domenica 19 ottobre 2025

La poesia di Nino Oxilia

 Angelo Oxilia (Nino era il suo nome d'arte) nacque a Torino nel 1889 e morì sul Monte Tomba, durante un cruento combattimento nel corso della Prima Guerra Mondiale, nel novembre del 1917. Il primo sanguinosissimo conflitto bellico che sconvolse l'Europa, portandosi via un numero altissimo di giovani uomini, pose fine a una vita artistica decisamente geniale e in fase evolutiva, quale era quella di Oxilia: un talento poetico, ma anche e soprattutto teatrale e cinematografico, visto che fu l'autore, insieme a Sandro Camasio (1886-1913), della celebre commedia Addio giovinezza!; significative anche le sue partecipazioni, da sceneggiatore, aiuto regista e regista, in diverse pellicole del secondo decennio del XX secolo. Oxilia, dopo aver pubblicato dei versi su qualche rivista piemontese, debuttò ufficialmente nel mondo della poesia italiana a venti anni, con una raccolta che mostra le sue vicinanze al crepuscolarismo, e in particolare a quell'ambiente torinese di giovani scrittori che frequentarono le lezioni di storia della letteratura, tenute in un'aula dell'Università di Torino da Arturo Graf nei primi anni del Novecento. Purtroppo, a causa della sua precoce dipartita, Oxilia non fece in tempo a pubblicare un secondo volume di versi, uscito postumo e incompleto un anno dopo la sua scomparsa. Qui, si nota un drastico cambiamento, sia dello stile che delle tematiche; pur rimanendo fedele agli stilemi crepuscolari, Oxilia inserisce spunti decisamente moderni, che lo avvicinano al Futurismo; inoltre si fa sempre più evidente una propensione all'ironia e allo sbeffeggiamento, che probabilmente derivano da illustri poeti più o meno coetanei come Gozzano e Palazzeschi. Quello che si può affermare con pressoché assoluta certezza, è che Oxilia, dotato di un talento artistico non indifferente, se non fosse caduto durante la guerra, avrebbe proseguito la sua carriera teatrale, cinematografica e poetica, elaborando e sviluppando ancor di più i suoi lavori in chiave modernistica. Ma il suo vigoroso ed entusiasta percorso - e ciò rammarica alquanto - fu interrotto da una stupida, inutile e quanto mai sanguinosa guerra, simile a tutte quelle che la precedettero e la seguirono, e che causarono solamente lutti su lutti. Chiudo riportando i titoli delle opere poetiche di Oxilia, seguiti da tre sue composizioni in versi.


Sandro Camasio e Nino Oxilia



Opere poetiche


"Canti brevi", Spezia, Torino 1909.

"Gli orti", Alfieri & Lacroix, Milano 1918.

"Poesie", Guida, Napoli 1973.



Testi


O MIO CUORE...


O mio cuore, o mio cuore dai fremiti selvaggi

che a la voragine guati 


e ridi e soffri e ghigni del vuoto ove cadrai

con tutti gli altri cuori,


povero vecchio cuore, il pianto che ti viene

è quello della vita.


Ascolta ancora e sempre. Pria di cader nel buio 

discernerai le voci.


Voci lunghe di pianto e ululati di vinti,

risa livide e bieche.


Il fischio dell'egoismo, il tremito dell'ira,

le melodie dell'odio.


Orgoglio e gelosia, invidia, accidia, insidia,

forte tra sé cozzanti.


Il banchetto di Satana sugli avanzi di Dio:

dopo il prete becchino.


O mio cuore saluta quella forza che rugge,

inchinati e saluta!


Tu non sei degno ancora della città sovrana,

attendi o cuore e impara.


(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, p. 43)





IO PORTO IN ME UN'OASI DI LUCE


I

Noi andavamo. La notte in alto moriva, trafitta

da piccole stelle rare.

L’automobile chiusa parea scivolare

nella tenebra fitta.

Pareva scivolare come oasi di luce errabonda

e il riflesso svelava all’improvviso

un casolare, un viso,

apparsi, riassorbiti nella tenebra profonda.

Tu, rannicchiata tra i cuscini bianchi,

illimitavi nell’oasi di luce la testa bionda

e gli occhi stanchi.

Tuo marito nel frac

pareva più corpulento

e discorreva con viso contento

delle vergogne del Parlamento

e degli articoli di Rastignac.

Tu sorridevi... Fuori la notte senza vento.

Dentro la luce sui lisci legni e i velluti, tra

i cristalli e i cuscini: un’illusione palese

di immobile velocità...

Tu sorridevi... Il cane giapponese

ti mordeva la caviglia

sottile.

E tuo marito discorreva: «Oxilia,

creda. La folla è vile.

