domenica 13 aprile 2025

Riviste: la "Fiera Letteraria"

 La Fiera letteraria è il titolo di una rivista settimanale di lettere, scienze ed arti, che nacque a Milano nel 1925 per iniziativa di Umberto Fracchia. Dal 1929, la sede della rivista fu trasferita a Roma e cambiò anche il titolo in Italia letteraria; dopo sette anni però, cessò le pubblicazioni. Nel 1946, la rivista rinacque col titolo originario, pubblicando per lo più saggi, prose e poesie; nel 1968 cessò di nuovo le pubblicazioni, per riprenderle nel 1971, fino al 1977: anno in cui la Fiera letteraria concluse la sua esistenza. Ritengo che il periodo più significativo della rivista romana - almeno dal versante della poesia italiana - sia identificabile in quello che inizia con l'immediato secondo dopoguerra e termina con l'anno della cosiddetta "contestazione giovanile". In questo ventennio, i comitati che si alternarono alla direzione della Fiera letteraria, ebbero il merito di captare parecchi talenti poetici emergenti, e di dargli ampio spazio sulle pagine della rivista. Concludo trascrivendo tre poesie pubblicate proprio nel periodo sopra indicato.


Prima pagina della rivista: "La Fiera Letteraria", anno 1, numero 1, 13 dicembre 1925
(da questa pagina web)



GLI UBRIACHI

di Luca Canali (1925-2014)


Questa sera cantiamo a squarciagola.

Mi ricordo una limpida giornata

che silenziosi andammo lungo il mare:

come altro sangue in tutti noi

gridava il sole nelle nostre vene.

Ma a quest'ora che serba del giorno

una fede violenta e sanguigna

vanno a frotte animali assetati

scoppiano i semi gonfi nella terra.

Ci sentiamo viandanti disperati

con ognuno una strada.

Come un'amara linfa ci separa

è la sorte trovata questa sera

con la feccia nel fondo d'un 

                            bicchiere.


(da «Fiera Letteraria», Anno 1, N. 36, 12 dicembre 1946)





APPARIZIONE

di Fabio Carpi (1925-2018)


Da un inviolato mondo

ella m'apparve, e tenera le braccia

e gli occhi spalancava: io la vedevo

piangere nel tramonto.


Specchio alla sua tristezza

mi furono le tenebre, l'inganno

che una più lunga giornata trattiene.

Ansiosamente udivo

rifrangersi nell'acqua

di un vicino ruscello la tua voce,

e le tue labbra premere il mio cuore

come un dolce fiato di sole.


Poi di nuovo riapparvero sui monti

nuvole gigantesche, si specchiava

la mia pupilla avida di luce

tra le fronde degli alberi, riverso

il capo dondolava come un fiore

che si chiude alla notte.

                   Accolsi il nulla,

chiusi me stesso al giorno, alla speranza.


(da «Fiera Letteraria», Anno II, n. 28, luglio 1947)





NOTTE E UN NOME

di Francesco Tentori (1924-1995)


                                                                                per Annamaria

Né la luna né l'orlo del fanale

né la musica ormai ridotta a un'ombra

bastano a consolare queste case

oppresse dalla notte, dove i lumi

accendono un nostalgico scenario

che alterna pena e rottami di gioia.

Tu ed io potremmo ancora impietosirci

per questo dramma di calce e di vetro,

se poi la noia non tagliasse i nodi

abbassando il sipario sulla piazza.

Vedi, un sorriso ci rende crudeli:

siamo vicini e non possiamo piangere,

anche se il mondo intorno a noi è un lamento.

Forse sapremo ritrovare il filo

della fuga da questo labirinto

di parole e di volti, oppure il cielo

precipitando un angelo atterrito

ci illuderà con un falso miracolo.


