giovedì 2 febbraio 2012

Da "Disjecta" di Igino Ugo Tarchetti

Io canto la morte della mia giovinezza. Felice chi può cantarla a suo tempo, quando divennero canuti i suoi capelli, e l'età gli addita la tomba della vita! Lasciate che io pianga i miei sogni e le mie speranze. Piove la rugiada dal cielo sul fiore che ebbe un solo giorno di vita, e chi non avrà una lacrima per la creatura animata? A venti anni, io canto la morte della mia giovinezza. Tre grandi epoche segnarono il cammino della mia vita. Bella è la vita rallegrata dal sorriso della speranza, soave è la voce dell'amore negli anni della giovinezza. Io rammemoro il tempio della foresta, i colli di Valnera, e gli occhi di Malvina. Ancora io sogno le emozioni di questo passato. Altro non è la vita che un sogno, oh lasciatemi, lasciatemi dunque sognare.
Dove mi trasporti o incanto misterioso della fantasia? Io riveggo le antiche muraglie del tempio della foresta: inni ardenti di fede, canzoni d'amore eccheggiate sotto le sue volte, di voi non mi è rimasto che una memoria. Nelle tenebre della notte si versano le lacrime della natura: nel segreto della mia anima, io piango gli anni felici della mia giovinezza.
Oh ripide colline della mia valle! Oh consolanti reminiscenze della mia giovane vita! intendo la voce misteriosa delle vostre memorie. Agile cacciatore della montagna, chi potea togliermi la mia felicità? Ohimè! io non aveva peranco conosciuto l'amore. Oh lasciate che tornino al mio cuore queste memorie. Soave è il pensiero della felicità negli anni della sventura. Io sogno l'esistenza di quindici anni...
Oh lasciate, lasciate dunque che io sogni.
Più dolce del canto dell' usignuolo, più ardente dell'occhio della gazzella, erano la tua voce, e le tue pupille, o Malvina. Oh perchè non mi affatico io di dimenticarle? Cento notti trascorsero dall'ora della nostra separazione. Io benedico la notte, perocché dessa sia compagna della mia solitudine. Sola conobbe la nostra felicità, sola conosce la nostra sventura; splende il patetico raggio della luna, anche sull'infelice... Volgono ora nella mia anima tristi pensieri di morte, abbandonatemi al mio dolore... una morte io debbo piangere, ed è quella della mia giovinezza.
Come trascorrono le acque del fiume sotto la superficie gelata, così passano ignorati fra le lacrime, e velati da un sorriso menzognero i giorni della mia vita; il mio destino li ha numerati e il mio destino è governato dall'amore. E perchè dovrò io vivere senza di esso?... Voi non tornerete, o tiepide primavere, che per gli amanti felici... Cadono appassiti i vostri fiori dalle mani di un giovine sventurato. Benedetto il tempio, e le valli, e l'amore della mia fanciulla: essi passarono come la mia felicità: ma chi potrà rapirmene la memoria ? Essi verranno meco nella tomba della mia giovinezza.


(Igino Ugo Tarchetti, "Disjecta", Zanichelli , Bologna 1879, pp. 69-72)





I Canti del cuore di Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969) rappresentano qualcosa di straordinario nell’ambito della poesia italiana del XIX secolo; purtroppo, lo scrittore piemontese non li pubblicò mai in volume, anche a causa della sua prematura morte; perciò uscirono nel 1879, all’interno della raccolta postuma intitolata Disjecta, che comprendeva tutte le poesie di Tarchetti, già pubblicate in svariate riviste del secondo Ottocento. La straordinarietà dei Canti del cuore risiede nel fatto che sono delle prose poetiche, e furono scritte in tempi in cui tale forma letteraria era praticamente assente in Italia; soltanto in Francia, grazie a immensi poeti come Charles Baudelaire ed Arthur Rimbaud,  la poesia in prosa si era già diffusa, ottenendo un notevole consenso di pubblico. Nel frammento che ho riportato, è facile riscontrare l’enorme talento di Tarchetti: un poeta a metà tra romanticismo e scapigliatura, che, almeno nelle prose dei Canti del cuore, mostra chiari influssi dalla poesia leopardiana.


Da "Fosca" di Igino Ugo Tarchetti

Prima di ritirarmi dal mondo, prima di isolarmi in mezzo alla folla - isolamento assai piú penoso che nelle vaste solitudini della natura - ho voluto ricordare ancora una volta, ricordare con pienezza e con fede. Io sono ora in pace con me stesso. Le agitazioni profonde della mia anima, le irrequietezze febbrili della mia mente sono cessate. Io ne comprendo ora le cause. Molti uomini non si trovano bene colla vita perché non hanno ancora scoperto il loro punto d’equilibrio.
Il difficile è trovare il centro della propria anima!