Occorre un gesto. Bisogna decidere.

Un gesto...».

                     Tu continuavi a sorridere.

E l’oasi di luce vagabonda

svelava all’improvviso alberi in fuga

nella tenebra profonda...

— «Sì, certo. Lottare, educare

le masse...». Una piccola ruga

sulla tua chiara fronte lineare

palpitò lieve

come va l’ombra d’un insetto alato

sulla neve...

— «È un dovere portarsi a deputato».

I piccoli denti del cane

strisciavano sulla seta lucida

della caviglia sottile.

L’oasi di luce rivelò lontane

chiome di pini, un arco, un campanile,

una casa sucida.

E cantammo le canzoni napoletane.



II

Come le suore in atto di preghiera 

premono tra palma e palma 

l'immagine della Vergine Maria, 

così porto nel mio cuore 

un'oasi di luce, un'armonia, 

di sorriso e di calma.

E più profonda è l'ombra, più riluce.

La porto nella pace e nella guerra,

tra gli esseri diversi, ove si vive

e si piange e si spera;

per le pianure della terra,

per i viottoli della chimera;

tra donne caste e femmine lascive;

tra le ortiche e tra i rosai;

ove il cuore s'infanga, ove s'inciela;

e l'oasi di luce mi rivela

cose che gli altri non han visto mai.

La porto nelle bolge 

dell'acciaio, tra i tentacoli

vibranti

della folla onesta o truce,

nell'impeto del tempo che travolge,

e più sono gli ostacoli

difficili a superarsi,

più godo a balzi ferini

divorare lo spazio,

perché sento illimitarsi

la serena oasi di luce

come un lago che sconfini

nel mio cuore di topazio.


(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, pp. 113-115)





MA NON LE DISSI NULLA...


Le nubi erano chine

sugli alberi violetti come l'onda

delle sue ciglia sopra la profonda

orbita azzurra. - Delle sue divine

forme la grazia acerba

modellava la veste

del colore che ha il collo del pavone.

Come una ninfa agreste

Ella sedea sull'erba.

Era il mattino: il tempo delle buone

frutta e dei baci e dei madrigaletti.

Ella taceva e ai lenti gesti stanchi

suonavano i suoi venti braccialetti

sui polsi bianchi.


Il suo cache-nez sbattendo i lembi gialli

m'inebriava gli occhi.

Ella tenea le mani sui ginocchi

uniti e sulle mani il volto pallido. -

...Ma non le dissi nulla.


Si chiudeva sugli alberi più basso

il gioco delle nubi e sui sereni

occhi le ciglia molli. Sulle reni

si drizzò, si levò, Ella. Ed il passo


dei suoi piccoli piedi ridea sulla

verde pianura in atto

leggiadro. Il cuor mi si confuse, a un tratto.

Ma non le dissi nulla.


Poi della veste un lembo,

mi sfiorò lieve e ne tremai. Con molto

garbo appoggiata a un tronco di betulla,

Ella prese a cantare

acconciando sul grembo

i fiori che aveva raccolto:

io mi sentii mancare.

Ma non le dissi nulla.


Io non le dissi nulla e non mi mossi

perché un nuovo pensiero mi teneva.

Ella correva

sotto i penduli rami e tra le foglie,

dietro i cespugli rossi.

Ed io pensavo. Ella sarà mia moglie.


E pur oggi, al ricordo

di quel giorno di calma,

io non corro alla casa di sua madre,

ma battendo palma a palma

tento il ritmo di un accordo

con rime leggiadre,


perché nel nostro amore musicale

tutta la nostra vita è travolta

senza parole, come qualche volta

io travolgo il mio palpito mortale

in una lirica sciolta.


(da "Poesie", Guida, Napoli 1973, pp. 143-144)


domenica 12 ottobre 2025

Le campane in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Ho sempre amato il suono delle campane, e i primi ricordi che ho in tal senso, naturalmente, sono legati al periodo infantile. Era piuttosto lontana dall'abitazione della mia famiglia l'unica chiesa presente nella frazione in cui vivevo e vivo: soltanto quando ero  nei pressi della casa dei nonni materni riuscivo a udire i lievi rintocchi delle campane, proveniente dalla Basilica di Sant'Aurea. Ma quante volte mi trovai proprio davanti a questo piccolo ma incantevole edificio religioso, e potei sentire ben forte quel suono caratteristico, che col tempo divenne familiare. Era il periodo in cui frequentavo la chiesa perché andavo regolarmente a messa, oppure perché ero un catechista. Da allora, credo, cominciai ad amare il suono delle campane, e negli anni seguenti - quelli della giovinezza e della maturità - ricordo di averlo ascoltato sempre con piacere, dovunque mi trovassi e per quanto fosse forte o fievole. È una sorta di balsamo per l'anima, e mi trasmette una dolcezza interiore imparagonabile, così come una sensazione di pace e di tranquillità che, forse, neppure una musica soave può eguagliare. Oggi non mi succede quasi più di ascoltare quel dolce suono, ammenoché mi trovi in qualche borgo sperduto dell'entroterra italiano. Penso che alle nuove generazioni sia del tutto estraneo il fascino mistico del suono delle campane. 