(da «Fiera Letteraria», Anno V, n. 11, 12 marzo 1950)


domenica 6 aprile 2025

I ritorni nella poesia italiana decadente e simbolista

 

Si percepisce, in tanti “ritorni” presenti nei versi dei poeti italiani decadenti e simbolisti, qualcosa simile ad una sconfitta: è un mesto viaggio verso il luogo da cui si era partiti entusiasti e speranzosi, che sta a significare qualcosa di estremamente negativo accaduto durante l’assenza. Tali ritorni, a volte sono consolatori, poiché si ritrovano le persone e le cose lasciate (affetti, amori, amicizie e quant’altro); altre volte risultano dolorosi e sconfortanti, poiché si constata la perdita totale di ciò che ancora si aveva al momento della partenza (in quest'ultima categoria rientrano le poesie nell’elenco sottostante di Brigante Colonna, Chiaves e Corazzini). In casi più rari, si parla di un “ritorno alla vita”, e protagonisti, ovviamente, sono gli scomparsi, i quali vivono una sorta di resurrezione (emblematica, a tal proposito, è la poesia di Dalmatico), che in sostanza è un premio per la loro ottima condotta nella vita precedente, o per le circostanze assai sfortunate che li videro soccombere ingiustamente e prematuramente. In altri casi ancora, i ritorni sono solamente paventati (si leggano le poesie di D’Annunzio, Donati Pétteni e Onofri), e fungono da auspicio, per tirare su il morale di chi avverte una forte nostalgia ed un tangibile rimpianto per ciò che ha lasciato partendo. C’è poi da aggiungere che, in diversi casi, i ritorni avvengono durante la sera: fase declinante della giornata e, simbolicamente, della vita.

 

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Il ritorno nella sera" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Vittoria Aganoor: "Ritorno" in "Leggenda eterna" (1900).

Sandro Baganzani: "Ritorni" in "Senzanome" (1924).

Gustavo Brigante-Colonna: "Dal tedio che mi opprime" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).

Enrico Cavacchioli: "Il ritorno" in "L'Incubo Velato" (1906).

Carlo Chiaves: "Pellegrinaggio invernale" in "Sogno e ironia" (1910).

Sergio Corazzini: "Il ritorno" in «Marforio», novembre 1904.

Italo Dalmatico: "Risorgeranno da le tombe i morti?" in "Juvenilia" (1903).

Gabriele D'Annunzio: "Consolazione" in "Poema paradisiaco" (1893).

Giuliano Donati Pétteni: "Ritorno" in "Intimità" (1926).

Aldo Fumagalli: "Il ritorno" in "Arcate" (1913).

Cosimo Giorgieri Contri: "In un paesetto obliato" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Virgilio La Scola: "Ritorno dai campi" in "La placida fonte" (1907).

Tito Marrone: "La clessidra" in «La nuova rivista», gennaio 1907.

Ettore Moschino: "Risveglio" in "I Lauri" (1908).

Arturo Onofri: "Vuoi, dunque, ch'io ritorni? Oh sì, ritornerò" in "Canti delle osai" (1909).

Angiolo Orvieto: "Ritorno" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Giovanni Pascoli: "Notte d'inverno" in "Canti di Castelvecchio" (1903).

Diego Valeri: "Il figliol prodigo" in "Ariele" (1924).

 

 

 

Testi

 

CONSOLAZIONE

di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

 

Non pianger più. Torna il diletto figlio

a la tua casa. È stanco di mentire.

Vieni, usciamo. Tempo è di rifiorire.

Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

 

Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato

serba ancóra per noi qualche sentiero.

Ti dirò come sia dolce il mistero

che vela certe cose del passato.

 

Ancóra qualche rosa è ne' rosai,

ancóra qualche timida erba odora.

Ne l'abbandono il caro luogo ancóra

sorriderà, se tu sorriderai.

 

Ti dirò come sia dolce il sorriso

di certe cose che l'oblìo afflisse.

Che proveresti tu se ti fiorisse

la terra sotto i piedi, all'improvviso?

 

Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.

Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento

sol di settembre, e ancor non vedo argento

su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.

 

Perché ti neghi con lo sguardo stanco?

La madre fa quel che il buon figlio vuole.