(da: Igino Ugo Tarchetti, "Fosca", Sonzogno, Milano 1874, p. 10)




Fosca è il titolo di un romanzo di Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 – Milano 1869). Questa può essere definita la migliore opera in prosa dello scrittore piemontese, ed anche una delle più significative della Scapigliatura: corrente letteraria italiana diffusasi all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, che ebbe come principali esponenti, oltre a Tarchetti, Emilio Praga, Arrigo Boito e Giovanni Camerana. Il frammento che ho riportato, si trova nelle prime pagine di una riedizione di Fosca, risalente al 1874 (la prima è del 1869); chi voglia leggere questo ottimo libro, può anche vedere l’altrettanto ottimo film di Ettore Scola: Passione d’amore (1981), che si rifà direttamente al testo di Tarchetti.


mercoledì 1 febbraio 2012

Poeti dimenticati: Giuseppe Chiovenda

Giuseppe Chiovenda nacque a Primosello, in provincia di Novara, nel 1872 e morì a Novara nel 1937. Giurista di fama, insegnò presso gli istituti universitari di Parma, Bologna, Napoli e Roma; fu accademico dei Lincei e pubblicò molte opere di diritto che ancora oggi sono conosciute. Come suo fratello Tito, insigne diplomatico, anche Giuseppe coltivò la passione per la poesia, pubblicando in gioventù dei libriccini di versi che mostrano un'anima tardo-romantica e intimista.
 

Giuseppe Chiovenda


 
Opere poetiche
"Poesie", La Società Laziale, Roma 1891.
"Agave", Unione Cooperativa Editrice, Roma 1895.
 
 
Presenze in antologie
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (volume quarto, pp. 308-311).
 
 
 
Testi
IL PICCOLO FORZIERE

Ho riaperto il piccolo forziere,
Che la storia chiudea del nostro amor;
I suoi biglietti, le sue ciocche nere,
i suoi poveri fior.

Queste reliquie ho visto sul braciere
Divampare con livido baglior;
E m'è rimasto il piccolo forziere
Vuoto come il mio cuor.

(Da "Agave")

Poeti dimenticati: Willy Dias

Willy Dias è lo pseudonimo con cui si firmò la scrittrice Fortunata Morpurgo Petronio, nata a Trieste nel 1872 e ivi morta nel 1956. Autrice di vari romanzi rosa, è stata anche giornalista del "Caffaro"; firmò un importante documento a favore della libertà di stampa ai tempi del fascismo; dal 1946 entrò nella redazione de "L'Unità". Scrisse pochi versi che pubblicò su riviste importanti come "Domenica Letteraria" e "Poesia" ma purtroppo non esiste attualmente un volume che raccolga la sua opera poetica. Le sue liriche mostrano chiari influssi pascoliani e decadenti.
 
 

Willy Dias



Presenze in antologie
"Poeti italiani d'oltre i confini", a cura di Giuseppe Picciòla, Sansoni, Firenze 1914 (pp. 247-249).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 104-107).




 
Testi
LA BAMBOLA E LA BIMBA

Tanti, tanti anni or sono. E una gioconda
fanciulla inconscia, ignara
sognava sempre una bambola bionda
che lunghi, aurei capelli
avesse, e gli occhi belli.
- Era una bimba ignara. –

Ed ella ebbe la bambola, ma al breve
corpo di crusca pieno
senza saperlo una ferita lieve
con uno spillo un giorno
che le giocava intorno,
ella infisse nel seno.

E la bambola bionda un po’ per volta
la crusca – ahimé – perdeva.
Non se ne avvide pria, la bimba stolta,
del dì che floscio e vuoto
il picciol corpo immoto
più forma non aveva.

Tanti, tanti anni or sono. A una gioconda
fanciulla, inconscia, ignara,
una ferita nel cuore profonda
venne inflitta scherzando,
venne inflitta giocando.
- Era una bimba ignara. –

E nessuno, nessun, lo seppe mai
ed ella nulla disse;
da quel giorno apparì mutata assai,
scherzò delle speranze,
folleggiò tra le danze.
- Ma nulla, nulla disse. –

E presto si sentì stanca, la lieta
gioventù non le arrise;
nel cuor portava la morte segreta…
Ella no’l disse mai;
nessun lo seppe mai;…
la ferita l’uccise.
 