LE CAMPANE IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



CAMPANA D'ALBA

di Francesco Arcangeli (1915-1974)


Che sono addormentati i campanari

in buie stanze ancora, angeli in bianche

rustiche vesti scendono, su stanche

corde vanno tentando con amari


sorrisi un tremito.


                             Corre le pale,

sugli altari di Rimini, un respiro

d'ultima estate, in un piccolo giro

d'orizzonte è già nato maestrale.


               *


Risorge il canto della voce sola

e angelica, brandisce in cielo il nome

triste e fiero che porti. Non consola


più di sé il volto diafano, le chiome

non han più cenere soave. Sola

voce, e condanna dolcemente, un nome.


(da "Polvere del tempo", Vallecchi, Firenze 1943, p. 77) 





CAMPANE DI SERA

di Sandro Baganzani (1889-1950)


Andare mi piace

per questa distesa di orti

a macchie verdi-rosse

con gli alberi dei peschi morti

che si specchiano nelle fosse,

col campanile all'orizzonte che taglia

l'oro smunto della nuvolaglia

al tramonto.


Cavedagna tra due siepi

di spine aguzze del Signore

che sa appena d'umidore

di terra vangata,

dove il fiume giunge appena

con la sua girovaga cantilena.


Cosa mi conti?

Bene stassera si tace e si ascolta

già che i monti

s'incappucciano d'ombria distante.


Chi ci starà lassù,

si siede davanti la tavola

tutti insieme, senza pensieri.

C'è l'orto

c'è il fuoco,

c'è il pane,

anche c'è il cane che si chiama

Fido.


È la mia casa.

Pensa, la casa mia, la nostra casa

senza malinconia.

Si andrebbe su bel bello

al suono delle campane…

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Campane randagie per il cielo

che singhiozzano

a torrenti versando

il rombo insistente

da non so dove, dal buio,

sul mio capo forse sospese,

che ci fermiamo d'improvviso ad ascoltare

con un brivido per tutto il corpo,

come suonassero a morto,

Amore, Tristezza,

per noi

che non troviamo la via

d'arrivare lassù!


(da "Senzanome", Mondadori, Roma-Milano 1924, pp. 147-150)





C'È, A NOTTE, UNA CAMPANA

di Mario Bergomi (1913-?)


C'è, a notte, una campana

che più nessuno ascolta;

entro una tomba d'aria,

da secoli, sepolta.


Una campana enorme

e crepolata e ròsa,

che tutto il giorno dorme

nella sua torre ignota.


Poi, come in gran volume

d'acque oscillando sola,

gorgoglia il suo rintocco

notturno, entro la gola.


E le campane intorno

vibrano, come in onda

affioran morti cerchi,

se un morto peso affonda.


(da "Le liriche", Vallecchi, Firenze 1947, p. 27)





LE CAMPANE

di Ugo Betti (1892-1953)


Quando le città prendono fuoco, a sera,

Ognuno esce dal covo come una fiera.

Le donne, vestite di seta vermiglia,

Hanno un riso, battono le ciglia...

Ognuno ride, i denti hanno un bagliore... 

— O fratello, tra le tue braccia

Che porti, come una grave bisaccia?

— Porto il mio cuore!

E nel fuoco lo voglio buttare

Perché nel fuoco si deve consumare! —

Allora dall'ombra, cauto come un lupo,

Ognuno esce col suo cuore cupo.

Intanto le campane si mettono a suonare

Perché si fa buio, e s'ha da pregare.


Ma quando l'alba appare alle finestre,

Hanno un brivido, i lumi rossi delle feste!

Tra le cortine s'affaccia un biancore...

E ognuno si ritrova col suo cuore!

Ognuno si volta come ad una voce...

E si ritrova inchiodato alla croce!

Ognuno si volta, come toccato sulla spalla

E vede la faccia bianca dell'alba!

Intanto le campane si mettono a suonare

Perché si fa giorno, e s'ha da pregare.


(da "Il Re pensieroso", Treves, Milano 1922, p. 61)





AVE

di Dina Ferri (1908-1930)


Mormoravano lievi campane,

mormoravano: Ave! Lontane.

E passava nel cielo vermiglio

un sospiro, un odore di giglio.

E solinga cantò capinera;

cosa disse alla brezza di sera?