Bisogna che tu prenda un po' di sole,

un po' di sole su quel viso bianco.

 

Bisogna che tu sia forte; bisogna

che tu non pensi a le cattive cose...

Se noi andiamo verso quelle orse,

io parlo piano, l'anima tua sogna.

 

Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,

tutto sarà come al tempo lontano.

Io metterò ne la tua pura mano

tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.

 

Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.

In una vita semplice e profonda

io rivivrò. La lieve ostia che monda

io la riceverò da le tue dita.

 

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.

lo parlo. Di': l'anima tua m'intende?

Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende

quasi il fantasma d'un april defunto.

 

Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)

ha ne l'odore suo, nel suo pallore,

non so, quasi l'odore ed il pallore

di qualche primavera dissepolta.

 

Sogniamo, poi ch'è tempo di sognare.

Sorridiamo. E la nostra primavera,

questa. A casa, più tardi, verso sera,

vo' riaprire il cembalo e sonare.

 

Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,

allora, qualche corda; qualche corda

ancóra manca. E l'ebano ricorda

le lunghe dita ceree de l'ava.

 

Mentre che fra le tende scolorate

vagherà qualche odore delicato,

(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato

debole di viole un po' passate,

 

sonerò qualche vecchia aria di danza,

assai vecchia, assai nobile, anche un poco

triste; e il suon sarà velato, fioco,

quasi venisse da quell'altra stanza.

 

Poi per te sola io vo' comporre un canto

che ti raccolga come in una cuna,

sopra un antico metro, ma con una

grazia che sia vaga e negletta alquanto.

 

Tutto sarà come al tempo lontano.

L'anima sarà semplice com'era;

e a te verrà, quando vorrai, leggera

come vien l'acqua al cavo de la mano.

 

(da "Poema paradisiaco", Mondadori, Milano 1995, pp. 72-74)

 

 

 

 

IL FIGLIOL PRODIGO

di Diego Valeri (1887-1976)

 

Cade il giorno, ed io cammino

col mio povero destino

su la strada del ritorno.

 

Cuore amaro del figlio errante

che ritorna alla sua terra,

che ritorna alla sua vita,

da tanta inutile guerra,

da tanta speranza finita!

Cuore greve di tanto dolore

non mai detto, di lacrime tante

non mai piante!

 

Ecco, e mi vengono a incontrare

nel barlume crepuscolare

i grandi platani che portano ancora

- come allora -

tra gli alti rami colore di tortora

esili trame d'oro e di porpora.

(Dolce l'autunno della terra natia;

ma tanta dolcezza, o amaro mio cuore,

non t'è, non t'è più poesia!)

 

Cammino e cammino

nel caligo cenerino.

Ombre nere di gelsi spogliati

e tremor grigio di salici,

lungo pallidi fossi allucinati

dallo spento opaco biancore

del cielo che muore.

(A ogni passo rivedo e ritrovo

un po' dell'antico me stesso.

Ogni cosa rivedo e ritrovo

come allora così adesso;

ma non più nell'anima mia

l'antica poesia!)

 

Monto la rampa del ponte,

la strada vasta che sale,

luminosa su l'oscuro orizzonte,

a sboccare

nell'immenso vuoto del cielo.

E d'in alto mi volgo a guardare,

a cercare dove dove sia

la mia antica poesia.

 

Oh l'ardente infinita agonia

del tramonto - rame oro sangue -

sopra gli alti argini nudi,

incantati, sterminati,

per tant'anni camminati

dal mio cuore in nostalgia!

 

Nell'acqua del fiume

che splende che langue

d'un intimo ultimo lume

- rame oro sangue -,

rivedo i poveri occhi obliati

della morta giovinezza mia...

Ma no, neppur questo,

neppur questo m'è più poesia!

 

Discendo, proseguo il cammino,

senza più sguardo ormai né pensiero,

stracco affannato pellegrino che va

sol per andare, e la sua meta non sa.

 

Adesso la notte m'è intorno,

profondo respiro di mistero.