(Dalla rivista «Poesia» del novembre 1908)

Poeti dimenticati: Ulisse Tanganelli

Ulisse Tanganelli nacque ad Arezzo nel 1853 e morì a Firenze nel 1931. Dopo la laurea in Giurisprudenza esercitò la professione di avvocato e, in seguito, di magistrato. Grande fu la passione per la letteratura che il Tanganelli dimostrò pubblicando varie raccolte di versi, le quali inizialmente mostrano un poeta molto polemico e sarcastico, in linea con la poetica di Olindo Guerrini; nelle opere della maturità la vena satirica si spegne per essere sostituita da una attenzione verso la natura che il poeta osserva con meraviglia e ammirazione.
 
 
Opere poetiche
"Autumnalia", Brigola, Milano 1878.
"Aestiva", Arte della stampa, Firenze 1886.
"Monasteri", Landi, Firenze 1889.
"La buona dea", Paggi, Firenze 1892.




 
 
Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (p. 384).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 311-315).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 613-619).
"Dio borghese: poesia sociale in Italia 1877-1900", a cura di Adolfo Zavaroni, G. Mazzotta, Milano 1978 (pp. 116-117).
 
 
Testi

OMBRA

Dalle foglie dei cerri e dei castani
La verd'ombra discende in ogni proda;
Sembra il bosco novello una pagoda
Che aspetti i sacerdoti a riti arcani.
La calma vegetale
Non turba piè d'armento o frullo d'ale.

All'alte rame vivamente brilla
Del suo fiero splendor l'estivo sole;
Ma, penetrando le silvestri gole,
Come per dubbio tra le foglie oscilla:
All'incostante brezza
Or sì or no la verde ombra si spezza.

Solca le borraccine umide e scure
Dei frantumati raggi il luccicore;
Si mesce a quel de la ginestra in fiore
L'olezzo delle fragole mature,
Che allungano dai cespi
Gli involucretti porporini e crespi.

(Da "La buona dea")
 

lunedì 30 gennaio 2012

Il rimpianto dell'infanzia nei poeti ermetici meridionali

Salvatore Quasimodo (1901-1968), Alfonso Gatto (1909-1976), Libero De Libero (1906-1981) e (Leonardo Sinisgalli (1908-1981) sono stati quattro poeti italiani che la critica letteraria più avveduta accomunò definendoli ermetici, insieme ad altri poeti come Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, Vittorio Sereni ecc. Ma i quattro hanno altre caratteristiche in comune che vanno oltre l'ermetismo: a cominciare dal fatto che tutti provenivano dall'Italia meridionale, che tutti (a eccezione di De Libero) ben presto lasciarono la loro terra d'origine per trasferirsi nell'Italia del nord, e infine tutti scrissero dei versi in cui si percepiva una struggente nostalgia per il periodo infantile trascorso nelle loro terre; che parlavano di quella fase della loro vita come fosse un momento magnifico, lo descrivono somigliante ad un vero e proprio mondo mitico, fatto di paesaggi naturali incontaminati, di persone straordinarie che vivevano in quei luoghi, oramai perse per sempre per motivi dovuti alla loro morte sopraggiunta nel frattempo o alla perdita di ogni possibile contatto con loro; a quest'ultimo proposito sono i parenti più stretti (genitori, fratelli, sorelle) e gli amici dei giochi dell'infanzia ad essere maggiormente rimpianti da questi poeti costretti (per motivi di lavoro) ad abbandonare i luoghi amati. Ecco allora una brevissima selezione delle loro poesie più significative al riguardo, tutte tratte dalle loro opere iniziali, perché è proprio lì che si avverte di più questo rimpianto misto a dolore, per la consapevolezza di avr perso qualcosa di irritrovabile, qualcosa che per alcuni di loro va al di là della fanciullezza perduta e diviene quasi impressione netta di vivere una vita presente totalmente inutile: si avverte lo strazio interiore di chi sa di aver lasciato tutto ciò che contava laggiù, nel sud, insieme ai loro genitori ormai scomparsi, ai loro amici persi di vista, e alla loro infanzia mitica.
 
 
 
VENTO A TINDARI
di Salvatore Quasimodo


Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull'acque
dell'isole dolci del dio,
oggi m'assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m'accompagna
s'allontana nell'aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d'ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d'anima.

A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l'esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d'armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m'ha cercato.

