Sebbene non sia il periodo del carnevale, voglio lo stesso parlare di "maschere". Ma le maschere protagoniste di questo post, non sono quelle reali, usate nelle feste e negli spettacoli: sono quelle che si esteriorizzano in generalizzati comportamenti pubblici, assai diffusi oggi, dove, per nascondere una realtà fatta di sconfitte, di privazioni e d'infelicità, certi individui si mostrano assai differenti da come sono, palesando, tramite immagini o filmati personali, atteggiamenti gioiosi e sguaiata allegria. C'è, in questo tipo di presentarsi agli occhi altrui, una profonda paura di essere giudicati in modo negativo; il timore di passare per "sfigati" (termine volgare che da un po' di anni a questa parte va di moda), ovvero per dei falliti, degli sconfitti. Tale timore è ancor più accentuato dal fatto che i cosiddetti "sfigati", molto spesso, vengono additati con totale disprezzo, da personaggi che, seppur non meritino alcuna importanza, vengono reputati dei "vincenti". Ma per convincere tante e tante persone a scegliere la via del mascheramento, basta la frequentazione dei "social network" (molto si potrebbe discutere sui lati positivi e quelli negativi di tali servizi); in questo contesto, situato tra il virtuale ed il reale - ma purtroppo a prevalere è la prima caratteristica -, viene apprezzato soltanto chi dimostra di possedere quei requisiti (falsi o veri che siano) riconducibili alla categoria dei "vincenti". Insomma, a questo ballo moderno e diabolico, chi non si maschera ha perso.
Passando ora alla poesia di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950) intitolata, appunto, La maschera, il geniale poeta romano, nel suo dialetto, colloquia con una vecchia maschera da lui usata molti anni prima, e ancora presente nella sua casa. Come è consueto nella poesia di Trilussa, il dialogo diviene qualcosa di fantastico, perché l'oggetto ha la magica possibilità di parlare col poeta; e quando quest'ultimo gli chiede come riesca a mantenere quel sorriso ampio che la contraddistingue in qualsiasi situazione, essa risponde affermando la totale inutilità di qualsiasi stato d'animo diverso dall'ilarità, consigliando infine all'interlocutore di atteggiarsi allo stesso modo, e di mascherare sempre sia il dolore che la tristezza. Il poeta dà retta alla maschera, ma il suo nuovo proporsi pubblicamente, gli causa soltanto dei giudizi negativi, poiché viene scambiato per un egoista ed un menefreghista. Questi versi ricordano un po' la favola di Esopo intitolata Il contadino, il figlio e l'asino, visto che l'uomo, qualunque tipo di comportamento decida di portare avanti, trova sempre valutazioni negative: falsa commiserazione, compatimento, ampia disapprovazione mista a disprezzo. Quindi, alla fine è meglio non dare alcuna importanza ai metri di giudizio della maggior parte degli esseri umani, mostrandosi sempre e comunque per quelli che si è veramente.
LA MASCHERA
Vent'anni fa m'ammascherai pur'io!
E ancora tengo er grugno de cartone
che servì p'annisconne quello mio.
Sta da vent'anni sopra un credenzone
quella Maschera buffa, ch'è restata
sempre co' la medesima espressione,
sempre co' la medesima risata.
Una vorta je chiesi: - E come fai
a conservà lo stesso bon umore
puro ne li momenti der dolore,
puro quanno me trovo fra li guai?
Felice te, che nun te cambi mai!
Felice te, che vivi senza core! -
La Maschera rispose: - E tu che piagni
che ce guadagni? Gnente! Ce guadagni
che la gente dirà: Povero diavolo,
te compatisco... me dispiace assai...
Ma, in fonno, credi, nun j'importa un cavolo!
Fa' invece come me, ch'ho sempre riso:
e se te pija la malinconia
coprete er viso co' la faccia mia
così la gente nun se scoccerà... -
D'allora in poi nascónno li dolori
de dietro a un'allegria de cartapista
e passo per un celebre egoista
che se ne frega de l'umanità!
(da "Poesie scelte", volume primo, Mondadori, Milano 1993, p. 151)
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