Io più non vedo, io più non ricordo

dove, a che cosa, ritorno.

 

Ma d'improvviso, dall'oscurità,

una dolce campana

mi viene incontro, mi chiama

con un lungo triste latrato

di vecchio cane che non m'ha dimenticato,

con un triste lungo saluto

d'antico amore che m'ha riconosciuto.

Ed ecco, m'appare, nell'incerto bagliore

di quattro fanali rossastri,

il muro bianco del cimitero.

Dietro il muro, nel tenebrore,

riconosco la chiesa e i cipressi

circonfusi d'un palpito d'astri...

La mia meta! la mia terra!

la terra che risponde al mio passo esitante

coi battiti lenti e sommessi

del cuore di mia madre morta;

l'aria che serba e mi porta

la carezza delle mani sante

di mia madre sepolta...

 

O città che raggi laggiù

nella nebbia il tuo amore lucente,

che vuoi da me? Certamente

le tue vie le tue case la tua gente

non mi conoscono più.

Non per te son io ritornato,

città di passato!

 

Ma qui riconosco la mia vita,

qui ritrovo la mia poesia;

qui qui dovevo tornare

da tanta inutile guerra,

da tanta speranza fallita:

a questo recinto di terra

dove sento sboccare

la lunga mia nostalgia,

dov'è tutto quanto posso salvare,

ancora, dell'anima mia.

 

(da "Ariele", Mondadori, Milano-Roma 1924, pp. 129-134)

 

 

Johann Georg Meyer, "Returning Home"
(da questa pagina web)

 

 

 

 

domenica 30 marzo 2025

Antologie: "Dopo la lirica"

 

Dopo la lirica (sottotitolo: Poeti italiani 1960-2000), è il titolo di un’antologia poetica curata da Enrico Testa e pubblicata dall’editore Einaudi di Torino nel 2005. In questo volume di 436 pagine, vengono selezionati versi di 43 poeti in lingua italiana o dialettale (ci sono anche poesie in latino). Si comincia con Vittorio Sereni e si finisce con Antonella Anedda. Per i poeti più anziani, e soprattutto per coloro che nacquero tra il secondo ed il terzo decennio del Novecento, non vengono considerate le raccolte giovanili; il motivo è spiegato dal curatore nell’Introduzione all’antologia, che occupa le prime 33 pagine del libro; anche nello scritto che è presente sul piatto posteriore dello stesso (che riporto di seguito), seppure brevemente, viene chiarito il perché di codeste esclusioni:

 

La vera frattura nella poesia italiana del Novecento avviene negli anni Sessanta. Per questo Enrico Testa fa partire la sua antologia con Gli strumenti umani di Sereni e il Congedo del viaggiatore cerimonioso si Caproni, entrambi del 1965. Da allora non sarà più come prima. Pur nella grande varietà delle esperienze individuali che arrivano quasi fino ai giorni nostri, ci sono alcuni punti di rilievo che tengono insieme un’intera stagione poetica. E sono l’ingresso e la stabilizzazione di un linguaggio fortemente parlato; la perdita di centralità del soggetto poetante; il rapporto con le grandi questioni del pensiero, e in particolare con il nichilismo nelle sue varie espressioni; la presenza di motivi e strutture antropologiche: scomparsi che ritornano, visioni arcaiche dell’essere, animismo della natura, oggetti e realtà che guardano e interrogano.

Quella di Enrico Testa è un’antologia basata su una forte interpretazione storico-critica, che disegna un nuovo panorama degli ultimi cinquant’anni di poesia italiana.


