domenica 14 dicembre 2025

La poesia di Cesare Pavese

 Per me i "versi di Pavese", quando avevo poco più di vent'anni, erano soltanto un frammento tratto dal testo della canzone Il treno, di Riccardo Cocciante (un brano musicale che allora amavo particolarmente ed ascoltavo spesso). Per il resto, ricordo di aver visto, forse quand'ero poco più di un ragazzino, un breve filmato dedicato a Pavese, trasmesso all'interno di una vecchia trasmissione televisiva: L'almanacco del giorno dopo. Come mi successe in altre occasioni, ebbi modo di conoscere la poesia di Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo 1908 - Torino 1950) grazie ai vecchi libri di scuola che avevo in casa, o alle antologie incentrate sulla poesia italiana del Novecento. In seguito acquistai due libri che raccolgono l'intera produzione poetica dello scrittore torinese, certo più famoso per le opere in prosa che per quelle in versi: Lavorare stanca e Poesie del disamore. Per quanto concerne il primo libro, si può ben dire che, quando uscì nel 1936, rappresentò qualcosa di nuovo e di rivoluzionario: in netto contrasto con l'ermetismo imperante. Quest'opera poetica è dominata da composizioni in versi lunghi, che ricordano quelli dell'americano Walt Whitman (al poeta statunitense Pavese si interessò molto, focalizzandovi anche la sua tesi di laurea) e, parlando della nostra nazione, del suo concittadino Enrico Thovez e di Piero Jahier. La sua è una sorta di poesia-racconto caratterizzata da versi narrativi; i temi che spesso si ripetono, sono quelli relativi ad una contrapposizione tra città e campagna, dove una volta di più, la prima assume valori decisamente negativi, ampliando la sensazione di solitudine di chi decide o non può fare a meno di viverci. Ma, in generale, la raccolta parla di un'umanità sofferente per svariate ragioni, che cerca una via di fuga al proprio malessere senza mai riuscirvi. Nel secondo libro, sono riunite le poesie scartate dalla prima raccolta - risalenti quindi a quel periodo temporale - e le ultime: scritte poco prima del suicidio del poeta torinese, e pubblicate l'anno dopo la sua morte in una piccola raccolta. Qui si nota un drastico cambiamento di rotta da parte di Pavese che, tornato all'ordine, scrisse dei versicoli simili a quelli delle canzonette, la maggior parte hanno come argomento portante la relazione amorosa che ebbe con l'attrice americana Constance Dowling, e che si concluse poco prima della sua scomparsa. Se i critici ritennero questa estrema fase poetica del Nostro, inferiore o addirittura irrilevante rispetto alla precedente, non fu così per il pubblico, poiché generazioni e generazioni di liceali, nella seconda metà del XX secolo ebbero una sorta di adorazione nei confronti di queste poesie, che ancora oggi sono conosciutissime. Ecco infine l'elenco delle opere poetiche di Pavese, seguito da tre sue composizioni in versi. 





Opere poetiche


"Lavorare stanca", Ediz. di «Solaria», Firenze 1936.

"Lavorare stanca" (2° edizione aumentata), Einaudi, Torino 1943.

"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", Einaudi, Torino 1951.

"Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1962.

"8 poesie inedite", Scheiwiller, Milano 1964.




Testi


MATTINO


La finestra socchiusa contiene un volto

sopra il campo del mare. I capelli vaghi

accompagnano il tenero ritmo del mare.


Non ci sono ricordi su questo viso.

Solo un’ombra fuggevole, come di nube.

L’ombra è umida e dolce come la sabbia

di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.

Non ci sono ricordi. Solo un sussurro

che è la voce del mare fatta ricordo.


Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba

che s’imbeve di luce, rischiara il viso.

Ogni giorno è un miracolo senza tempo,

sotto il sole: una luce salsa l’impregna

e un sapore di frutto marino vivo.


Non esiste ricordo su questo viso.

Non esiste parola che lo contenga

o accomuni alle cose passate. Ieri,

dalla breve finestra è svanito come

svanirà tra un istante, senza tristezza

né parole umane, sul campo del mare.


(da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1993, p. 33)





LO STEDDAZZU


L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio

e le stelle vacillano. Un tepore di fiato

sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,

e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla

può accadere. Perfino la pipa tra i denti

pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquìo.

L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami

e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare

tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.


Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno

in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara

che l’inutilità. Pende stanca nel cielo

una stella verdognola, sorpresa dall’alba.

Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco

a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;

vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne

dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora

è spietata, per chi non aspetta più nulla.


Val la pena che il sole si levi dal mare

e la lunga giornata cominci? Domani

tornerà l’alba tiepida con la diafana luce

e sarà come ieri e mai nulla accadrà.

L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.

Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,

l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.


(da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1993, p. 119)






YOU, WIND OF MARCH


Sei la vita e la morte.

Sei venuta di marzo

sulla terra nuda –

il tuo brivido dura.

Sangue di primavera

- anemone o nube –

il tuo passo leggero

ha violato la terra.

Ricomincia il dolore.


Il tuo passo leggero

ha riaperto il dolore.

Era fredda la terra

sotto povero cielo,

era immobile e chiusa

in un torpido sogno,

come chi più non soffre.

Anche il gelo era dolce

dentro il cuore profondo.

Tra la vita e la morte

la speranza taceva.


Ora ha una voce e un sangue

ogni cosa che vive.

Ora la terra e il cielo

sono un brivido forte,

la speranza li torce,

li sconvolge il mattino,

li sommerge il tuo passo,

il tuo fiato d’aurora.

Sangue di primavera,

tutta la terra trema

di un antico tremore.


Hai riaperto il dolore.

Sei la vita e la morte.

Sopra la terra nuda

sei passata leggera

come rondine o nube,

e il torrente del cuore

si è ridestato e irrompe

e si specchia nel cielo

e rispecchia le cose –

e le cose, nel cielo e nel cuore

soffrono e si contorcono

nell’attesa di te.

È il mattino, è l’aurora,

sangue di primavera

tu hai violato la terra.


La speranza si torce,

e ti attende ti chiama.

Sei la vita e la morte.

Il tuo passo è leggero.


(da "Poesie del disamore", Einaudi, Torino 1977, pp. 78-79)


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