(da "Quaderno del nulla e altri testi", Le Lettere, Firenze 2020, p. 41)





LE CAMPANE

di Corrado Govoni (1884-1965)


Nel mio cuore, in un gran celeste,

da solitudini lontane

piangono piangono campane

l'addio di sconosciute feste.


E tutte le onde del dolore

e le vicine e le lontane

sotto quel pianto di campane,

cozzan lo scoglio del mio cuore.


E tutte e tutte le tristezze

dalle profondità lontane

salgono al pianto di campane

nel cuor con tutte le amarezze.


E il cuore sotto il peso affonda

mentre il pianto de le campane

ora vicine ora lontane

lo culla adagio come un'onda.


(da "Gli aborti", Taddei, Ferrara 1907, pp. 117-118)





LE CAMPANE

di Tilde Nardi (1923-?)


Le campane della domenica

colla bocca spalancata

sia pioggia sole o vento

di buon mattino

a mezzodì

vanno vengono su e giù

su e giù

come rondini a vespro.

Più non squillano: levati va'

nella casa del Signore

a cantarne le laudi

tu, creatura prediletta,

in purezza ed umiltà,

a render grazie per la casta suora

acqua, per l'aere nubilo e sereno

per la terra paziente

e lo scintillìo delle notti.

Per la gioia, il dolore e la morte

di': sia fatta la Tua volontà.

Ma invitano: levati porta

uomo, tra il freddo balenìo dei marmi

tra gli ori appannati

nell'agonia dei ceri

nella frusciante penombra porta

l'arido cuore.

Vieni a muovere le labbra

anche se i balbettii non hanno eco

in te, se smarriti a mezza via

la navata li inghiotte e li frantuma,

se il pensiero ti vola impaziente

a ciò che lasci alla soglia.

Uscirai santificato

per sette giorni interi

da mezz'ora di genuflessioni

e da una goccia d'acqua

sulla fronte e sulle dita.


(da "Colore del tempo", Ricciardi, Milano-Napoli MCMLV, pp. 8-9) 





SUONATE SUONATE CAMPANE

di Mario Novaro (1868-1944)


                                                 a Italo Scovazzi

Suonate suonate campane

dei giorni quando ero fanciullo.

Sì è questo il sole di allora

è questo delle apriche

fasce d'ulivi il solitario riso.

Concilïato è il cuore col mondo,

passata ogni tempesta.

Il cielo è così festivo e puro, il mare in pace

e l'anima s'invola.


(da "Murmuri ed echi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1994, p. 126)





NELLA GRANDE CAMPANA VERDE

di Giorgio Vigolo (1894-1983)


Nella grande campana verde

della torre abbandonata

un pavone ha fatto il nido

un bel pavone turchino.


Quando sono entrati i soldati

hanno bivaccato

intorno alla torre abbandonata.

Era sera. Hanno veduto

la grande campana verde

da cent'anni non suonava più.


Si sono appesi alla fune.

Allora è volato via, per aria

il bel pavone turchino

e non è tornato più


(da "Lirismi. Scritti poeti giovanili 1912-1921", a cura di Magda Vigilante, Edizioni della Cometa, Roma MMIII, p. 61)





LA CAMPANA

di Mario Vugliano (1883-1964)


Fievole or sì, or no, mi reca il vento

nell'ombra vespertina una lontana

soave e mesta voce di campana

singhiozzante in un tremito d'argento.


Dan, dan, dan... forse vien da un convento:

la suona un frate nella chiesa vana;

forse romba sui monti qualche frana,

nel mondo giacque qualche umano spento.


Dan, don, dan, don..., pietà, pietà, Signore,

per quei che cadde vinto nella guerra,

pace, pietà per quei che nasce o muore.


Tutto il divino bene che rinserra

soavemente l'urna del tuo cuore,

sparga, o Signore, sopra questa terra.


(da «La Riviera Ligure», ottobre 1904)


Carlos Schwabe, "Cloches du soir"
(da questa pagina Web)


martedì 7 ottobre 2025

Pascoli, "Poesie famigliari" (a cura di Cesare Garboli)