 Ovviamente, per motivi opposti, ad essere penalizzati sono anche i poeti delle generazioni più giovani, dei quali vengono considerate soltanto le prime raccolte. Ma, a parte questi discorsi, per forza di cose nell’antologia si notano delle assenze anche importanti. Infatti qui non figurano i versi di poeti d’indubbio talento e portatori di innovazioni fondamentali che rientrano pienamente nel periodo temporale che viene analizzato (potrei citare i soli nomi di Bartolo Cattafi e Claudio Damiani); ciò nonostante, il lavoro del curatore va senz’altro elogiato, poiché si presenta come un’accurata opera antologica, molto utile a chi volesse approfondire lo studio della migliore poesia italiana del secondo Novecento. Ottime sono anche le presentazioni dei poeti che anticipano la selezione dei loro versi, e la Nota bibliografica posta alla conclusione del volume, che permette, a chi lo voglia, di conoscere e reperire gran parte delle opere in versi dei poeti ivi compresi. A proposito di quest’ultimi, chiudo il post con l’elenco dei loro nomi.

 

 


DOPO LA LIRICA

POETI ITALIANI 1960-2000

 

Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Mario Luzi, Attilio Bertolucci, Franco Fortini, Andrea Zanzotto, Paolo Volponi, Luciano Erba, Giorgio Orelli, Edoardo Cacciatore, Giovanni Giudici, Angelo Maria Ripellino, Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, Amelia Rosselli, Giovanni Raboni, Franco Loi, Raffaello Baldini, Dario Bellezza, Maurizio Cucchi, Cesare Viviani, Giuseppe Conte, Gianfranco Ciabatti, Patrizia Cavalli, Milo De Angelis, Roberto Carifi, Alda Merini, Cosimo Ortesta, Franco Scataglini, Gianni D’Elia, Patrizia Valduga, Tiziano Rossi, Valerio Magrelli, Ferruccio Benzoni, Michele Ranchetti, Eugenio De Signoribus, Michele Sovente, Gabriele Frasca, Fabio Pusterla, Antonella Anedda.

domenica 23 marzo 2025

Poeti dimenticati: Alessandro Varaldo

 Nacque a Ventimiglia nel 1876 e morì a Roma nel 1953. Giornalista, critico, commediografo e poeta, fu collaboratore del Corriere Mercantile, della Gazzetta del Popolo e del Messaggero. In gioventù frequentò un cenacolo genovese di poeti come Alessandro Giribaldi e Mario Malfettani, che avevano quale obiettivo, trasportare in Italia la corrente simbolista nata alcuni anni prima in Francia; da tali esperimenti il Varaldo si allontanò ben presto, passando ad una lirica più meditativa e romantica. Intorno ai trent'anni abbandonò la poesia per dedicarsi con discreto successo di pubblico, alla produzione di testi teatrali e romanzeschi.


Alessandro Varaldo



Opere poetiche


"Il 1° libro dei trittici" (con Alessandro Giribaldi e Mario Malfettani), Tip. Gibelli, Bordighera, 1897.

"Marine liguri", Aliprandi, Milano 1898.

"Romanze e notturni", Libreria Editrice Nazionale, Milano 1904.



Presenze in antologie


"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981, pp. 105-110.

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, volume secondo, Scheiwiller, Milano 1971, p. 127 e 277. 

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, volume terzo, Scheiwiller, Milano 1972, p. 286, 289, 292 e 295. 



Testi


LA STATUA CORONATA DI ROSE


Ride forse la strada arida al sole

nel giugno, bianca sotto il cielo bianco?

Un pellegrino curva il capo stanco

sotto l'arsura ed à buone parole.


Una Statua sorge fra le aiole

fiorite, bianca sotto il cielo bianco,

e tutto intorno si dilegua un branco

di pecore in pastura umili al sole.


Una statua splendida di dea

da le perfette forme virginali

in un atto pudico: una ghirlanda


di Rose è al capo de la Rosa théa.

Il pellegrino sosta e par su l'ali

secure i metri in alto gesto spanda.


(da "Il 1° libro dei trittici", Tip. Gibelli, Bordighera 1897, p. 37)





NON PI RICORDI. TUTTA LA RIVIERA


                                                                             Ore 18.

Non più ricordi. Tutta la riviera

fantastica ne l'ombra fugge via

col crepuscolo pallido. Una pia

campana suona ne la dolce sera.


