Il giorno dei Santi, poi quello dei Morti, poi quello delle medaglie a noi, terza festa nella malinconia della stagione.
Là in faccia alla reggia, dove tutto dice che i Borboni non torneranno mai più, la piazza di San Francesco di Paola era parata di bandiere. In mezzo, un seggio, delle dame, dei generali, dei grandi intorno al Dittatore che ancora aveva il cappello di Marsala. Vidi il Carini, ora generale, balioso, ringiovanito, col braccio al collo, pareva felice. La Legione ungherese faceva scorta d’onore, e vi erano i Granatieri schierati che facevano scorta anch’essi. Noi davamo le spalle alla reggia aspettando. A un certo punto il Dittatore si alzò, e venne verso noi dicendo con la sua voce limpida ed alta: «Soldati dell’indipendenza italiana, Veterani benché giovani dell’esercito liberatore, vi consegno le medaglie che il Municipio di Palermo decretò per voi. Comincieremo dai morti, i nostri morti...».
E allora un ufficiale cominciò a chiamare a nome i morti che rispondevano in noi, con l’improvviso ritorno della loro visione. Ma passato questo giorno non saranno ricordati solennemente mai più? Furono da cento nomi d’umili ignoti o d’illustri, e a ogni nome un fremito correva tutta la nostra fila. Meglio morti o vivi? Si difondeva una malinconia cupa che pur pareva entusiasmo.
(Da "Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille" di Giuseppe Cesare Abba, Acquaviva, Milano 2007, pp. 284-285)
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