 Poesie famigliari è il titolo di un libro che comprende una trentina di poesie di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912), la maggior parte delle quali non sono tra le più famose; si può piuttosto affermare che ve ne siano molte in cu si fa, più o meno esplicitamente, riferimento alla famiglia e in particolare a quella del poeta. Curato dal critico letterario toscano Cesare Garboli (Viareggio 1928 - Roma 2004), il volume fu pubblicato per la prima volta presso la casa editrice Mondadori di Milano nel 1985; una nuova edizione, questa volta pubblicata dalla Einaudi di Torino, ebbe luce nel 1990, col titolo Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli. Non ho letto questo libro, ma mi è stato vivamente consigliato di farlo da chi lo ha gradito particolarmente; inoltre ho scoperto che vanta moltissimi estimatori per la sua eccezionalità, dovuta soprattutto alla parte saggistica scritta da Garboli, che occupa la stragrande maggioranza delle pagine del volume (totalmente sono 341 nella 1° edizione e 512 nella 2°); tant'è che, nella citata seconda edizione, il critico giustamente compare quale autore e non curatore. Parte fondamentale del libro è la Cronologia, dove il lettore può conoscere in maniera dettagliata e per alcuni aspetti inedita, la vita del poeta romagnolo, strettamente legata alle sorti dei suoi famigliari, e in particolare al disgregamento del "nido" che conseguì alla precoce scomparsa del padre di Pascoli. Ricordo brevemente tutti i componenti della famiglia Pascoli: da Ruggero (1815-1867) e Caterina Vincenzi Allocatelli (1828-1868) oltre a Giovanni - che fu il quartogenito - nacquero Margherita, Giacomo, Luigi, Raffaele, Giuseppe, Ida e Maria (altre due sorelle, Ida e Carolina, morirono in tenera età). Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli è stato ripubblicato dall'editore Quodlibet nel 2020. Chiudo riportando l'indice dell'edizione di cinque anni fa.



Emanuele Trevi, Ritratto di un uomo infelice. Il Pascoli di Garboli


Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli


Prefazione all’edizione tascabile

Prefazione alla seconda edizione

Al lettore

Nota al testo

Tavola delle abbreviature

Ringraziamento


Cronologia


da Poesie famigliari e d’altro genere

  Premessa

  Il pellegrino

  Ida!

  A Maria

  Massa

  Sera

  Ida, amaci!

  Maggio

  Ida

  L’amorosa giornata

  La gatta

  Questa notte, vegliando

  A Maria che l’accompagnò alla stazione

  All’Ida assente


Il ritorno a San Mauro

  Premessa

  Le rane

  La messa

  La tessitrice

  Casa mia

  Mia madre

  Commiato

  Giovannino

  Il bolide

  Tra San Mauro e Savignano


Diario autunnale

  Premessa

  I. «Che fanno là presso la muta altana»

  II. «Per il viale, neri lunghi stormi»

  III. «Dormii sopra la chiesa della torre»

  IV. «La luna par che adagio si avvicini»

  V. Il ponte sull’Aposa

  VI. Narcissi

  VII. Nell’orto

  VIII. «Io sento il suono dell’antica avena»

domenica 5 ottobre 2025

La Torre di Giacomina

 Senti, senti, Lucia, che cinguettio

fanno i passeri là sopra i cipressi!

Scelgonsi il ramo ove più lene il pio

sonno discenda ne' queti recessi.


E l'albero severo nelle fide

ombre de' rami tutti li raccoglie,

e con paterna gravità sorride

al brulichìo che gli agita le foglie.


Ma un dì lontano, insolito richiamo

da quella torre udirono gli uccelli:

calarono dall'aria e da ogni ramo

verso una voce che dicea: Fratelli!


Era venuto il Poverel d'Assisi

alla Moletta a trovar Giacomina;

sovra una pietra, sotto alla rovina

dell'alto Settisolio erano assisi.


– O frati uccelli per l'aria volanti,

che dolcemente sapete cantare,

sia laudato il Signor ne' vostri canti! –

E stavano gli uccelli ad ascoltare.



COMMENTO

La Torre di Giacomina è il titolo di una poesia che si trova alle pagine 90 e 91 del volume I Canti del Palatino. Nuove solitudini di Domenico Gnoli. Questa è l'ultima raccolta in versi del poeta romano (che di nuovo usa il vecchio e famigerato pseudonimo: Giulio Orsini) e fu pubblicata dall'editore Treves di Milano nel 1923, ovvero ben otto anni dopo la morte dello Gnoli (visse a Roma tra il 1838 ed il 1915). La poesia che ho trascritto fa parte del poemetto I Canti del Palatino, scritto molto probabilmente tra 1910 e il 1911. Riguardo alle delucidazioni riguardanti la torre del titolo, riporto la nota presente alla pagina 90 del detto libro, necessaria per comprendere almeno in parte a cosa si riferisce il poeta.


La torre della Moletta, un tempo Torre dell'Arco, a capo del Circo Massimo, come pure il prossimo Settizonio di Settimio Severo, appartenevano a Giacomina, vedova di Graziano de' Frangipani, nata Normanni, detta Giacomina del Settisolio. Era grande amica di San Francesco, si recò alla Porziuncola a salutarlo morente, ed è sepolta nella chiesa inferiore d'Assisi.