È forse il canto de la capinera

questo? O non forse su la nostalgia

scende con questa piana melodia

la pace adesso che col giorno annera


ne l'aere tutta la memoria, tutta

la mia triste memoria? Oh forse vive

qualche parte de l'anima distrutta,


qualche brandello del muto cor ferito

a morte, qualche cosa che sorvive

a la morte e si slancia a l'infinito?


(da "Marine liguri", Aliprandi, Milano 1898, p. 57)





ROMANZA


È un giorno velato che aduna

la nebbia grigiastra sui monti.

Dolci albe rosate, sanguigni tramonti

sul mar di Liguria, serate di luna!


Ma triste ma pallida sei

memoria del mare sognato

dinnanzi al fulgore del giorno velato

che splende sorride sfavilla per Lei.


(da "Romanze e notturni", Libreria Editrice Nazionale, Milano 1904, p. 38)

domenica 16 marzo 2025

"Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli

 

Sfogliando i Canti di Castelvecchio, ovvero una delle raccolte poetiche più famose e più riuscite di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912), è facile scoprire che queste pagine contengono un numero non indifferente di poesie che studiammo (e forse imparammo a memoria) sui banchi di scuola. Insieme a Myricae, ovvero alla raccolta d’esordio del poeta emiliano, i Canti rappresentano il punto più alto della lirica pascoliana. Non tutti, in verità, la pensano in tal modo: critici famosi del passato e del presente, ritengono che questa opera sia da considerare un sottoprodotto di Myricae. Ci sono, però, altrettanti critici e, penso, un grandissimo numero di lettori, che reputano i Canti, se non la migliore raccolta del Pascoli, allo stesso livello delle Myricae. Uno di questi è Mario Pazzaglia (1925-2017), curatore di una vecchia antologia scolastica di cui ho parlato in un recente post, dalla quale ho estratto un frammento, che a mio avviso ben spiega il contenuto di questo libro e, sinteticamente, coglie gli aspetti più significativi della migliore poesia di Giovanni Pascoli.

 

La «situazione» tipica della poesia pascoliana è quella del poeta solitario, immerse nella campagna vasta e silenziosa e inteso non a confessare il proprio io, ma ad esprimere i palpiti arcani, le rivelazioni delle cose e l’ombra che le prolunga in una distanza indefinita, le illuminazioni che gli giungono dall’ignoto; oppure quella del poeta sperduto nell’immensità degli spazi cosmici, con un senso sgomento di vertigine davanti all’essenza indecifrabile dell’universo. Il paesaggio, comunque, è sempre il protagonista della lirica pascoliana. L’anima del poeta sembra calata nelle cose, intenta a coglierne il sorriso e la lacrima, la vita arcana, anche se, in realtà, è essa a proiettare nel paesaggio la sua perplessità smarrita, il senso d’una continua presenza della morte nella vita, il suo sentimento dolente ma anche la sua ansia dell’ignoto.¹

 

Canti di Castelvecchio uscì, per la prima volta, nel 1903, presso l’editore Zanichelli di Bologna; seguirono altre edizioni accresciute, fino alla settima ed ultima, curata dalla sorella del poeta: Maria Pascoli, che fu pubblicata postuma, nel 1914. Queste notizie le ho attinte dall’edizione critica da me posseduta, la cui quarta edizione uscì nel 1993 presso la Rizzoli di Milano; qui, nell’ottima introduzione di Giuseppe Nava, è possibile scoprire quali furono i poeti che Pascoli tenne maggiormente presenti per la genesi della sua opera poetica (Omero, Leopardi, Manzoni, Longfellow, Hugo, Shelley, Poe e altri ancora). Da questo volume ho trascritto tre fra le poesie più conosciute e belle dei Canti, con cui chiudo questo post.

 

 

NOTE

1)     Da “Antologia della letteratura italiana”, Zanichelli, Bologna, p. 771.

 

 


 

 

NOTTE D’INVERNO

 

Il Tempo chiamò dalla torre

lontana... Che strepito! E` un treno

là, se non è il fiume che corre.

