domenica 11 agosto 2019

Da "Conversazione in Sicilia" di Elio Vittorini


Riporto di seguito l'incipit del bellissimo romanzo Conversazione in Sicilia, di Elio Vittorini (Siracusa 1908 - Milano 1966). Il libro da cui ho tratto questo frammento fu pubblicato per la prima volta quando in Italia imperversava una dittatura. La storia raccontata dallo scrittore siciliano può essere sintetizzata in un viaggio che fa il protagonista verso la terra natale, in cui incontra una serie di personaggi simbolici e reali, coi quali dialoga e discute; giunto in Sicilia, trova la madre che si è separata dal marito, e con lei soggiorna per un periodo, seguendola nei suoi spostamenti per lavoro e ragionandovi su vari argomenti, fino al momento della partenza, preceduta da un'altra serie d'incontri e di eventi enigmatici.
In questo frammento, viene messo in primo piano lo stato d'animo del protagonista, che sta vivendo all'interno di un paese dove si è installata da tempo una dittatura per lui insopportabile; col passare degli anni, la sua ribellione verso la tirannia presente si è mutata in totale non-speranza, che ha trasformato i suoi comportamenti sociali, portandolo ad un mutismo forzato, dovuto alla impossibilità di dichiarare le proprie opinioni, evidentemente non gradite al potere. La sua vita si è ridotta così in una triste serie di azioni quotidiane, automatiche, e alla rinuncia di qualsiasi slancio vitale, a favore di un'apatia obbligatoria, per chi, come lui, amava sentirsi libero di proclamare pubblicamente le sue idee, sebbene minoritarie e avverse ai più.
Mi pare opportuno rileggere questo brano letterario, poiché ho la sensazione di essere in un periodo che anticipi nuove dittature; questo sovranismo, così anacronistico, basato su un egoismo senza confini e su un razzismo che non ha precedenti, spietato e dietro al quale si nasconde il più sinistro nazionalismo (causa dell'ultima sanguinosa guerra che ha coinvolto l'Europa intera) sta dilagando, e non so sinceramente dove ci porterà. Naturalmente spero di avere una sensazione sbagliata, e che le mie elucubrazioni siano dettate, una volta di più, soltanto da un pessimismo spiccato.



Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch'erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un'ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l'acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla.

(da "Conversazione in Sicilia" di Elio Vittorini, Rizzoli, Milano 1994)

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