C'è da aggiungere che il nome della torre nasce dal fatto che, nel Medio Evo, accanto ad essa c'era anche un mulino che utilizzava l'acqua del Fosso di San Giovanni (detta Acqua Iulia). A partire dal 1145 la torre ebbe come proprietari i Frangipane. Nel periodo in cui visse San Francesco d'Assisi, l'edifico era abitato da Jacopa dei Normanni o Jacopa de' Settesoli, vedova di Graziano Frangipane (qui chiamata Giacomina), che nel 1221 entrò a far parte del Terzo Ordine francescano. Fu durante il 1213 che Francesco si recò a Roma per l'ultima volta, e, secondo una leggenda, in quell'occasione fu ospitato dalla futura Frate Jacopa, all'interno della sua torre. La foto qui sotto fa parte della raccolta La fiorita francescana, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo 1926 (p. 235).




domenica 28 settembre 2025

Riviste: "Flegrea"

 Flegrea è il titolo di una rivista letteraria napoletana fondata e diretta da Riccardo Forster nel 1899. L'intento del fondatore e dei suoi collaboratori (tra gli altri vi furono Giovanni Pascoli, Matilde Serao, Federico De Roberto, Ugo Ojetti, Diego Angeli e Luigi Capuana) era di poter gareggiare con altre, prestigiose riviste italiane nate proprio negli ultimi anni del XIX secolo. Nelle pagine di Flegrea non c'era solamente la letteratura: furono infatti pubblicati molti articoli inerenti all'archeologia, alla storiografia, alla filosofia e all'arte in generale. Purtroppo la rivista ebbe breve vita, visto che l'ultimo numero uscì appena tre anni dopo la sua nascita. Ecco, infine, tre poesie pubblicate in Flegrea.







LA VERITÀ

di Domenico Tumiati (1874-1943)


Il Romito guardandomi, sorrise.

Le mie parole gli giungeano, come

intorno a fermo scoglio vane spume.

Le cose della vita, e il fare e il dire,

fluttuavano innanzi a le sue fise

pupille, come piume

nel vento, o foglie secche per il fiume.


E un solo verbo usciva dal suo labbro

- Essere -: d'ogni cosa egli vedeva

la pura essenza. E l'albero su cui

posava il braccio, niun odore a lui

niuna voce moveva.


Mi chiesi allora: sogna forse e dorme

il suo spirito? o sono le parole

mie di un dormente?

Chi di noi che sul monte siamo, desto

è veramente?


Giù a valle tintinniva

invisibile un gregge,

invisibile, e pure a me vivace:

e l'albero fluiva,

imago trasparente,

de la corrente ne la fresca pace.


Tutte le cose assorte

erano, come in sogno, ne l'attesa

di una Vita sospesa.

E palpito di Vita era ogni morte.


(da «Flegrea», 5 marzo 1899)





NOTTURNO

di Adolfo De Bosis (1863-1924)


Cantano rosignoli entro laureti,

ne l'albor siderale. A cento a cento

effondon sotto i chiari occhi d'argento

nembi di note ai languidi roseti:

E il mondo dorme ne l'incantamento.


Palpitano le stelle armoniosa

mente (un divino brivido le assale?)

E d'amor canta per la musicale

notte un'Anima... Tu, misteriosa

Anima solitaria, universale!


Nubi d'effluvii navigano lente

come musiche sotto aperti cieli.

Ne l'alto angeli erranti, èsili veli,

ali di sogni passano repente?

Spiriti vanno, a ignote altezze, aneli,


Odi! Ogni luce, ogni alito, ogni fronda

mesce sua nota al numeroso coro.

A quando a quando un fremito sonoro

scuote la pace mistica e profonda...

Trema il Silenzio in suoi tintinni d'oro.


Notte, cui li astri ingemman di ghirlande.

l'alto zaffiro de l'olimpica urna!

a contener l'ebrietà notturna

altro vase si porge, assai più grande...

Il mio cuore mortale, o Taciturna!


Il mio cuore mortal tutti riceve

gl'in te diffusi spiriti lucenti.

E a l'orlo del mio cuor, prona, con lenti

sorsi, l'eterna sitibonda beve

Anima de le cose conviventi...


(da «Flegrea», 20 marzo 1899)





CHIESA ABBANDONATA

di Francesco Pastonchi (1874-1953)


Al primo entrar nell'ombra, la deserta

Chiesa mi parve quasi una prigione;

Vi soffiava la sizza del burrone

Per una finestretta semiaperta.


Guardai rabbrividendo e nell'incerta

Luce non vidi che una scialba icone

Sull'altare, fra due lampe d'ottone,

E un vaso per la floreale offerta.


Null'altro. Quanta desolata pace

Dentro e d'intorno! Non un grido ai venti

Rapido, non di suoni eco fugace.


