brivido
che trema su l'acque,
fa il sasso che in fondo vi giacque.
Nell'aria, io voglio, resti un mio gemito:
se l'assiuolo geme voglio essere
tra i salci del rio
anch'io, nelle tenebre, anch'io.
Se le campane piangono piangono,
io nelle opache sere invisibile
voglio essere accanto
di quella che piange a quel pianto.
Io poco voglio; pur, molto: accendere
io su le tombe mute la lampada
che irraggi e conforti
la veglia dei poveri morti.
Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea,
nel cielo infinito;
dar nuova dolcezza al vagito.
Voglio la vita mia lasciar; pendula
ad ogni stelo, sopra ogni petalo,
come una rugiada
ch'esali dal sonno, e ricada
nella nostr'alba breve. Con l'iridi
di mille stille sue nel sole unico
s'annulla e sublima...
lasciando più vita di prima.
(Da "Pensieri e discorsi")
giovedì 7 giugno 2012
Sotto i colpi
C'è gente che ci passa la vita
che smania di ferire:
dov'è il tallone gridano dov'è il tallone,
quasi con metodo
sordi applicati caparbi.
Sapessero
che disarmato è il cuore
dove più la corazza è alta
tutta borchie e lastre, e come sotto
è tenero l'istrice.
Questa poesia di Nelo Risi fa parte del volumetto "Pensieri elementari" (Mondadori, Milano 1961) ed è una delle più profonde e più belle liriche del poeta milanese. Il testo, nella sua prima parte, parla del gusto, si direbbe sadico, che prova molta gente nel colpire il suo prossimo per farlo soffrire nel modo più crudele possibile; cercano, per tale motivo, di individuare il "tallone d'Achille" sì da poterlo ferire mortalmente. Nella seconda parte Risi invita ad una riflessione riguardo alla fragilità che accomuna più o meno tutti gli esseri umani, malgrado alcuni di loro esibiscano certi comportamenti atti a nascondere, con una palese dimostrazione di forza e di invulnerabilità, la presenza più che mai marcata di debolezza, nascosta strenuamente ostentando una falsa personalità tutta piena di atteggiamenti aggressivi; esattamente come fa l'istrice che per non essere attaccato si chiude entro la sua pungente corazza.
che smania di ferire:
dov'è il tallone gridano dov'è il tallone,
quasi con metodo
sordi applicati caparbi.
Sapessero
che disarmato è il cuore
dove più la corazza è alta
tutta borchie e lastre, e come sotto
è tenero l'istrice.
Questa poesia di Nelo Risi fa parte del volumetto "Pensieri elementari" (Mondadori, Milano 1961) ed è una delle più profonde e più belle liriche del poeta milanese. Il testo, nella sua prima parte, parla del gusto, si direbbe sadico, che prova molta gente nel colpire il suo prossimo per farlo soffrire nel modo più crudele possibile; cercano, per tale motivo, di individuare il "tallone d'Achille" sì da poterlo ferire mortalmente. Nella seconda parte Risi invita ad una riflessione riguardo alla fragilità che accomuna più o meno tutti gli esseri umani, malgrado alcuni di loro esibiscano certi comportamenti atti a nascondere, con una palese dimostrazione di forza e di invulnerabilità, la presenza più che mai marcata di debolezza, nascosta strenuamente ostentando una falsa personalità tutta piena di atteggiamenti aggressivi; esattamente come fa l'istrice che per non essere attaccato si chiude entro la sua pungente corazza.
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