 

O notte! Né prima io l'udiva,

lo strepito rapido, il pieno

fragore di treno che arriva;

 

sì, quando la voce straniera,

di bronzo, me chiese; sì, quando

mi venne a trovare ov'io era,

   squillando squillando

   nell'oscurità.

 

Il treno s'appressa... Già sento

la querula tromba che geme,

là, se non è l'urlo del vento.

 

E il vento rintrona rimbomba,

rimbomba rintrona, ed insieme

risuona una querula tromba.

 

E un'altra, ed un'altra. - Non essa

m'annunzia che giunge? - io domando.

- Quest'altra! - Ed il treno s'appressa

   tremando tremando

   nell'oscurità.

 

Sei tu che ritorni. Tra poco

ritorni, tu, piccola dama,

sul mostro dagli occhi di fuoco.

 

Hai freddo? paura? C'è un tetto,

c'è un cuore, c'è il cuore che t'ama

qui! Riameremo. T'aspetto.

 

Già il treno rallenta, trabalza,

sta... Mia giovinezza, t'attendo!

Già l'ultimo squillo s'inalza

   gemendo gemendo

   nell'oscurità...

  

È il Tempo lassù dalla torre

mi grida ch'è giorno. Risento

la tromba e la romba che corre.

 

Il giorno è coperto di brume.

Quel flebile suono è del vento,

quel labile tuono è del fiume.

 

il fiume ed è il vento, so bene,

che vengono vengono, intendo,

così come all'anima viene,

   piangendo piangendo,

   ciò che se ne va.

 

(da “Canti di Castelvecchio”, Zanichelli, Bologna 1993, pp. 109-111)

 

 

 

 

LA MIA SERA

 

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c'è un breve gre gre di ranelle.

Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

        Che pace, la sera!

 

Si devono aprire le stelle

nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell'aspra bufera,

non resta che un dolce singulto

        nell'umida sera.

 

È, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

cirri di porpora e d'oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

        nell'ultima sera.

 

Che voli di rondini intorno!

che gridi nell'aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l'ebbero intera.

Né io... e che voli, che gridi,

        mia limpida sera!

 

Don... Don... E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra...

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch'io torni com'era...

sentivo mia madre... poi nulla...

        sul far della sera.

 

(da "Canti di Castelvecchio", Rizzoli, Milano 1993, pp. 287-289)

 

 

 

 

LE RANE

 

Ho visto inondata di rosso

la terra dal fior di trifoglio;

ho visto nel soffice fosso

le siepi di pruno in rigoglio;

e i pioppi a mezz'aria man mano

distendere un penero verde

lunghesso la via che si perde

lontano.

 

Qual è questa via senza fine

che all'alba è sì tremula d'ali?

chi chiamano le canapine

coi lunghi lor gemiti uguali?

Tra i rami giallicci del moro

chi squilla il suo tinnulo invito?

chi svolge dal cielo i gomitoli

d'oro?

 

Io sento gracchiare le rane

dai borri dell'acque piovane

nell'umida serenità.

E fanno nel lume sereno

lo strepere nero d'un treno

che va...

 

Un sufolo suona, un gorgoglio

soave, solingo, senz'eco.

Tra campi di rosso trifoglio,

tra campi di giallo fiengreco,

mi trovo; mi trovo in un piano

che albeggia, tra il verde, di chiese;

mi trovo nel dolce paese

lontano.

 

Per l'aria, mi giungono voci

con una sonorità stanca.

Da siepi, lunghe ombre di croci

si stendono su la via bianca.

Notando nel cielo di rosa

mi arriva un ronzìo di campane,

che dice: Ritorna! Rimane!

Riposa!

 

E sento nel lume sereno

lo strepere nero del treno

che non s'allontana, e che va

cercando, cercando mai sempre

ciò che non è mai, ciò che sempre

sarà...

 

(da "Canti di Castelvecchio”, Rizzoli, Milano 1993, pp.365-373)