Unica prece, o Vergine, le chiare

Infaticate voci dei torrenti

Udivi tu dallo spogliato altare.


San Gottardo.


(da «Flegrea», 20 ottobre 1900)

domenica 21 settembre 2025

Grido verso gioie fuggenti

 Ma tutti gli altri hanno i corpi, la voluttà della carne, 

l'intimità, l'eleganza, l'ebbrezza dolce che acceca:

io solo, io solo mi macero, in impossibili sogni!

Il cuore palpita a rompersi, verso l’ignoto piacere.

Settembre! Limpidi soli! Un vento dolce stormisce 

dentro le frasche ingiallite dei pergolati: sussurra...

Parla di gioie fuggenti con l’ora breve. Il tramonto

è un vasto incendio diffuso. I colli avvampano d’oro.

La valle in ombra discende incontro al piano: un leggero 

vapore aleggia sui boschi rossicci... Oh strette convulse 

di seni floridi, labbra premute in molli abbandoni! 

occhi lucenti sbarrati di voluttà sotto i cieli 

che si scolorano, brividi sotto la sera cadente: 

estreme gioie morenti nel riso estremo dell'anno!

Vivono. Io sogno. Quel bene mi fu negato: la sorte

mi fece a ebbrezze più grandi: ma non ne avea per me il mondo.

O sorte! ch'io non invidii, ch’io non rimpianga qui un giorno 

queste lor facili gioie, i loro miseri cuori!





COMMENTO

Grido verso gioie fuggenti è il titolo di una poesia di Enrico Thovez (Torino 1869 - ivi 1925), che si trova alla pagina 50 del volume Il poema dell'adolescenza, pubblicato dall'editore Streglio di Torino nel 1901. La medesima lirica si può leggere con qualche modifica alla punteggiatura nella 2° edizione della raccolta, questa volta edita dalla casa editrice Treves di Milano nel 1924, e nella ristampa di quest'ultima, proposta dalla Einaudi di Torino nel 1979 (da qui la foto sopra). L'uscita di questo libro, agli albori del XX secolo, rappresentò un vero e proprio caso in Italia; Thovez infatti, praticò un tipo di poesia che allora nel nostro paese praticamente non esisteva. Da una parte, lo scrittore torinese ebbe ben presente la lirica di Walt Whitman (1819-1892), con versi lunghi che tendono alla prosa; dall'altra, ebbe in considerazione la "poesia perenne": quella che comprende gli antichi greci e i più grandi poeti di tutti i tempi. Non vi era alcuna traccia, apparentemente, del modus operandi in voga durante quegli anni: nessuna somiglianza coi versi di Carducci, Pascoli e D'Annunzio, e neppure con quelli dei decadenti e dei simbolisti francesi. Volendo ora tornare a parlare specificatamente della poesia sopra riportata, risulta lampante che il poeta intende fare una netta distinzione tra sé e il resto dell'umanità; il "ma" del primo verso, sta ad indicare già una differenza sostanziale: gli altri posseggono solamente dei corpi, e si dedicano essenzialmente ai piaceri fisici; il poeta, oltre al corpo ovviamente, possiede un'anima che lo spinge verso altre aspirazioni, meno concrete ma certamente più nobili. Thovez scrisse questa poesia in settembre, probabilmente dopo una giornata festiva trascorsa in completo relax, magari passeggiando; in questo suo vagabondare, rimase fortemente attratto dai paesaggi quasi autunnali che lo circondavano, ma nello stesso tempo ebbe la percezione di una irrimediabile solitudine, soprattutto guardando e ascoltando gli esseri umani incontrati durante il suo errare (in genere coppie che amoreggiavano). Da questa visione nascono nel poeta una serie di meditazioni, riguardanti sé stesso e tutti gli altri: si rende conto che a lui fu negata quell'ebbrezza, quella voluttà della carne che è fondamentale per il resto dell'umanità; è conscio del fatto che il suo spirito (o più banalmente il suo cervello) lo spinge verso altri piaceri, che non sono fisici bensì intellettuali; egli si nutre di sogni e di fantasie, non riesce a vivere in maniera differente. Infine, si accorge che questo suo stato di isolamento dal resto dell'umanità gli procura una sofferenza, perché si sente del tutto escluso dalla vita reale e anche materiale. Si sforza perciò di allontanare da sé ogni sorta d'invidia per il suo prossimo, e di non avere alcun rimpianto per una vita evidentemente priva di gioie facili, poiché la sua diversità, e anche la sua sofferenza interiore, sono chiaro segno di superiorità intellettiva e spirituale. 