(Da "Ed è subito sera")
 

 
 
INFANZIA
di Alfonso Gatto


Il bambino, sorpreso alla finestra
della sera tranquilla, odorava
la leggerezza tepida dei fiori
sollevati nell'aria celeste.
Inquietamente raccoglieva il volto
in un silenzio scolorito
e calmo la sua vergogna ridonava
all'impalpabile sera
assiepata dall'erbe e dai tetti.
Sognava: nella piazzetta antica
la chiesa era un piccolo chiosco
con la bandierina allegra:
alla cupola di maiolica
s'illuminavano gli scarabei
sulle lastre d'acqua verdina.
Il silenzio dell'umido erboso
acquetava le scale,
i balconcini coi tralci, le stive
dei fondaci colmi di frutta.
Così s'accendeva il fanale,
a poco a poco aggregato dall'acque,
sulla laguna invernale.
Affondavano le case
in lontananze distrutte,
sgretolate senza rumore:
trasaliva il bambino invecchiato
intirizzito all'ombrello.

Andava a trovare i suoi morti
rinchiusi in armadi sconnessi:
traboccava allegra pioggia
sul piccolo porto di legno,
ed una gioia strana
lo flagellava col vento
in un presagio del mare.

(Da "Poesie")
 

 
 
QUESTA PIOGGIA
di Libero De Libero


Questa pioggia di città
(saluto all'inverno con acqua
gentile come un sognato canto
nella stanza della sera)
mi riporta a una collina
amata per un viaggio di cavalli,
al paese in collina
abbrancato nei castagni,
al tempo e all'odore
dei giorni contadini,
a mia madre rimasta
nei figli e nel pane
e nell'amore di mio padre
e per lui morta,
a tutta la mia gente antica
mandriana di palude.

Questa pioggia di città
(dell'inverno fredde radici
e stanche palpebre d'acqua
e timida sera della stanza)
mi riporta alla casa con sedie
tante e della morte sola novità,
al collegio con tanti occhi
e nel segreto meglio si giocava,
a tutta l'infanzia dal corpo
assediata e dalle stagioni.
È questa l'acqua attinta
ai pozzi di Monte Calciano,
acqua venuta dal mare
e il mare molesta il sonno
al fanciullo che il gatto pianse
lapidato nel bosco coi compagni.

(Da "Scempio e lusinga")
 

 
 
LA LUCE ERA GRIDATA A PERDIFIATO
di Leonardo Sinisgalli


La luce era gridata a perdifiato
Le sere che il sole basso
Arrossava il petto delle rondini rase.
Ora e sempre più viva
Sarà la smania di far notte in me solo
E cercar scampo e riposo
Nella mia storia più remota.
Ogni sera mi vado incontro a ritroso.

(Da "Vidi le Muse")
 
 
 
 

Tabernacoli d'oro alza la sera

Tabernacoli d'oro alza la sera
per celebrare i mistici sponsali
fra la terra che freme primavera
e il cielo che n'ha già brividi d'ali.

La melodia dell'erba è sì leggera
che insieme a lei sembra ogni zolla esali
su nella luce; e il cielo, alla preghiera,
si sciolga in caldi baci nuziali.

L'anima che in quel fremito è rapita,
obliando i suoi poveri tormenti,
risorge a quella luce: a quella vita

cosmica, in armonia con gli elementi,
quando al coro degli angeli era unita,
sposa di tutti gli esseri viventi.


Questa lirica appartiene alla seconda fase poetica di Arturo Onofri (1885-1928), poeta romano che nelle sue prime raccolte ("Liriche", 1907; "Poemi tragici", 1908; "Canti delle oasi", 1909) fu attratto e influenzato dalle tematiche del decadentismo e del crepuscolarismo, staccandonese col tempo per approdare ad una poesia del tutto nuova (non solo in Italia) che nasce da una profonda tensione esistenziale e sfocia in una ricerca della purezza intesa dal poeta come rinascita, rigenerazione universale rappresentata dalla natura in un contino evolversi e in una perenne sintesi con l'elemento divino. Molto influirono sulle ultime opere onofriane le teorie religiose e antroposofiche di Rudolf Steiner (1861-1925) filosofo austriaco che a sua volta si rifaceva alla teosofia (varie dottrine mistico-filosofiche collegate tra di loro) ed al pensiero indiano. La poesia è tratta da "Vincere il Drago!" (1928), si tratta di un sonetto che rientra pienamente nella fase più filosofica e mistica di Onofri; l'arrivo della sera sembra annunciare un rito iniziatico in cui si celebrano la Terra ed il Cielo intesi come divinità vere e proprie; nella Terra prevale l'elemento musicale e spirituale mentre il Cielo rappresenta quello di un amore caldo e sensuale. Nelle due terzine diviene protagonista l'anima umana che, assistendo allo spettacolo si libera dei problemi e dei tormenti terreni per obliarsi ed estasiarsi nella luce e nella vita cosmica, in un mondo ultraterreno in cui ha già vissuto e in cui è destinata a ritornare.