domenica 14 settembre 2025

Il rosso nella poesia italiana decadente e simbolista

 Al colore rosso nei versi dei poeti italiani decadenti e simbolisti ho dedicato un post a se stante per il semplice fatto che, tra tutti i colori, è, insieme al bianco, uno dei più ricorrenti. Spesso simboleggia vizi e sentimenti negativi, come ad esempio ben dimostrano le due poesie - presenti nell’elenco sottostante - di Corrado Govoni: nella prima, il poeta emiliano enumera e associa al color rosso una serie di elementi che hanno a che vedere con la forza, il vizio e la vita strabordante; nella seconda descrive gli inquietanti oggetti presenti in una camera dai muri tinti di rosso, ponendoli in contrasto con una figura femminile “bianca”. E inquietanti nonché spaventosi sono i pensieri di chi osserva le acque rosse di mari e laghi, così stranamente tinti nei versi rispettivamente di Palazzeschi e Mastri. Lucini parla invece di un “regno rosso” dove si alternano immagini di bimbi, di donne e di guerrieri, il tutto in un’atmosfera decisamente inquietante. Casalinuovo invece pone in evidenza una “macchia rossa” sul pavimento di una piccola chiesa, situata proprio ai piedi di un grande crocifisso; tale macchia è indelebile, e più si tenta di farla sparire, più si ravviva; sta lì da quando un empio ebbe il cuore lacerato esattamente in quel preciso punto: “e resta sul sacrato quale scempio / della fede di Cristo e della vita”.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Giuseppe Casalinuovo: "La macchia rossa" in "La lampada del poeta" (1929).

Girolamo Comi: "Il petalo rosso" in "Lampadario" (1912).

Sergio Corazzini: "Il cuore e la pioggia" in "L'amaro calice" (1905).

Corrado Govoni "Il rosso" in "Gli aborti" (1907).

Corrado Govoni: "Camera rossa" in "Poesie elettriche" (1911).

Gian Pietro Lucini: "Il regno rosso" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).

Tito Marrone: "Sonetto roggio" in "Cesellature" (1899).

Pietro Mastri: "Il lago rosso" in "L'arcobaleno" (1900)

Aldo Palazzeschi: "Mar Rosso" e "Il Frate Rosso" in "Poemi" (1909).

Diego Valeri: "Croda rossa" in "Ariele" (1924).

Remigio Zena: "Ballata d'un prete scagnozzo" in "Le Pellegrine" (1894).

 

 

Testi

 

IL ROSSO

di Corrado Govoni

 

Epifania eroica. Baldoria

di carne di vestali ignude: vini

di rose dionisiache in festini

licenziosi. Tamburi di vittoria.

 

Trombe d'Apocalissi. Fiammea gloria

di gran bandiere. Tragici rubini

d'else di stocchi. Note di cantini

Incendio d'oro. Indice della storia.

 

Spada dell'angelo castigatore.

Aurora. Forza. Sangue di martirio.

Vita. Pollice verso dell'amore.

 

Inni di gioia. Inebrianti incensi.

Riso. Vulcani. Roghi di delirio.

Lussuria, rossa autodafé dei sensi.

 

(da "Gli aborti", Taddei, Ferrara 1907, p. 89)

 

 

 

 

MAR ROSSO

di Aldo Palazzeschi

 

Non è un ampissimo mare,

si vedono bene i confini e i contorni,

la forma che à, à forma di cuore.

Son l'acque d'un rosso assai cupo,

ma vivo, fremente.

Non à questo mare né onde né flutti,

ma à nell'ammasso uniforme

dei palpiti forti, ineguali,

s'abbassa e s'innalza,

s'espande o comprime.

Padrone del mare,

è un giovine Principe,

biondo, bellissimo.

In piedi alla prua d'una lancia

egli vive girando il suo mare.

Padrone assoluto, egli gira

traversa percorre ineguale

in tutti i possibili sensi.

La punta acutissima

di quella terribile lancia

trafigge, trapassa, trafora

l'ammasso rossastro dell'acque,

ne balzano alti gli spruzzi,

in gorghi ed in fiotti

s'innalzano l'acque al passare

di quella terribile lancia.

Il Principe, in piedi, impassibile,

neanche un istante

rallenta il suo corso,

neppure uno spruzzo lo bagna,

la veste sua bianca

non porta neppure un puntino

del rosso dell'acque.

Padrone assoluto, egli gira

traversa percorre ineguale

in tutti i possibili sensi il suo mare,

diritto alla prua della lancia

terribile, biondo, bellissimo.

Un gemito, un fremito,

che sembra l'affanno

d'eterno ed uguale dolore,

vien su da quel mare

che à forma di cuore.

 

(da "Poemi", Stab. Tip. Aldino, Firenze 1909, pp. 29-30)


Georges Lacombe, "La forêt au sol rouge"
(da questa pagina Web)